| Oggi è il 128° anniversario della morte del compositore ungherese Franz Liszt. Moltissimi Paesi hanno celebrato attraverso la filatelia quello che fu senz'altro uno dei più grandi pianisti dell'Ottocento. Noi ci limiteremo alle tre emissioni delle poste austriache in omaggio a Raiding, il suo villaggio natale che dopo la Prima Guerra Mondiale andò a formare la provincia del Burgenland insieme ad altri territori dell'Ungheria occidentale. I tre francobolli che l'Austria ha dedicato all'illustre musicista - nel 1961, in occasione del 150° anniversario, nel 1986, per il 175°, e nel 2011 per il bicentenario - hanno voluto ricordare la sua nascita attraverso ritratti appartenenti a momenti diversi della sua vita. L’Antica Frontiera è il posto giusto dove ascoltare il Sogno d’amore di Franz Liszt. Saranno a vostra disposizione il cielo stellato di Monghidoro, il silenzio delle sue montagne e un buon impianto stereo. Venite quassù a provare e poi provate a dimenticarvelo. |
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Oggi è il 196° anniversario della nascita della scrittrice inglese Emily Brontë. Le poste britanniche hanno ricordato l'autrice di "Cime tempestose" nel 1980, in una serie di Europa Cept dedicata quell'anno ai personaggi illustri, con un bel francobollo da 15 p. che la ritrae mentre tiene in mano il celebre libro e con una scena tratta dal suo capolavoro sullo sfondo. Sono appena ritornato da una visita al mio padrone di casa, il solo vicino col quale avrò a che fare. Questa è indubbiamente una bella contrada. Credo che in tutta l’Inghilterra non avrei potuto scegliermi un altro posto più lontano dal frastuono della società. È il paradiso del perfetto misantropo; e il signor Heathcliff ed io siamo fatti apposta per una simile desolazione. Un uomo veramente singolare! Non immaginava certo quale viva simpatia sentissi per lui quando vidi i suoi occhi neri ritrarsi così sospettosamente sotto le ciglia al mio avanzare a cavallo, e le sue mani rifugiarsi ancor più addentro nel panciotto, con gelosa risolutezza, all’annuncio del mio nome. «Il signor Heathcliff» dissi. Un inchino del capo fu la risposta. «Il signor Lockwood, il vostro nuovo affittuario, signore. Mi faccio l’onore di presentarmi a voi il più sollecitamente possibile, subito dopo il mio arrivo, voglio esprimervi la speranza che ho di non esser stato troppo importuno con la mia insistenza nel chiedervi di poter abitare Thrushcross Grange. Proprio ieri ho saputo che voi avevate l’intenzione…» «Thrushcross Grange è mia proprietà, signore» mi interruppe, aggrottando le ciglia. «Non permetterei mai a nessuno di importunarmi, poiché sta solo a me d’impedirlo… Entrate!» Quell’«entrate» fu pronunciato a denti stretti ed esprimeva un sentimento ben diverso, a esempio, «Andatevene al diavolo!»; perfino il cancello al quale si era appoggiato non diede il minimo segno di consenso a quella parola, e credo che fu proprio tale circostanza a farmi accettare l’invito: sentii interesse per quell’uomo che sembrava esageratamente riservato, ancora più di quanto lo fossi io. Quando vide che il mio cavallo già si spingeva col petto contro la sbarra, allora, finalmente, levò una mano per togliere la catena, e precedendomi piuttosto di malavoglia per il vialetto, entrò nella corte e gridò: «Giuseppe, prendi il cavallo del signor Lockwood e portaci su del vino.» «Questa dev’esser tutta la sua servitù, m’immagino,» fu la riflessione suggeritami da quell’ordine. «Nessuna meraviglia se l’erba cresce fra le pietre e il solo bestiame pensa a cimare le siepi.» Giuseppe era un uomo in età, anzi, un vecchio; forse molto vecchio, quantunque sano e vigoroso. «Che il Signore ci aiuti!» monologò sottovoce, con mal celato dispetto, mentre prendeva le briglie del mio cavallo, e mi guardava con un viso così arcigno che conclusi, caritatevolmente, che avesse bisogno dell’aiuto divino per digerire il pranzo, e che la sua pia invocazione non dovesse avere quindi alcun riferimento al mio inaspettato arrivo. Wuthering Heights è il nome della residenza di Heathcliff; «Wuthering» è un aggettivo molto espressivo, proprio di quella provincia, e descrive il tumulto atmosferico al quale trovasi esposta durante la bufera. Debbono avere aria pura e mossa lassù in ogni momento! Ci si può immaginare la violenza del vento del nord quando soffia al di sopra della siepe, dall’esagerata inclinazione di alcuni miseri abeti che stanno al limitare della casa e da uno sparuto filare di squallidi ceppi di roveti che tendono le braccia da un sol verso come ad impetrare l’elemosina dal sole. Fortunatamente, l’architetto che eresse quella casa, ebbe l’avvertenza di costruire un edificio solido: le strette finestre sono bene incastrate nel muro, e gli angoli sono difesi da larghe pietre sporgenti. Prima di passare la soglia mi soffermai ad ammirare i grotteschi profusi sulla facciata, specialmente come decorazione della porta principale, sopra la quale tra uno scialo di grifoni e di putti nudi, scoprii la data «1500», ed il nome «Hareton Earnshaw». Avrei voluto fare qualche commento, o chiedere la breve storia del luogo allo scontroso proprietario, ma il modo con cui questi si teneva sulla porta, sembrava esigere o un’immediata entrata, o una ancor più rapida partenza, ed io non desideravo accrescere la sua impazienza prima di visitare quei penetrali. Questo è l’incipit di Cime tempestose, scritto da Emily Brontë e pubblicato per la prima volta nel 1847. È considerato un classico della letteratura inglese e ha ispirato molti adattamenti, compresi diversi film, sceneggiati radiofonici e televisivi, e un musical, come pure una canzone di successo di Kate Bush intitolata Wuthering Heights. Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera. Oggi è il 124° anniversario della morte, avvenuta nel 1890 ad Auvers-sur-Oise, del pittore olandese Vincent Van Gogh.
Nel corso degli anni tantissime nazioni lo hanno ricordato con esemplari filatelici raffiguranti i suoi magnifici quadri. Per celebrare il suo anniversario abbiamo quindi preferito limitarci alle cinque emissioni dei Paesi Bassi. Il primo francobollo, che raffigura l'artista davanti alla sua tela, è un esemplare litografico del 1940 da 1,5 c. + 1,5 color marrone scuro, facente parte della serie di cinque valori a favore dell'assistenza sociale e culturale. Il secondo, un esemplare lilla da 25+8 c. emesso nel 1954, è un altro ritratto del celebre pittore, anch'esso parte di una serie di cinque valori a favore dell'assistenza sociale e culturale. Nel 1990, in occasione del centenario della morte, le poste olandesi emisero due francobolli: quello da 55 c. riproduce un autoritratto a matita, quello da 75 c. un dettaglio del celebre dipinto "Il vigneto verde", un'opera del 1888 che riflette tutta la carica emotiva del pittore negli ultimi anni della sua vita. Le ultime due emissioni, forse le più belle e complete da un punto di vista grafico, vennero alla luce il 2 gennaio 2003, anno in cui fu commemorato il 150° anniversario della nascita di Van Gogh. Lo splendido foglietto di 10 valori da 39 c., ottima sintesi dell'opera pittorica del maestro, include i seguenti quadri: "Paesaggio autunnale con quattro alberi", "I mangiatori di patate", "Quattro girasoli appassiti", "Autoritratto con cappello di filtro grigio", "Lo zuavo", "La terrazza del caffè in Place du Forum ad Arles di notte", "Prato fiorito con tronchi d'albero e denti di leone", "Rami di mandorlo fioriti", "Veduta di Auvers" e "Campo di grano con corvi". I tre valori autoadesivi con dentellatura a onde emessi sempre lo stesso giorno raffigurano altrettanti quadri famosissimi: "Autoritratto con cappello di paglia" (39 c.), "14 girasoli in un vaso" (59 c.) e "Seminatore al tramonto" (75 c.). Nel febbraio 1890 Van Gogh aveva scritto da Saint-Rémy, spinto dalla necessità di farsi “scusare del fatto che i miei quadri sono quasi un grido d’angoscia” (lettera a Wil 20, metà febbraio 1890). Il trasferimento a Auvers lo aveva in un primo momento rasserenato, grazie al sodalizio con il dottor Gachet. I suoi quadri, inoltre, esposti presso il Salon des Indépendants e Les XX, a Bruxelles, stavano cominciando a raccogliere i primi consensi e Theo aveva avuto un figlio, battezzato Vincent. All’inizio di luglio, però, le cose precipitarono nuovamente. Il fratello ebbe seri problemi professionali e la moglie e il figlio caddero gravemente ammalati. Vincent si recò a Parigi a trovarlo, ma le preoccupazioni del fratello gli tolsero le certezze faticosamente riconquistate. Aveva sempre vissuto con colpevolezza la propria dipendenza economica da Theo e lo sconforto gli fece rinascere il terrore di nuove crisi. Giunse addirittura a rompere i rapporti con il dottor Gachet, restando così completamente isolato. La sera del 27 luglio andò in campagna e si sparò un colpo di pistola, morendo dopo due giorni, assistito dal fratello. Il campo di grano con corvi, insieme alla Chiesa di Auvers, può essere considerato il suo testamento artistico e spirituale. Dipinto pochi giorni prima del suicidio, esso risente del dramma esistenziale del suo autore. Nonostante ritorni l’accoppiamento giallo-blu, esso ha perso ogni nota gioiosa. La tela è dominata da un’atmosfera cupa, carica di presagio, e il volo di corvi non alleggerisce in alcun modo la tensione. I colori, sovraccaricati, sono stesi con una pennellata franta e spigolosa. Erano passati soltanto cinque anni dalla realizzazione dei Mangiatori di patate, la sua prima opera significativa. La parabola artistica di Van Gogh fu brevissima e la sua evoluzione fulminea. Se volete approfondire vita e opere di Vincent Van Gogh potete continuare a leggere il volume a lui dedicato de I classici dell’arte nella biblioteca dell’Antica Frontiera. Oggi è il 220° anniversario dell'esecuzione di Maximilien Robespierre e di Louis-Antoine-Léon Saint-Just, ghigliottinati il 10 Termidoro dell'anno II della Rivoluzione Francese, al termine del cosiddetto periodo del Terrore.
Curiosamente la Francia ha ricordato con un unico francobollo quello che fu forse il più noto, ma anche il più controverso protagonista della Rivoluzione: la bella serie di sei valori litografici emessi nel 1950 per la Croce Rossa e dedicata a famosi francesi del 18° secolo lo raffigura nell'esemplare da 15+6 franchi, in un bel ritratto contornato da cannoni, bandiere, fasci repubblicani e berretti frigi. Saint-Just, fra i principali artefici del Terrore che insanguinò la Francia tra il 1793 e il 1794, è stato ricordato dalle poste transalpine nel 1991, in uno dei quattro valori litografici da 2,50 franchi che compongono lo splendido foglietto emesso in occasione del bicentenario della Rivoluzione. Maximilien Robespierre, l'”incorruttibile” Maximilien-François-Isidore Robespierre (1758-1794) apparteneva a una famiglia della piccola nobiltà provinciale (il padre era avvocato al consiglio di Arras); compì i primi studi nel collegio di Arras, sua città natale, e nel 1769 entrò, con una borsa di studio, nel collegio parigino Louis-le-Grand. A Parigi scoprì il pensiero di Rousseau, la cui influenza fu molto importante. Nel 1781, iscritto sul registro degli avvocati di Parigi, ritornò ad Arras per iniziarvi la sua nuova carriera. La scelta di difendere una clientela modesta, composta di umili e di oppressi, lo isolò nell’ambiente borghese della sua città, sicché quando il Terzo stato si riunì per l’elezione dei deputati all’assemblea provinciale egli fu escluso dalle discussioni. Ma fu il programma con cui si presentò, nel marzo del 1789, alla riunione preliminare del Terzo stato di Arras che gli valse la nomina a deputato presso gli Stati generali. Di nuovo a Parigi, nel marzo dell’anno seguente venne nominato presidente del club dei giacobini. Nell’ottobre fu eletto primo magistrato al tribunale del distretto di Versailles. Dopo la fuga del re, Robespierre tenne un contegno cauto, temendo che l’appello rivolto dai moderati a raccogliersi attorno alla monarchia potesse rompere l’unità del ceto rivoluzionario e mettere in pericolo le conquiste sino allora ottenute. In seno alla costituente si segnalò presto, con interventi su tutte le questioni più importanti. Parallelamente cresceva la sua influenza nel club dei giacobini e tra la borghesia rivoluzionaria. Così il suo ultimo viaggio ad Arras, in ottobre, fu quasi un trionfo. Tornato a Parigi, dal novembre del 1791 si dedicò a una grande battaglia di cui avvertiva ormai l’urgenza di fronte all’entusiasmo che i girondini dimostravano per la guerra contro l’Austria e la Prussia. Per Robespierre la guerra avrebbe potuto condurre alla sconfitta della Rivoluzione, perché, facendo rivolgere l’attenzione del popolo sui nemici esterni, lo avrebbe reso meno vigile e meno pronto a respingere gli attentati dei nemici della libertà. Robespierre venne eletto nella Convenzione nazionale nel 1792, si pronunciò a favore della condanna a morte del re e iniziò una dura opposizione ai girondini che denunciò per corruzione alla Convenzione il 23 aprile 1793. Tuttavia, la Convenzione esitava a rendere pubblica la denuncia e allora Robespierre esortò il popolo parigino a insorgere contro i deputati corrotti. Il 30 si costituì il comitato insurrezionale e il 31 si ebbe l’insurrezione meglio preparata e diretta di tutte le insurrezioni del periodo rivoluzionario. In seguito Robespierre divenne membro del comitato di salute pubblica e dominò per un anno la scena politica francese, intervenendo costantemente alla Convenzione e al club giacobino, dirigendo il comitato di salute pubblica, guidando l’esigua schiera dei suoi fedeli (Saint-Just, Couthon, Lebas). Poco dopo (il 5 settembre) ebbe inizio il Terrore che portò dapprima all’eliminazione dell’opposizione di destra quindi degli hébertisti e infine di Danton. Dopodiché il Terrore ricevette una nuova organizzazione e venne sempre più sottoposto alla diretta sorveglianza del comitato di salute pubblica: esso aveva imposto ai Francesi una continua tensione chiamandoli a combattere contro i nemici esterni e contro quelli interni ed era stato seguito dal consenso del Paese fino a quando questo aveva avvertito i due pericoli. Ma verso la metà del 1794 la vittoria di Fleurus (26 giugno) fermava la minaccia dell’invasione e ridava spazio agli elementi avversi a Robespierre e ai giacobini. Nella seduta del 9 termidoro (27 luglio 1794) la Convenzione si rivoltò a Robespierre e ne decretò l’arresto. Tradotto nella prigione del Lussemburgo, egli fu liberato nella sera stessa dalla Comune insorta. La notte, tuttavia, le milizie della Convenzione lo arrestarono nell’Hôtel de Ville, dove Robespierre, ormai non più in grado di padroneggiare la situazione, tentò il suicidio. Il 10 termidoro fu ghigliottinato. Saint-Just, il giovane alter-ego di Robespierre Louis-Antoine-Léon Saint-Just (1767-1794), figlio di un capitano di cavalleria, studiò dapprima al collegio degli oratoriani a Soissons e poi, dopo un breve periodo in un istituto di correzione per essere scappato di casa con l’argenteria della madre, si iscrisse alla facoltà di legge a Reims, dove si laureò nel 1788. Nel 1790, cominciò a dedicarsi attivamente alla vita politica, e venne nominato colonnello della guardia nazionale di Blérancourt. Nell’agosto di quell’anno entrò anche in contatto epistolare con Robespierre. Fino al novembre 1792 non si sa quasi nulla di lui, tranne che nel settembre 1792 venne eletto dal suo dipartimento nella Convenzione. Fra novembre e dicembre apparve appunto come oratore e nei suoi primi discorsi chiese la condanna di Luigi XVI. Nei mesi seguenti si pronunciò sulla riorganizzazione dell’esercito, che auspicava fosse democratico e subordinato all’assemblea, e contro il nuovo progetto di Costituzione di Condorcet, in cui non vedeva assicurata una stretta dipendenza del potere esecutivo da quello legislativo e di cui, inoltre, condannava il federalismo. Nel breve periodo (poco più di un anno) nel quale esercitò funzioni di governo, si dimostrò tutto preso da un unico, predominante problema, quello di garantire l’unità nazionale nel quadro della repubblica democratica. Da allora aveva assunto una posizione di primo piano, apparendo il più stretto collaboratore di Robespierre, e a lui infatti furono affidati i compiti più difficili e più delicati, come la proposta alla Convenzione, in nome del comitato di salute pubblica, di un decreto sui mezzi per indennizzare la povera gente, che sosteneva la Rivoluzione, con i beni dei nemici della Francia. Saint-Just ebbe ancora un ruolo importante nella difesa del territorio nazionale dallo straniero, con le sue missioni alle armate del Reno e del nord (gennaio-febbraio e aprile-maggio 1794) e infine alle frontiere del nord e dell’est (giugno 1794). Riuscì a risollevare il morale delle truppe e a condurle alla vittoria, tra cui la più importante fu quella di Fleurus (26 giugno 1794). Anche lui fu travolto nel crollo della “Montagna” e il 28 luglio 1794, dopo che aveva tentato, il giorno prima, di parlare alla Convenzione in difesa di Robespierre, fu ghigliottinato insieme a lui. Se volete approfondire l’intero periodo della Rivoluzione francese potete farlo sfogliando il 10° volume de La Storia – Dalle grandi rivoluzioni alla restaurazione nella biblioteca dell’Antica Frontiera. Oggi è il 61° anniversario dell'attacco di Fidel Castro e dei suoi ribelli alla Caserma della Moncada, a Santiago di Cuba. L'attacco fallì, ma segnò l'inizio della Rivoluzione cubana. Le poste di Cuba hanno nel corso degli anni celebrato molte volte l'episodio da cui prese poi il nome il movimento che conquistò il potere sei anni più tardi, il 1° gennaio 1959. Qui sono rappresentate le emissioni del 1962, del 1963, del 1968, del 1973, la serie di tre valori del 1978, quella di due valori del 1983 e l'emissione del 1988.
Cortile degli USA. Che cosa fu, dunque, la revoluciòn? E perché diventò una rivoluzione comunista? Per rispondere occorre fare un lungo passo indietro, fino al 1951, quando a Mosca regnava ancora Stalin, in Asia divampava la guerra di Corea e in Italia nasceva il Festival di Sanremo. All’epoca Cuba era di fatto una colonia degli Stati Uniti, una miniera a buon mercato di zucchero e nichel; ma anche un “cortile di casa” riservato a servizi sgraditi in salotto: un po’ casinò, un po’ bordello, un po’ vivaio di gangster. “Il miglior posto per ubriacarsi” la definì l’attore americano Errol Flynn. Allora Fidel Castro aveva 26 anni ed era un avvocato fresco di laurea. Ma soprattutto era un militante del Partido ortodoxo, formazione radicaleggiante ma anticomunista, fondata da Eddy Chibàs, un Antonio Di Pietro alla cubana, che conduceva accese quanto inefficaci campagne contro la corruzione dilagante. Il 5 agosto Chibàs prese parte a una trasmissione radio e lanciò un accorato appello che finiva così: “Popolo di Cuba, svegliati! E’ l’ultima volta che busso alla tua porta!“. Quindi si uccise in diretta con un colpo di pistola. Il gesto disperato di Chibàs provocò un’enorme impressione e il suo partito si presentò in pole position alle elezioni presidenziali del 1952. Ma alla vigilia del voto, il 10 marzo, un golpe portò al potere il futuro grande nemico di Fidel: Fulgencio Batista, appassionato di canasta e di film dell’orrore, che sciolse i partiti, sospese il parlamento e chiuse l’università. Una settimana dopo, il governo golpista fu riconosciuto dagli Stati Uniti. L’Urss invece ruppe ogni rapporto diplomatico con L’Avana. Assalto. Fu allora che Castro e altri radicali scelsero la via delle armi. E all’alba del 26 luglio 1953 (da cui il nome del futuro Movimiento) scesero in campo con un atto di guerra: l’assalto a due caserme, fra cui il Cuartel Moncada di Santiago, dove circa mille soldati sbronzi smaltivano gli effetti del “carnevale” locale, festeggiato la notte prima. L’episodio, poi mitizzato come prologo della revoluciòn, in realtà fu un disastro: alcuni ribelli sbagliarono strada, altri spararono troppo presto, allertando le sentinelle; l’auto di Fidel finì su un marciapiedi e un’altra forò prima di arrivare sull’obiettivo. Quel cruento scherzo di carnevale costò ai soldati del presidio 19 morti. Sull’altro fronte, su 157 ribelli, 9 caddero in battaglia, 68 furono trucidati dopo la resa, 48 tornarono a casa in autobus alla spicciolata o si mimetizzarono in un ospedale fingendosi malati, e altri 32 furono arrestati e processati. Nell’ultimo gruppo c’era anche Fidel, condannato a 15 anni. “Non importa, la Storia mi assolverà!” commentò lui. Ma allora, non l’assolsero neppure i comunisti cubani, che bollarono gli aventuristas di Santiago con parole durissime. A conti fatti, però, di anni Castro ne scontò meno di tre, perché nell’aprile del 1955 il governo, in cerca di consensi, firmò un’amnistia per tutti i prigionieri politici. Secondo Hugh Thomas fu il più grande errore di valutazione compiuto da Batista. Infatti Fidel partì con Raùl per il Messico, in esilio volontario. E là riprese a congiurare, contattando altri fuoriusciti cubani. Una di loro, Teresa Casuso, scrittrice di teatro, lo ricorderà così: “Dava l’impressione di essere nobile, sicuro, deciso, come un grande terranova“. Se volete approfondire le tappe della Rivoluzione Cubana potete farlo sfogliando le pagine 33-77 del n. 29 di Focus Storia nella biblioteca dell’Antica Frontiera. Oggi è il 71° anniversario della caduta del fascismo. Il 25 luglio 1943 Benito Mussolini venne costretto a lasciare l’incarico dal Gran Consiglio del Fascismo che votò l’ordine del giorno Grandi, e successivamente venne arrestato a Villa Savoia dai capitani dei Carabinieri Paolo Vigneri e Raffaele Aversa e sostituito al governo da Pietro Badoglio. Purtroppo non ci sono francobolli italiani che ricordano questo momento fondamentale della nostra Storia: le regie poste avevano dedicato la loro ultima emissione a Gioacchino Rossini e da ben otto mesi, data anche la difficilissima situazione in cui versava il Paese, si limitavano a utilizzare l'esistente. Le emissioni in Italia riprenderanno solo nel dicembre 1943, ma in un Paese spaccato in due e insanguinato dalla guerra civile: a nord, nella Repubblica di Salò, con la sovrastampa della serie imperiale ad opera della Guardia Nazionale Repubblicana e a sud con le emissioni alleate della Luogotenenza. Curiosamente nella nostra penisola l'unica serie filatelica dedicata alla caduta del fascismo è stata emessa dalla Repubblica di San Marino. Quasi fosse una specie di contrappasso il 27 agosto 1943 le poste del Titano ripresero l'emissione che qualche mese prima aveva celebrato il ventennale dei Fasci e la soprastamparono, cancellando la scritta commemorativa e stampigliando sui francobolli le diciture "28 luglio 1943" (a San Marino il fascismo cadde tre giorni dopo) e "1642 d.F.R." (nell'anno 1642 dalla fondazione della repubblica). I fasci non vennero invece coperti dalla soprastampa, ma questa è un'altra storia. Alle cinque di quel torrido pomeriggio tutti i convocati si ritrovarono nella Sala del Pappagallo, che, adiacente alla Sala del Mappamondo, serviva normalmente da anticamera per le udienze del Duce, ma ospitava anche le riunioni del Gran Consiglio. Ne facevano parte i membri vitalizi (i quadrumviri), i membri divenuti tali per le cariche che ricoprivano (i presidenti del Senato e della Camera, i ministri, il presidente della Accademia d’Italia Federzoni, il Capo di Stato Maggiore della Milizia, il presidente del Tribunale speciale, i presidenti delle confederazioni fasciste) e infine i membri cooptati per meriti speciali, come Bottai, Ciano, Buffarini Guidi, Farinacci, De Stefani, Alfieri, Marinelli, Rossoni. I sottosegretari agli Esteri e agli Interni, Bastianini e Albini, convocati, non avevano diritto di voto, ma finirono per votare entrambi a favore dell’ordine del giorno Grandi. A un invito del commesso Navarra tutti si sistemarono ai loro posti, quindi entrò – erano le 17.14 – Mussolini, che non rivolse la parola ad alcuno, e fece appena un cenno quando Scorza intimò il saluto al Duce, e gli altri risposero con il rituale e corale “A noi!” alzando il braccio nel saluto romano. Senza indugi, Mussolini si rivolse ai “camerati che hanno ritenuto fosse loro dovere esporre a me personalmente il loro punto di vista sulla situazione del Paese”; la sua voce era calma, con qualche punta sarcastica, a tratti stanca. Da una cartella traeva documenti che via via citava. La guerra, ammise il Duce, era in una fase “estremamente critica”, il territorio metropolitano era stato investito, e questo aveva dato fiato agli oppositori, compresi i fascisti imborghesiti che vedevano in pericolo le loro personali posizioni. “In questo momento – riconobbe – io sono l’uomo più detestato, anzi odiato in Italia, il che è perfettamente logico… La verità è che nessuna guerra è popolare all’inizio: lo diventa se va bene, e se va male diventa impopolarissima.” “E’ questo – continuò – il momento di stringere le file, e di assumersi le responsabilità necessarie. Non ho alcuna difficoltà a cambiare uomini, a girare la vite… Nel 1917 furono perdute province del Veneto, ma nessuno parlò di resa, allora si parlò di portare il Governo in Sicilia. Oggi, qualora fosse inevitabile, lo porterò nella valle del Po.” Infine, pose il dilemma: guerra o pace? Capitolazione o resistenza? Il discorso, durato due ore, era finito. L’autodifesa era stata debole. Dopo alcuni interventi senza rilievo alle 21, mentre il caldo opprimente si stava un po’ attenuando, gli occhi dei gerarchi si volsero a Dino Grandi. Era il turno del conte di Mordano – questo il titolo nobiliare concessogli dal Re – che presentò l’ordine del giorno, e per un’ora lo illustrò, dopo aver professato, a mo’ d’introduzione, la sua fedeltà al Duce. Spiegò che era proprio nell’interesse del Duce di essere alleviato di “una parte del pesante fardello che attualmente pesa solo su di te”. “Restituiteci Duce – perorò – la nostra vecchia cara indimenticabile camicia nera, senza aquile e galloni e fronzoli” e concluse citando una frase pronunciata nel 1924 da Mussolini stesso: “Periscano tutte le fazioni, anche la nostra, purché si salvi la Patria”. Grandi sedette. Mussolini, impassibile, diede la parola a Polverelli (ministro del Minculpop), e subito dopo a Galeazzo Ciano. Ancora pallido per una recente malattia, il genero del dittatore cominciò esitante, ma divenne sempre più sicuro a mano a mano che procedeva nel suo intervento, dedicato ai rapporti con i tedeschi, e alla doppiezza di cui essi si erano resi colpevoli nei riguardi dell’Italia. Il tono era deferente verso Mussolini, che tuttavia seguiva il discorso con crescente malumore, roteando gli occhi e stringendo le mascelle. Solo quando Ciano ricordò che la Germania s’era buttata in guerra nel 1939 dopo aver assicurato che non l’avrebbe fatto se non in epoca molto successiva, Mussolini mormorò: “Verissimo”. La Germania aveva nel Gran Consiglio un difensore a oltranza, Farinacci, che balzò in piedi, massiccio, greve, la voce tonante, e presentò un suo ordine del giorno che alla prima lettura poteva sembrare assai vicino a quello di Grandi. Suggeriva anch’esso di attribuire agli organi dello Stato i compiti istituzionali, e di restituire al Re il Comando supremo, ma aveva la sua chiave in questa frase: il Gran Consiglio “afferma il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere fino all’estremo il sacro suolo della Patria, rimanendo fermi nell’osservanza della alleanza conclusa”. Passate le 23, il capo di Stato Maggiore della Milizia Galbiati suggerì qualcosa a Scorza che passò un biglietto a Mussolini. “Alcuni camerati, data l’ora tarda e il prolungamento della seduta – disse Mussolini – ne propongono il rinvio a domani.” Grandi insorse: “Per la Carta del lavoro ci tenesti qui sette ore. Adesso che si tratta della salvezza della Patria possiamo rimanere a discutere per tutto il tempo necessario”. Con strana docilità, il Duce accettò l’obbiezione. “Va bene – disse – sospenderemo per mezz’ora.” A passi decisi si avviò verso la Sala del Mappamondo. I membri del Gran Consiglio si erano trattenuti a bere surrogato, a masticare qualche panino – il buffet era sguarnito perché nessuno aveva previsto la lunghezza della riunione – e a fumare. Grandi aveva lasciato su un tavolo due copie del suo ordine del giorno: lo firmarono De Bono e De Vecchi, e dopo di loro altri, anche Ciano. “No, tu no” tentò di dissuaderlo Grandi, che oltre tutto lo detestava. Ma l’altro firmò ugualmente. La diciannovesima firma fu quella di Alfieri: con Grandi, 20 su 28 presenti. Trascorsero tre quarti d’ora prima che la discussione riprendesse. In quel momento Mussolini dovette avere la sensazione che fosse possibile domare il pronunciamento, e parlò con efficacia. “Chi chiede la fine della dittatura – osservò – sa di volere la fine del fascismo. Grandi può porre in giuoco l’esistenza del Regime.” Allarmato dall’effetto che Mussolini aveva ottenuto, Grandi si affrettò a respingere il “ricatto sentimentale” implicito nelle sue parole, ma anche a dichiarare che “noi abbiamo sempre inteso di porre la tua persona al di fuori e al di sopra non solo di questa, ma di tutte le discussioni e di tutti gli esami che abbiamo fatto”. Fu a questo punto che Scorza presentò il suo ordine del giorno che esaltava i combattenti “insieme coi valorosi camerati germanici”, e proclamava la urgente necessità di “attuare quelle riforme e innovazioni nel Governo, nel Comando supremo, nella vita interna del paese le quali… possano rendere vittorioso lo sforzo unitario del popolo italiano”. Lo sviluppo del dibattito aveva fatto capire anche ai più tardi che l’ordine del giorno Grandi era una sfida a Mussolini. Si ebbero così le prime defezioni. Cianetti, ministro delle Corporazioni, espresse delle perplessità, che avrebbe formalizzato l’indomani in una lettera di ritrattazione a Mussolini e che gli salvarono la vita nel processo di Verona. Il presidente del Senato Suardo, che aveva spesso la testa appannata dall’alcool, ritirò la firma già apposta, e propose una fusione tra il testo Grandi e il testo Scorza, idea questa che trovò consenziente Ciano. Se solo si fosse data la briga, in quel frangente, di formulare un suo ordine del giorno, e presentarlo come una sintesi degli altri, Mussolini avrebbe probabilmente ottenuto una maggioranza. Rinunciò a farlo, e alle 2,30 diede inizio alla votazione, cominciando dall’ordine del giorno Grandi. I sì furono 19, i no 8, gli astenuti uno, Suardo. Votare gli altri documenti era ormai superfluo. “Chi porterà al Re questo ordine del giorno?” domandò Mussolini raccogliendo le sue carte. “Tu” rispose Grandi. “Signori – sentenziò Mussolini – … voi avete aperto la crisi del Regime.” Quando Scorza barrì il suo “saluto al Duce” Mussolini troncò secco: “Ve ne dispenso”, e il solo Polverelli non riuscì a frenare il suo flebile “A noi!”. La notte fu ancora lunga per Grandi, che Acquarone aspettava con ansia accanto a Montecitorio. Per due ore il promotore del pronunciamento fascista mise al corrente il ministro della Real Casa sullo svolgimento della seduta, gli consegnò una copia dell’ordine del giorno con le firme, infine suggerì che il nuovo governo fosse presieduto da Caviglia, e includesse l’industriale Alberto Pirelli come ministro degli Esteri, nonché elementi antifascisti come Alcide De Gasperi e Marcello Soleri. Perché Caviglia e non Badoglio? volle sapere Acquarone. Perché, spiegò Grandi, Badoglio era un antifascista che aveva accettato onori, cariche, titoli e denari dal fascismo, facendosi complice di Mussolini: ed era il responsabile della guerra perduta. Lasciato Grandi, Acquarone si recò immediatamente a riferire a Vittorio Emanuele III. D’accordo con lui fece preparare il decreto che nominava Badoglio Capo del governo e che, firmato dal Re, fu portato da Ambrosio e Castellano al maresciallo. Questi lo controfirmò. Se volete approfondire le tappe che portarono alla caduta del fascismo potete farlo sfogliando le pagine del libro di Indro Montanelli Storia d’Italia – L’Italia del Novecento nella biblioteca dell’Antica Frontiera. Oggi è il 212° anniversario della nascita dello scrittore e drammaturgo francese Alexandre Dumas (padre). Le poste francesi lo hanno ricordato nel 1970, in occasione del centenario della morte avvenuta a Puys, nella villa del suo omonimo figlio, e nel 2002, per il bicentenario della sua nascita nel paese di Villers-Cotterêts. Un terzo francobollo è stato dedicato a D'Artagnan, il famoso spadaccino protagonista della trilogia dei moschettieri.
Il primo lunedì del mese d’aprile del 1625, il borgo di Meung, dove nacque l’autore del Romanzo della Rosa, sembrava essere in completa rivoluzione, proprio come se gli Ugonotti fossero giunti per fare di esso una seconda Rochelle. Molti abitanti, vedendo le donne fuggire dalla parte della Gran Via e sentendo i bimbi strillare sulle porte, si affrettavano a indossare la corazza e, rafforzando il loro coraggio alquanto dubbio con un archibugio o una partigiana, si dirigevano verso l’osteria del Franc-Meunier, davanti alla quale si pigiava, ingrossando di minuto in minuto, un gruppo di popolo compatto, rumoroso e curioso. In quel tempo ci si spaventava con molta facilità e quasi tutti i giorni una città o l’altra registrava nei propri archivi fatti di questo genere. C’erano i signori che guerreggiavano fra loro; c’era il Re che faceva guerra al Cardinale; c’era lo Spagnuolo che faceva guerra al Re. Poi, oltre queste guerre celate o pubbliche, segrete o palesi, c’erano i ladri, i mendicanti, gli Ugonotti, i lupi e i servi che facevano guerra a tutti. I cittadini s’armavano sempre per difendersi dai ladri, dai lupi, dai servi; spesso dai signori e dagli Ugonotti, qualche volta dal Re; mai però dal Cardinale o dagli Spagnuoli. Da questa abitudine ormai inveterata, risultò che il già detto primo lunedì del mese d’aprile del 1625, gli abitanti di Meung, sentendo rumore e non vedendo né la bandiera gialla e rossa, né la livrea del duca di Richelieu, si precipitarono verso l’osteria del Franc-Meunier dalla quale proveniva il chiasso. E non appena arrivati, poterono appurarne la causa. Questo è l’incipit de I tre moschettieri, scritto da Alexandre Dumas (padre) nel 1844 e pubblicato originariamente a puntate sul giornale Le Siècle. È uno dei romanzi più famosi e tradotti della letteratura francese e ha dato inizio ad una trilogia, che comprende Vent’anni dopo (1845) e Il visconte di Bragelonne (1850). Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera. Oggi è il 57° anniversario della morte dello scrittore italiano Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Le poste italiane lo hanno ricordato nel 2007, in occasione del 50° anniversario della sua prematura scomparsa, avvenuta a Roma dove si era recato per sottoporsi a cure mediche rivelatesi purtroppo inefficaci. Il disegno del francobollo raffigura lo scrittore seduto su una panchina decorata con caratteristiche maioliche di ceramica siciliana, che adornano anche la parete alle sue spalle, intento ad osservare un libro aperto, sulle cui pagine è riportato il titolo del suo capolavoro, 'Il Gattopardo'. In alto a destra è rappresentato il felino, una rielaborazione grafica di un particolare dello stemma araldico della sua famiglia. Completano il francobollo la dicitura 'Giuseppe Tomasi di Lampedusa', le date '1896-1957', la scritta 'Italia' e il valore, '€ 0,60'. Concetta si ritirò nella sua stanza; non provava assolutamente alcuna sensazione: le sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo che già avesse ceduto tutti gli impulsi che poteva dare e che consistesse ormai di pure forme. Il ritratto del padre non era che alcuni centimetri quadrati di tela, le casse verdi alcuni metri cubi di legno. Dopo un po’ le portarono una lettera. La busta era listata a nero con una grossa corona in rilievo: “Carissima Concetta, ho saputo della visita di Sua Eminenza e sono lieta che alcune reliquie si siano potute salvare. Spero di ottenere che Monsignor Vicario venga a celebrare la prima messa nella cappella riconsacrata. Il senatore Tassoni parte domani e si raccomanda al tuo bon souvenir. Io verrò presto a vederti e intanto ti abbraccio con affetto insieme a Carolina e Caterina. Tua Angelica.” Continuò a non sentir niente: il vuoto interiore era completo; soltanto dal mucchietto di pelliccia esalava una nebbia di malessere. Questa era la pena di oggi: financo il povero Bendicò insinuava ricordi amari. Suonò il campanello. “Annetta” disse “questo cane è diventato veramente troppo tarlato e polveroso. Portatelo via, buttatelo.” Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida. Questo è l’explicit de Il Gattopardo, il famoso romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa pubblicato un anno dopo la sua morte e diventato, dopo aver ricevuto il Premio Strega nel 1959, il primo best-seller italiano con oltre 100.000 copie vendute. Chi volesse continuare a leggerlo può trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera. Oggi è l'805° anniversario della conquista di Béziers da parte dei crociati, uno spaventoso bagno di sangue che si concluse con il massacro di ventimila persone. La Francia ha ricordato il comune occitano nel 1968, in occasione del 41° congresso delle società filateliche tenutosi proprio in quella città. Il bel francobollo litografico da 40 centesimi raffigura la cattedrale di Saint Nazaire e il ponte vecchio sull'Orb. La crociata contro i catari di Linguadoca – gli albigesi, così chiamati dalla città di Albi – e il IV concilio Lateranense avevano codificato linee e principi d’azione: definizione dei limiti istituzionali delle esperienze religiose innovative, violenza repressiva verso i dissenzienti, più preciso inquadramento dei fedeli. La decisione di indire la crociata all’interno della cristianità fu presa nel 1208 a seguito dell’assassinio di un legato pontificio ad opera di armati del conte di Tolosa. Ma essa rispondeva a un disegno concepito anteriormente e a una logica repressiva progressivamente radicalizzatasi. L’idea di un’intrapresa massiccia e militare per estirpare l’eresia dove essa allignasse con particolare virulenza non è nuova, e troverà la sua definitiva sanzione con il canone Excommunicamus del concilio Lateranense del 1215. In Linguadoca le azioni armate iniziarono nel 1209 e si protrassero a vari intervalli per un ventennio. Furono stragi – come era logico aspettarsi in una guerra, per “santa” che fosse – delle quali le fonti non tacciono tutta la cruenta drammaticità. Non mancò il compiacimento per i positivi risultati che si stavano conseguendo. “La città di Béziers fu presa e poiché i nostri non guardarono né a dignità, né a sesso, né a età, quasi ventimila uomini morirono di spada. Fatta così una grandissima strage di uomini, la città fu saccheggiata e bruciata: in questo modo la colpì il mirabile castigo divino”: tale resoconto scrissero i legati pontifici Arnaldo e Milone per comunicare a Innocenzo III la conquista crociata di Béziers, e la lettera fu inserita nel registro ufficiale di cancelleria ad attestare l’importanza dell’avvenimento. La crociata divenne guerra di conquista dei baroni dell’Île-de-France, guidati da Simone di Montfort, e occasione per l’estensione del potere del re di Francia sul Mezzogiorno. La civiltà occitanica subì un grave colpo e non resse l’urto. Le Chiese catare di Linguadoca furono decapitate, i non molti perfetti sopravvissuti trovarono rifugio nell’esilio o nella clandestinità, né mai più furono ripristinate condizioni politiche e culturali che potessero favorirne una rinascita. Se volete approfondire l’epoca buia e sanguinosa delle guerre di annientamento organizzate dalla Chiesa cattolica contro i cosiddetti eretici potete farlo sfogliando il 5° volume de La Storia – Dall’impero di Carlo Magno al Trecento nella biblioteca dell’Antica Frontiera. Oggi è il 148° anniversario della battaglia di Bezzecca, evento bellico che l'Italia ha ricordato con ben tre emissioni filateliche nel 1966, nel 1986 e nel 2011.
Con l’avanzata di Garibaldi in Val di Ledro, si stringono le maglie degli italiani sulle forze del generale Kuhn. Due giorni prima dello scontro di Pieve di Ledro, infatti, Cialdini ha distaccato in direzione di Trento, a sostegno dei volontari, una sua divisione. La comanda un vecchio e abile luogotenente dell’Eroe dei due mondi, Giacomo Medici. Inoltre altre tre divisioni, agli ordini di Raffaele Cadorna, stanno marciando su Trieste. Prima di finire avviluppato tra più fuochi, Kuhn decide di tentare il tutto per tutto e di respingere Garibaldi, per essere poi libero di affrontare Medici. Il generale austriaco prepara pertanto un attacco concentrico sulle forze garibaldine che, nel frattempo, sono giunte a Bezzecca, ormai a ridosso di Riva del Garda. Anzi, il 5° reggimento del colonnello Giovanni Chiassi, appartenente alla 1a brigata di Ernesto Haug, si è spinto perfino oltre, a Locca, mandando un battaglione in avanguardia 3 chilometri più avanti, a Lenzumo in Val di Concei. La manovra di Kuhn si articola su tre colonne, che puntano a sfondare e aggirare le forze garibaldine per isolarle oltre Storo e Ampola. Quella più occidentale, al comando del generale Kaim, consta di 6000 uomini e punta contro la sinistra italiana scendendo lungo il Chiese. Al colonnello Montluisant sono invece affidate due colonne per un totale di 4500 uomini, con cui avanzare contro il centro garibaldino, agendo in Val di Ledro dalla Val di Concei. Per finire, un distaccamento della colonna Montluisant parte da Riva, puntando contro la destra italiana. All’alba del 21 luglio, d’improvviso, l’avanguardia del 5° reggimento si ritrova investita dalla colonna sinistra di Montluisant, e non è in grado di opporre resistenza. I volontari fanno in tempo a fuggire e raggiungono Locca dove, nel volgere di poco, giungono entrambe le colonne austriache. Chiassi cerca di opporsi alla pressione nemica, ma poi deve arretrare fino al margine dell’abitato di Bezzecca, dopo aver subito perdite ingenti. A Bezzecca lo sbarramento italiano si rivela più efficace, grazie anche alla determinazione del battaglione di bersaglieri genovesi agli ordini di Antonio Mosto. I difensori si valgono delle due bocche da fuoco di cui dispongono per tenere a distanza gli austriaci; ma una volta in posizione, gli uomini di Montluisant possono utilizzare i loro quattro pezzi e valersi di postazioni soprelevate, che costringono i garibaldini a ripiegare tra le case. A quel punto gli imperiali si lanciano all’assalto, che Chiassi cerca di fronteggiare chiamando a raccolta i suoi e raccogliendone un manipolo per contrattaccare. Ma alle 8:00 il colonnello viene centrato al petto, e a quel punto la rotta sembra inevitabile. Tuttavia, nel frattempo Garibaldi si è mosso da Storo e, sempre in carrozza, si è portato a ridosso di Bezzecca, dando ordine al 9° reggimento del figlio Menotti di seguirlo. Il generale capisce subito che il possesso di Bezzecca è la chiave del combattimento. Pertanto, dispone “di far occupare le alture di sinistra dai battaglioni del 9° reggimento, che cominciavano ad arrivare. E ben ci valsero, poiché la salvazione prima della giornata furon quelle postazioni, occupate dai prodi di quel reggimento, capitanati, lo dico con vero orgoglio, da mio figlio Menotti. I due battaglioni del 9° eran comandati da Cossovich e Vico Pellizzari, ambi dei Mille e degni di esserlo”. Ma il centro e la destra sono ancora in difficoltà. Al centro i resti del 5°, sostenuti dal 7°, tentano un contrattacco, ma sono respinti, e da destra non arriva il previsto sostegno di Spinazzi (che poi Garibaldi farà arrestare e processare), posizionato a Molina. Adesso, il tiro dei fucili austriaci quasi raggiunge Tiarno, e perfino la carrozza di Garibaldi finisce nel mirino nemico. I suoi uomini gli fanno scudo col corpo, alcuni cadono, prima che il generale faccia in tempo a ricorrere all’estrema risorsa della batteria di riserva. Il condottiero ordina infatti al maggiore Dogliotti, artefice principale della presa del forte d’Ampola, di portarsi in prima linea, valendosi intanto della batteria del 5°. E’ la soluzione che cambia il corso della battaglia. Dogliotti “collocava i suoi sei pezzi sopra un terreno dolcemente elevato, e fulminava il nemico con tiri tali, che più sembravano fuoco di moschetteria anziché di cannone, tale era la loro celerità”, scrive ancora il generale. Sotto il tiro dell’artiglieria italiana, gli austriaci a Bezzecca si disuniscono. A quel punto, Garibaldi forma una colonna mista con gli elementi più valorosi scelti dai comandanti subalterni, la affida al maggiore Stefano Canzio, suo genero, e la manda al contrattacco. Alle 14:00 i garibaldini, sostenuti sul fianco dal 9° di Menotti, caricano “senza far un tiro”, scrive il generale nel suo rapporto, cacciando il nemico “con la baionetta alle reni dalle posizioni che occupava”. E l’inseguimento prosegue oltre Bezzecca, con gli austriaci in rotta fin oltre Lenzumo. Dalla parte opposta, anche la colonna Kaim ha fallito: la sua avanzata è stata facilmente respinta dalle brigate Nicotera e Corte all’altezza di Condino, al comando del capo di stato maggiore Nicola Fabrizi. La vittoria è incontestabilmente di Garibaldi, che tuttavia deve lamentare 121 morti, 451 feriti e 1070 prigionieri, a fronte dei 25 morti, 82 feriti e un centinaio di prigionieri austriaci. Ma quel che più conta è che la via è aperta. Dopo lo scacco, Kuhn sgombra la via delle Giudicarie per andare ad affrontare il Medici. Garibaldi potrebbe avanzare verso Riva, ma quattro giorni dopo gli perviene la comunicazione dell’armistizio stipulato dal governo, che prelude allo sgombero del Trentino. La Marmora lo comunica al generale il 9 agosto, con il telegramma che così esordiva: “Considerazioni politiche esigono imperiosamente la conclusione dell’armistizio per il quale si richiede che tutte le nostre forze si ritirino dal Tirolo, d’ordine del Re”. Se volete ripercorrere la successione di scontri sanguinosi che hanno portato all’unificazione del nostro Paese potete farlo sfogliando il bel libro di Andrea Frediani 101 battaglie che hanno fatto l’Italia unita nella biblioteca dell’Antica Frontiera. |
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Luglio 2015
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