1955. Centenario della nascita di Giovanni Pascoli. Ritratto, uccelli in volo e verso "Lasciali andare per la loro strada" tratto dal poema Paolo Ucello. | 1962. 50° anniversario della morte di Giovanni Pascoli. Scena familiare e verso “Io sono la lampada ch’arde soave” tratto dai Canti di Castelvecchio. |
"La cavalla storna", tratti dalla bozza originale del poeta romagnolo.
Nato il 31 dicembre 1855 a San Mauro in Romagna, quarto figlio di una famiglia numerosa e agiata, visse la prima infanzia nel calore e nel benessere della sua casa natia fino alla tragedia che la sconvolse il 10 agosto 1867, quando il padre fu assassinato. L’assassinio del genitore fu solo il primo di altri dolorosi lutti, provocò la dispersione della famiglia e segnò tutta la sua vita. Le ragioni del delitto, forse di natura politica o forse dovute a contrasti di lavoro, non furono mai chiarite e i responsabili rimasero per sempre oscuri, nonostante tre processi celebrati e nonostante la famiglia avesse forti sospetti sull'identità dell'assassino, come traspare evidentemente nella famosa poesia La cavalla storna.
Grande erudito, vincitore di dodici medaglie d’oro al concorso di poesia latina ad Amsterdam, Giovanni Pascoli fu professore e insegnò nei licei di diverse città fino ad approdare all’università e alla cattedra che era stata del suo maestro Carducci. Con la sua opera aprì la strada alla rivoluzione poetica del Novecento. Morì a Bologna nel 1912.
Per commemorare questo grande poeta abbiamo scelto le tre emissioni che le poste italiane gli hanno dedicato in diverse ricorrenze. Di ognuna di esse abbiamo pubblicato sopra le immagini e una breve descrizione.
A differenza di quella di D’Annunzio, la vita di Pascoli rifugge da ogni gesto avventuroso e spettacolare, è solitaria e priva di eventi eccezionali, chiusa in una carriera di professore, scandita da trasferimenti in sedi diverse e segnata dall’ossessiva ricerca di uno spazio nascosto, atto a proteggere il poeta dal ricordo di una tragedia familiare avvenuta nell’infanzia. L’origine piccolo- borghese, la vita stentata e faticosa della giovinezza, la stessa condizione di poeta-professore possono indurre ad assimilare la sua vita a quella di Carducci, maestro del Pascoli all’università di Bologna: ma l’allievo è lontanissimo dalla estroversa vitalità del Carducci, dal suo umore sanguigno e polemico, dalla sua «sanità»; tende a sottrarsi al mondo, vive i rapporti con la società come una costrizione, li riconosce come necessari, ma li adempie solo per potersi poi rinchiudere più a fondo in una sorta di «nido», in segreta intimità con se stesso e con le piccole cose della natura; e non crea intorno a sé una nuova famiglia, ma ricostruisce insieme alla sorella Maria (sua fedelissima compagna per tutta la vita) un’immagine dell’originario nucleo familiare precocemente distrutto.
Nato a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855, Giovanni Pascoli era il quarto dei dieci figli di Ruggero, amministratore della locale tenuta agricola dei principi Torlonia, e di Caterina Allocatelli Vincenti. La famiglia godeva di una buona situazione economica e il bambino passò una felice infanzia nella campagna romagnola; nel 1862 iniziò gli studi, con i fratelli più grandi Giacomo e Luigi, nel collegio degli scolopi della vicina Urbino, dove rimase fino al ’71. Ma il 10 agosto del 1867 una sciagura si era abbattuta sulla famiglia: l’assassinio del padre, che tornava dalla fiera di Cesena, dovuto probabilmente a una vendetta per ragioni di interesse (un assassinio che restò impunito, anche per l’omertà della gente e lo scarso impegno della polizia); a breve distanza seguirono le morti della sorella maggiore, della madre e poi del fratello Luigi. All’uscita del collegio, quanto restava della famiglia (che ormai versava in cattive condizioni economiche ed era guidata dal fratello Giacomo, poi deceduto nel ’76) si stabilì a Rimini: Giovanni concluse gli studi liceali a Firenze e, forte della sua ottima preparazione classica, ottenne – dopo un esame sostenuto davanti a una commissione di cui faceva parte il Carducci – una borsa di studio per la facoltà di lettere dell’università di Bologna. Gli anni bolognesi furono molto difficili, nonostante l’attenzione che per lui ebbe il Carducci e l’intrecciarsi di importanti amicizie (in primo luogo quella con Severino Ferrari); i suoi studi si svolgevano tra ostacoli e momenti di stanchezza; i primi tentativi di poesia si alternavano a scatti di ribellione, che sboccarono nell’adesione alle nuove tendenze socialiste, molto diffuse tra gli studenti bolognesi. Viveva assai poveramente, tra Bologna e San Mauro, e svolgeva attività di propaganda sindacale; fu arrestato durante una manifestazione e rimase in carcere dal settembre al dicembre del 1879: l’esperienza, per lui molto dura, gli provocò una grave depressione e lo portò quindi a rifiutare l’azione politica, a tradurre il suo socialismo e il suo spirito ribelle in una più vaga aspirazione alla «pace» e alla «bontà», in un umanitarismo indeterminato, in un ideale di solidarietà degli uomini nel dolore. Assolto dalle accuse di sovversione e di oltraggio alla forza pubblica, riprese con più vigore gli studi, e si laureò in lettere nel giugno del 1882 con una tesi sul poeta greco Alceo. Passò subito a insegnare latino e greco nel liceo di Matera, da dove nell’84 fu trasferito a Massa: lì poté stabilirsi in una modesta casetta con le sorelle minori Ida e Maria (detta Mariù), che erano rimaste a lungo come educande presso il convento delle monache di Sogliano al Rubicone; nel 1887 passò a insegnare e ad abitare, sempre con le due donne, a Livorno, dove rimase fino al ’95. La vita comune con le sorelle fu per lui un modo di ricostituire, dopo tante sciagure, la famiglia originaria, il nido distrutto dell’infanzia: si trattò di un legame intenso e non privo di aspetti anche morbosi, fitto di piccoli riti, manie e gelosie; una grave crisi si verificò nel ’95, in seguito al matrimonio di Ida, che gettò il poeta nello sconforto, ma che rafforzò ulteriormente il suo legame con Mariù (che, per suo conto, nella dedizione al fratello, rinunciò a ogni possibilità di un diverso destino personale e rimase fedele cultrice della sua memoria fino alla morte, avvenuta nel 1953). Pascoli vide sempre il mondo femminile attraverso questo schermo familiare, escludendo l’amore e il sesso dall’orizzonte della sua vita: il breve fidanzamento con la cugina Imelde Mori ebbe presto fine per la gelosia di Mariù; e la lunga corrispondenza epistolare che il poeta ebbe più tardi con la fiorentina Emma Corcos, moglie di un artista, detta la «gentile ignota », non va al di là di una nobile conversazione intellettuale.
Il poeta intanto cominciava a pubblicare alcuni componimenti in sedi diverse, fino al primo volumetto, dal titolo Myricae, apparso nel 1891 e seguito l’anno dopo da un’edizione più ampia. Infittiva inoltre i suoi contatti con gli ambienti letterari e, tra l’altro, entrava in rapporto con D’Annunzio che recensì favorevolmente Myricae: la loro fu un’amicizia a distanza, tra due personaggi con caratteri e comportamenti diversissimi e incompatibili; specialmente Pascoli ebbe molta diffidenza per l’esuberante mondanità del collega, che esaltò con l’appellativo di «fratello minore e maggiore», ma che sentì come rivale più felice e fortunato, specialmente quando, negli ultimi anni, tentò la poesia ufficiale e celebrativa, spesso in concorrenza con quella dell’abruzzese (i buoni rapporti tra i due ebbero una pausa di esplicita ostilità solo tra 1900 e il 1903, ma alla morte del Pascoli D’Annunzio gli rese comunque un appassionato omaggio nella Contemplazione della morte).
Nel 1892 Pascoli vinse la medaglia d’oro all’annuale concorso internazionale di poesia latina di Amsterdam: era la prima di ben dodici medaglie, conseguite negli anni successivi, che premiavano in lui il maggiore poeta latino moderno. Nel 1895, al matrimonio di Ida, il Pascoli prese in affitto con Maria una casa a Castelvecchio di Barga, nella valle del Serchio, vivendovi appartato, a diretto contatto con la campagna, e facendone un luogo essenziale per la sua poesia; nello stesso anno venne chiamato come professore straordinario di grammatica greca e latina all’università di Bologna e nel ’97 fu trasferito come ordinario di letteratura latina all’università di Messina, dove restò fino al 1903, con l’intervallo di lunghe vacanze a Castelvecchio. Intanto pubblicava le nuove poesie su importanti riviste, come il «Convito» e il «Marzocco», vari interventi critici, fortunate antologie destinate alla scuola e originali studi danteschi. Nel ’97 usciva la prima edizione dei Poemetti, nel 1903 dei Canti di Castelvecchio, nel 1904 quella dei Poemi conviviali; la fama ottenuta lo indusse a provarsi in una poesia civile, capace di suscitare anche nell’uomo comune la «bontà» e di offrire insegnamenti patriottici e umanitari. Nel 1902 realizzò, con i suoi faticati risparmi (utilizzando tra l’altro anche l’oro fuso delle medaglie di Amsterdam), il sogno di comprare la casa di Castelvecchio con l’annesso podere (la cui cura gli procurò tuttavia molte ansie e fastidi, anche per i difficili rapporti che ebbe con i coloni); e nel 1903 ottenne il trasferimento dall’università di Messina a quella di Pisa. Pensava di essere giunto a una vita serena e tranquilla, vicino alla sua Mariù, nel ricostituito nido di Castelvecchio: lì poteva più serenamente condurre la sua «esistenza impacciata, ritorta, divisa tra tenerezze e pigolii e svolazzi domestici (intorno al nido) e la loro contropartita di crucci, di risentimenti, di paure eccessive di fronte all’esterno» (M. Luzi). Ma nel 1905 accettò, tra ansie ed esitazioni, di succedere alla cattedra del maestro Carducci all’università di Bologna: una chiamata che egli sentì non tanto come un onore alla sua persona e alla sua poesia, quanto come un risarcimento per le antiche umiliazioni patite dalla sua famiglia e per le sofferenze dei suoi poveri morti. La vita a Bologna risultò piuttosto faticosa: alla scarsa risonanza del suo insegnamento presso gli studenti si sommavano i fastidi accademici, i compiti ufficiali e i discorsi celebrativi che egli si assumeva, sulle orme del Carducci (ma frequenti furono anche i soggiorni a Castelvecchio). Anche la sua poesia assumeva toni sempre più ambiziosi e ufficiali, come rivelarono in pieno la raccolta Odi e Inni (1906) e numerosi altri componimenti pubblicati in quegli anni.
Dal socialismo giovanile il Pascoli era alla fine passato a una piena accettazione dell’ordine dominante nell’Italia giolittiana, a un nazionalismo venato di prospettive umanitarie, che usava un linguaggio di matrice socialista per affermare la necessità di una collaborazione tra tutte le classi sociali e di un’espansione coloniale, capace di dare uno sbocco alle forze di lavoro italiane e di mettere argine alla piaga dell’emigrazione. Vide queste prospettive realizzate dalla guerra di Libia, che celebrò nel suo ultimo discorso La grande Proletaria si è mossa, pronunciato a Barga il 26 novembre 1911. Ma era ormai da tempo stanco e malato: minato da un cancro al fegato e allo stomaco, mori a Bologna il 6 aprile 1912.
Se desiderate approfondire vita e opere del grande poeta che fu, insieme a Gabriele D’Annunzio, la massima espressione del decadentismo italiano potete farlo sfogliando le pagine del terzo volume di Giulio Ferroni della Storia della letteratura italiana – Dall’Ottocento al Novecento nella biblioteca dell’Antica Frontiera.