Filatelia e Storia di Claudio Albertazzi - C.F. LBRCLD67M31A944V - Via Primavera 9 – 40063 Ca’ del Costa – Monghidoro (BO) – Italy – Tel. 051-6555270 Cell. 340-4847236
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La nascita di Lucio Anneo Seneca

21/5/2015

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Oggi è il 2019° anniversario della nascita di Lucio Anneo Seneca.
Filosofo e scrittore latino, figlio di Seneca il Retore. Nato a Cordoba nel 4 a.C., educato a Roma, fu perseguitato da Caligola e, sotto Claudio, coinvolto in un intrigo di corte per il quale fu relegato in Corsica (41-49), dove maturò la tendenza alla meditazione filosofica e approfondì il dissidio tra l'aspirazione alla solitudine e l'intervento attivo nella società. Richiamato a Roma, ebbe da Agrippina l'incarico dell'educazione del figlio Nerone, di cui fu consi­gliere fino al 62, cercando di realizzare at­traverso il giovane
princeps un ideale di monarchia illuminata, di cui ravvisava il modello nel governo di Augusto. Le tendenze dispotiche di Nerone lo indussero, dopo l'uccisione di Agrippina e di Britannico, a ritirarsi. Coinvolto nella congiura di Pisone (65), condannato a morte, si suicidò. Tra le opere filosofiche ci sono pervenuti i Dialogorum libri XII, in forma dialogica solo ap­parente, che comprendono Consolatio ad Marciam, ad Helviam, ad Polybium, De ira, De brevitate vitae, sul significato e la scelta di vita, De constantia sapientis, De vita beata, De tranquillitate animi, De Olio, De providentia; i trattati De clementia, incompleto, programma politico, indirizzato a Nerone, e De beneficiis (7 libri); Naturales quaestiones (7 libri), trattato di fenomeni at­mosferici e celesti; Epistulae ad Lucilium (20 libri, 124 lettere). Queste ultime rappresentano l'espressione più efficace della filosofia di Seneca che, riconducibile all'ideale stoico di intelligente dominio delle passioni, si presenta come una ricerca di perfezionamento, un'indagine dell'animo umano, una riflessione sul tempo, l"'alienazione", la morte, il rapporto con gli altri; la forma diaristica e di saggio filosofico soggettivo fu ripresa da Agostino, B. Pascal, G. Leopardi. Lo stile è nervoso e asistematico, come il pensiero, con una struttura sintattica formata da frasi brevi, accostate per antitesi. Importante la produzione di tragedie (Her­cules furens, Troades, Medea, Phaedra, Thyestes, Oedipus, Hercules Oetaeus, Phoenissae, Agamemnon), destinate più alla lettura che alla rappresentazione, caratterizzate da toni declamatori e da gusto per l'orrido e il macabro; ebbero grande influenza sul teatro europeo dei sec. XVI-XVII, in par­ticolare sul dramma elisabettiano. Opera polemica è la satira menippea Apokolokyntosis o Ludus de morte Claudii, in cui si assiste alla trasformazione in zucca dell'imperatore invece che alla sua divinizzazione.
Purtroppo l'Italia non ha mai dedicato francobolli a quello che fu senz'altro uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi. Per ricordarlo abbiamo scelto dunque l'esemplare che le poste di San Marino dedicarono nel 2008 al latinista Concetto Marchesi nel 130° anniversario della sua nascita. La vignetta del francobollo da un euro mostra infatti un ritratto di Concetto Marchesi, descritto come "Maestro di Libertà e Signore del Latino", e sullo sfondo un busto di Seneca, con le parole "
speravit libertatem futuram" (sperò in una libertà futura) scelte dal trattato De Beneficiis.


La maggior parte dei mortali, o Paolino, si lagna per la cattiveria della natura, perché siamo messi al mondo per un esiguo periodo di tempo, perché questi periodi di tempo a noi concessi trascorrono così velocemente, così in fretta che, tranne pochissimi, la vita abbandoni gli altri nello stesso sorgere della vita. Né di tale calamità, comune a tutti, come credono, si lamentò solo la folla e il dissennato popolino; questo stato d’animo suscitò le lamentele anche di personaggi famosi. Da qui deriva la famosa esclamazione del più illustre dei medici, che la vita è breve, l’arte lunga; di qui la contesa, poco decorosa per un saggio, dell’esigente Aristotele con la natura delle cose, perché essa è stata tanto benevola nei confronti degli animali, che possono vivere cinque o dieci generazioni, ed invece ha concesso un tempo tanto più breve all’uomo, nato a tante e così grandi cose. Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. La vita è lunga abbastanza e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle più grandi imprese, se fosse impiegata tutta con diligenza; ma quando essa trascorre nello spreco e nell’indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, spinti alla fine dall’estrema necessità, ci accorgiamo che essa è passata e non ci siamo accorti del suo trascorrere. È così: non riceviamo una vita breve, ma l’abbiamo resa noi, e non siamo poveri di essa, ma prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, quando siano giunte ad un cattivo padrone, vengono dissipate in un attimo, ma, benché modeste, se vengono affidate ad un buon custode, si incrementano con l’investimento, così la nostra vita molto si estende per chi sa bene gestirla.

Questo è l’incipit del De Brevitate Vitae di Lucio Anneo Seneca. Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.



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L'assassinio di Giulio Cesare

15/3/2015

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1929-1945. Effigie di Giulio Cesare.
21 aprile 1929: 7,50 c., 20 c, 20 l. serie Imperiale. 14 luglio 1942: 1 l. serie Imperiale. Giugno 1943: 20 c., 1 l. serie imperiale soprastampata P.M.. 10 dicembre 1943: 20 c. governo militare alleato, emissione di Napoli. 20 dicembre 1943: 20 c., 1 l., 20 l. emissione "imperiale" soprastampata "G.N.R.". 24 gennaio 1944: 20 c. emissione "imperiale" con soprastampa "Repubblica Sociale Italiana". Dicembre 1944: 1 l. imperiale senza fasci, emissione di Roma. Aprile 1945: 1 l. imperiale senza fasci, emissione di Roma, senza filigrana. Maggio 1945: imperiale con fasci, emissione di Novara, senza filigrana. Maggio 1945: imperiale senza fasci, emissione di Roma. Giugno 1945: imperiale senza fasci, emissione di Novara. Luglio 1945: imperiale senza fasci, emissione di Novara. Luglio 1945: imperiale senza fasci, emissione di Roma. 
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1937. Bimillenario della nascita di Augusto. Continuazione delle opere di Giulio Cesare.

Oggi è il 2059° anniversario dell'assassinio di Giulio Cesare.
Che Cesare aspirasse ad essere riconosciuto re, sembrava ormai indubbio. Non era pura invenzione ciò che i suoi nemici andavano sussurrando. Agli aristocratici non restava che un mezzo per fermare Cesare sulla via della dittatura: sopprimerlo. Della congiura, che si dava come bandiera la lotta contro il pericolo monarchico, l'animatore principale fu Gaio Cassio, un pompeiana che Cesare aveva perdonato. Vi aderirono una sessantina di persone tra cui Marco Bruto, del quale si diceva che fosse figlio illegittimo di Cesare. Marco Giunio Bruto era un uomo nobile e coltissimo, un idealista che godeva di grande prestigio presso il popolo, e i congiurati avevano fatto di tutto per tirarlo ·dalla loro. 
Si fissò la data dell'attentato, il 15 marzo. Tutti i congiurati dovevano recarsi in Senato con un pugnale nascosto sotto la toga: l'uccisione doveva avvenire pubblicamente, davanti al supremo consesso della Repubblica, a sottolinearne il carattere patriottico e onorevole. La sera del 14, Cesare la trascorse con alcuni amici. Discussero la sua prossima partenza da Roma. Si parlò anche della morte, e quando gli chiesero che fine si augurava, Cesare rispose: « Improvvisa ». Il mattino del 15, la moglie Calpurnia lo scongiurò di non recarsi in Senato: aveva fatto certi sogni di cattivo auspicio. Forse influenzato da lei, forse sentendosi poco bene, Cesare decise di rimanere a casa. Ma i congiurati non intendevano rimandare. Uno di loro, Decimo Bruto, si recò da Cesare, derise le ubbie di Calpurnia, convinse la vittima a uscire. Per strada, un certo Artemidoro porse a Cesare un foglio: era la rivelazione di quanto stava per accadere. Ma Cesare, stretto in mezzo alla calca, non poté leggerlo. In Senato, i patres si alzarono per fargli onore. Mentre Cesare si avviava al suo seggio, alcuni dei congiurati lo strinsero dappresso, fingendo di supplicarlo di richiamare dall'esilio il fratello di Metello Cimbro. Cesare era infastidito e stava per irritarsi. Allora Cimbro gli prese la toga e tirandola a sé gli denudò il collo. Era il segnale. Casca vibrò il primo volpo alla gola di Cesare, ma non gli fece gran male. Cesare, gridando, impugnò la spada per difendersi. Ma gli altri gli si fecero addosso. Pare che Cesare smettesse di difendersi vedendo fra gli assalitori Bruto. Si coperse il viso con la toga e cadde ai piedi della statua di Pompeo. 
Per ricordare quello che fu senz'altro uno dei più grandi personaggi della Storia abbiamo selezionato ogni esemplare che le poste italiane gli dedicarono. Tutti di epoca monarchica, di ognuno di essi abbiamo pubblicato le immagini e una breve descrizione sopra.


Era già mattina inoltrata. Ansiosi i congiurati attendevano l’arrivo di Cesare nella Curia. Temevano che per un qualsiasi imprevisto il loro piano potesse sfumare. Plutarco però li presenta, almeno nelle prime ore di quel giorno cruciale, sicuri e intrepidi. Fra di essi c’erano dei pretori che, fuori della Curia, ascoltavano con calma e umanità i litiganti, emettendo sentenze precise ed equilibrate, come se non avessero altro per la testa. Il biografo greco ne è ammirato, e quando il racconto lo porta a parlare di loro come di cospiratori, si affretta ad aggiungere: «Cospiratori? Chiamiamoli così». Riferisce un alterco fra Marco Bruto e un contendente che non intendeva accettare il suo giudizio. «Mi appellerò a Cesare,» disse il cittadino insoddisfatto, e Bruto rispose, guardandosi intorno, come se volesse parlare a tutti i presenti e non solo all’interlocutore: «Credi che Cesare riuscirebbe a impedirmi di agire secondo la legge? ».
La fermezza d’animo dei congiurati fu messa a dura prova nel corso della mattinata da tutta una serie di episodi, tanto che fino alla fine essi non furono certi di poter portare a compimento il loro piano delittuoso. Publio Casca, il meno coraggioso dei cospiratori, fu avvicinato da un amico che gli disse: «Mi nascondi un segreto, ma Bruto mi ha detto ogni cosa». Casca sbiancò in viso. Credendosi scoperto già stava per giustificare in qualche modo la sua partecipazione al complotto, ma l’altro incalzò scoppiando a ridere: «Mi ha detto, mi ha detto come hai fatto a diventare tanto ricco da poter concorrere alla carica di edile». Poco dopo un senatore, Popilio Lenate, si avvicinò a Bruto e a Cassio. Li tirò in disparte dicendo: « Sono con voi, e prego gli dèi perché possiate portare a termine ciò che avete in mente di fare. Ma affrettatevi perché tutti parlano del vostro segreto». Bruto non ebbe il tempo di riflettere sul significato di quelle parole – la congiura era davvero scoperta o Lenate si riferiva ad altro? – perché uno schiavo gli portò la terribile notizia che la moglie stava morendo. Porcia lo aveva visto la mattina nascondere il pugnale sotto la toga e uscire di casa con l’aria d’un assassino più che di un vendicatore. Erano trascorse alcune ore senza che dal Senato le fosse giunta alcuna notizia, e la sua fibra, sebbene forte e resistente, non aveva retto all’ansia e al timore. Improvvisamente aveva perso i sensi. Non dava più segni di vita e i servi l’avevano creduta morta. Così portarono il ferale annuncio a Marco Bruto il quale, benché sconvolto, non abbandonò gli altri congiurati nel momento supremo dell’azione.
Decimo Bruto non aveva finito di rivolgersi a Cesare con toni un po’ aspri, un po’ suadenti, che già lo aveva preso per mano e lo tirava fuori del palazzo. In quel momento cadeva davanti ai loro occhi nell’atrio una statua del dittatore riducendosi in frantumi. Nessun presagio poteva ormai trattenerlo. Quante volte egli stesso aveva esclamato: « Quod necesse est, necesse est evenire Caesari»? Ora saliva nella lettiga che lo avrebbe portato al Senato. Anche quella mattina, come sempre, il popolo faceva ressa intorno a lui per toccarlo, per porgergli una petizione. Fra quella gente si fece strada un uomo alto e austero, un maestro di eloquenza, il greco Artemidoro che aveva saputo qualcosa del complotto. Artemidoro aveva in mano un piccolo rotolo nel quale aveva scritto poche righe per scongiurare Cesare di non recarsi in Senato, ma lui, preso il rotolo, lo passò subito a uno dei suoi segretari ripromettendosi di guardarlo più tardi. Né diede ascolto alle parole del dotto amico che gli diceva sottovoce: «Leggilo tu solo. Subito. È importante». In quel momento Caio Giulio fu distratto dalla vista di Spurinna, l’augure che qualche giorno prima lo aveva messo in guardia dalle Idi di marzo. Non poté trattenersi dal dirgli con una certa sufficienza mista a soddisfazione: «Sei un falso profeta. Le Idi di marzo sono arrivate», e l’augure, triste in volto, temendo ancora di aver ragione, rispose in un soffio: « Ma non sono passate».
Mentre Spurinna pronunciava queste parole, Cesare appariva davanti alla Curia. Sul suo volto bianchissimo calava un’ombra, quasi un velo di timore come se egli riandasse col pensiero agli eventi infausti di quei giorni. Forse non gli era sconosciuto il destino verso il quale si incamminava, ma la fortuna chiude gli occhi a coloro che devono morire osserva Petrarca narrando la vita del dittatore. Non c’era tempo per altre decisioni. Come al passaggio del Rubicone, ancora una volta Cesare poteva esclamare: «Il dado è tratto». Ma poteva farlo fra sé e sé, ora che attraversava la soglia del Senato, non essendo più lui a condurre il gioco. Il «colpo di Venere» non era più suo. Tutto era pronto al di fuori di lui. La partita gli sfuggiva di mano. Da protagonista si trasformava in vittima. Da quel momento il suo destino era dominato da altri. Ma anche per gli altri, i congiurati, quelle ore si erano presentate incerte e aperte a ogni sbocco. Via via essi avevano perso la sicurezza e la fierezza iniziali. Ancora un piccolo imprevisto e il loro piano sarebbe crollato. Già si trovavano sull’orlo della disperazione quando davanti al Senato comparve la vittima designata.
Il dittatore scese dalla lettiga adorna d’avorio, affiancato dai littori con i fasces dorati. Subito gli si avvicinò quel Popilio Lenate che poco prima aveva detto a Bruto e a Cassio di conoscere il loro segreto. Il senatore tratteneva a lungo Cesare, gli parlava all’orecchio con animazione, sicché i congiurati, sbigottiti, temettero che gli stesse rivelando il complotto. Cadeva nel vuoto anche il loro attentato come erano già falliti quello dei giovani cavalieri e il progetto di Cicerone, Lucullo e Catone che si diceva avessero armato la mano di Lucio Vezio? Con rapide occhiate dense di disperazione si erano già lanciati il messaggio estremo. Stavano per mettere mano ai pugnali e darsi la morte, anziché cadere prigionieri, ora che erano stati scoperti. Ma Bruto poté fortunosamente capire che Lenate parlava a Cesare non per svelare il complotto, ma per chiedergli un favore. Bruto sorrise agli altri e il destino, che indicava la morte di Cesare, riprese il suo corso. L’incaglio era durato pochi attimi.
I congiurati avevano nascosto i pugnali tra le pieghe della toga, e avevano dislocato nel vicino teatro di Pompeo cinquecento gladiatori dando loro a credere di doversi preparare a scendere nell’arena per un combattimento in occasione della festa popolare che si svolgeva proprio il 15 marzo in onore d’un’antica divinità, Anna Perenna. Ma in realtà li tenevano pronti a intervenire alloro segnale. In atto di omaggio i patres conscripti si alzarono in piedi all’apparire di Cesare il quale frettolosamente raggiunse il suo seggio dorato. Con lunghi discorsi Trebonio tratteneva Marco Antonio sulla soglia della Curia per tenerlo lontano nel momento dell’assalto e impedirgli di intervenire in difesa di Cesare. Marco Antonio, forte e coraggioso, costituiva un serio pericolo per i congiurati che sulle prime avevano divisato di sopprimerlo insieme al dittatore, ma poi Bruto li aveva dissuasi da ciò. Diceva che il loro scopo, unico e nobile, era di salvare la repubblica sopprimendone il tiranno in nome dell’unità del popolo. Uccidere anche un solo cesariano, soggiungeva, distorceva il senso della loro azione. La gente non li avrebbe creduti amanti della repubblica, ma sostenitori di un partito, quello di Pompeo.
Per fortuna dei congiurati, quella mattina Lepido, il magister equitum, non si trovava a Roma. Era impegnato con la cavalleria in una manovra nei dintorni della città, e anche questa coincidenza stava a dimostrare come Cesare avesse trascurato di prendere la benché minima precauzione in vista d’una seduta di fondamentale importanza, indetta per cambiare la repubblica in monarchia, per conferirgli il nome di re, anche se questo titolo avrebbe avuto valore nelle province e non nella penisola. Appariva però chiaro a tutti come quella distinzione fra sovranità de facto e sovranità de iure nascondesse un trucco, e come ben presto sarebbe caduta ogni limitazione alla sua regalità.
I patres gli si fecero incontro. L’aula non era affollata, sebbene si dovesse votare sulle sorti della repubblica. Ma si sapeva che tutto era già stato deciso fuori di essa, e inoltre si era fatto tardi. Alle undici passate Cesare non si era ancora visto, per cui molti se ne erano tornati ai loro affari, stanchi di aspettare. Il dittatore aveva accresciuto il numero dei componenti del Senato portandoli da seicento a novecento e quindi a mille, eppure quel giorno nella sala non c’erano più di sessanta senatori. La colossale statua marmorea di Pompeo, con la spada sguainata in pugno, si ergeva imponente al centro della grande aula circolare che appariva vuota. I patres appartenenti alla congiura si erano avvicinati più di ogni altro al dittatore, e Bruto li cercò a uno a uno con lo sguardo. Non erano più di venti. Una decina di pompeiani di varia natura, lo stesso Bruto e poi Cassio, Ponzio Aquila, Cecilio Buciliano, un altro senatore che si chiamava anch’egli Cecilio, Sulpicio Galba, Quinto Ligario, Rubio Ruga, Sestio Nasone, Marco Spurio. Cinque cesariani delusi, Minucio Basilo, Decimo Bruto Albino, Publio Casca, Tullio Cimbro , Caio Trebonio. Quattro o cinque tra catoniani e repubblicani. di incerta tendenza ma non meno fanatici, come Pacuvio Antistio Labeone, Cassio Parmense, Petronio Turullio. Tra i senatori che non avrebbero partecipato all’assalto, Bruto scorse Cassio Longino, Cornelio Cinna, Domizio Enobarbo, Sesto Pompeo, Popilio Laenes e lo stesso Cicerone.
Tullio Cimbro era quasi addossato a Cesare. Gli parlava intensamente, gli chiedeva di richiamare suo fratello dall’esilio. Cesare si mostrava insofferente. Tullio Cimbro si faceva più insistente, e, come a richiamare la sua attenzione, lo tirò per la toga. Quello era il segnale che i cospiratori attendevano per estrarre i pugnali dalle pieghe delle toghe e colpire la vittima. Cesare poté appena accennare a una protesta contro il gesto di Cimbro. Non aveva finito di dire: «Ma questa è violenza», che fu raggiunto dalla prima pugnalata. Da dietro lo aveva colpito Publio Casca, sotto la gola, verso la nuca, ma senza forza perché tremante di paura. Cesare, benché sanguinante, reagì con prontezza. Riuscì a strappare il pugnale dalle mani dell’attentatore e con quell’arma lo ferì a un braccio mentre esclamava: « Maledetto Casca, che fai?». Poi, sempre brandendo il ferro, cercò di alzarsi, ma venne nuovamente raggiunto da una pugnalata. Nemmeno questo colpo fu mortale, e Cesare riuscì a mettersi in piedi. Furente e atterrito corse, barcollante, da una parte all’altra della Curia, mentre i congiurati lo inseguivano continuando a trafiggerlo. Cassio lo ferì al viso e Buciliano alle spalle. Gli altri senatori, sorpresi dalla fulmineità dell’agguato, erano come inchiodati ai loro scanni, con gli occhi sbarrati, ammutoliti, incapaci di fare un gesto. Quello era il Senato che aveva giurato di difenderlo da ogni insidia, da ogni pericolo. Un Senato in cui neppure i cesariani sapevano proteggere il loro capo, il genio più alto di Roma, l’uomo che si accingevano a proclamare re. Così, un pugno di ribelli riportava lutti e sangue nella città.
Cesare era circondato da una selva di pugnali che i congiurati agitavano urlando. Lo colpivano da forsennati, lo aggredivano come fosse una belva nell’arena. Si ferirono fra loro nella confusione. Cesare urlava, fremeva, e ancora cercava di sfuggire al colpo fatale. Nessuno accorreva in suo aiuto, non i senatori che egli aveva elevato a quella dignità, i romani, gli italici, i galli, gli iberici. Era allo stremo delle forze quando il suo sguardo già offuscato incrociò gli spiritati occhi di Marco Bruto che gli vibrava una pugnalata all’inguine. Cesare si accasciò, si avvolse il capo con la toga, e, guardando per l’ultima volta l’assalitore, disse in greco: «Anche tu, Bruto, figlio mio». Sempre usava il greco nei momenti di più intensa emozione. Non aggiunse altro. Con queste parole di profonda disperazione si chiudeva la sua vita. Esse erano come un lampo rivelatore che d’improvviso metteva a nudo la drammaticità dell’evento: un assassinio politico sfociava in una terribile tragedia umana e familiare. Bruto aveva immerso il pugnale nelle carni d’un nemico che lo amava, d’un uomo che tutto portava a credere fosse suo padre, ma l’odio politico travolgeva nell’attentatore ogni altro sentimento.
È giusto ricordare un’ipotesi di cui si fece paladino un biografo minore, ma non trascurabile, Umberto Silvagni. Egli sosteneva, negli anni trenta del nostro secolo, che non a Marco Bruto, ma a Decimo Bruto intendeva riferirsi Cesare con le sue ultime parole. Ciò perché Decimo era stato adottato nel testamento del dittatore quale suo erede e figlio. « Cesare diffidava di Marco. Ben sapeva di non esserne amato, ne conosceva l’ambizione sfrenata, non l’incluse nel testamento, non lo aveva trattato mai qual figlio, non v’era ragione che così lo chiamasse in quell’istante supremo. Amava e prediligeva, invece, Decimo, che giovanissimo aveva nominato suo legato nella guerra gallica, al quale doveva la vittoria contro i veneti e l’altra contro Domizio Enobarbo a Marsiglia. Decimo Bruto era rimasto fedele a Cesare anche durante la guerra civile, era tra i suoi familiari più assidui e più cari. »
Il corpo di Cesare si era afflosciato ai piedi della statua del Magno alla quale ancora si appoggiava, ansimante e insanguinato, mentre Marco Bruto lo colpiva. Per una straordinaria coincidenza la vittima spirava sotto l’effigie dell’uomo che più di ogni altro aveva attraversato la sua vita. Aveva accolto Pompeo nella cerchia familiare dandogli in sposa la figlia Giulia e lo aveva avuto come socio politico nel triumvirato, ma poi era tutto crollato e se lo era trovato di fronte come il più irriducibile degli avversari. Nel grande scontro fra i due giganti, Pompeo, sconfitto irrimediabilmente, era caduto sotto un pugnale, e ora il suo vincitore subiva la stessa tragica sorte.
Cesare giaceva esanime in un lago di sangue. I patres, che terrorizzati avevano assistito alla fulminea scena del delitto e che erano rimasti impietriti sui loro scanni, si riscossero alfine dall’incantamento. All’immobilità seguì un furioso parapiglia. Tutti insieme i senatori, urlando e gesticolando, si lanciavano verso la porta per fuggire, mentre Bruto gridava per trattenerli: «Non temete. Solo Cesare doveva cadere », Poi, col volto ispirato e levando in alto il pugnale insanguinato, aggiungeva: « Vi abbiamo restituito la libertà ». Perdeva sangue da una mano perché anche lui era stato ferito da uno dei cesaricidi che menava colpi all’impazzata. Lo aveva colpito proprio Cassio nel suo furore. Bruto gridava: «Il tiranno è morto. Viva la libertà. Viva il popolo romano ». Tacque per un attimo, poi riprese a gridare acclamando Cicerone, ma nessuno lo ascoltava nella psicosi della fuga.
L’orrore e il terrore si propagarono rapidamente in tutta Roma, mentre il cadavere di Cesare, raccolto da tre schiavi impietositi, veniva trasportato su una lettiga nel suo palazzo che già risuonava di pianti. Un braccio pendeva all’esterno della lettiga, ed era il segno più impressionante della morte. Il corpo era straziato da ventitre ferite. Il volto, benché contratto, appariva giovanile, non era quello d’un uomo di cinquantasei anni. La città era scossa da tumulti. Alcuni dei congiurati, con le toghe ancora macchiate di sangue, si riunirono sotto un portico. C’era anche Bruto. Volevano irrompere nelle stanze del dittatore per strappare dalle braccia di Calpurnia il cadavere e gettarlo nel Tevere. Si oppose Bruto. A stento poté impedire quel gesto d’inutile barbarie. Allora i congiurati urlarono: « Uccidiamo Marco Antonio », E ancora una volta s’erse Bruto gridando:« Si abbatte la tirannia uccidendo il tiranno. Gli altri non contano ». Marco Antonio riuscì a lasciare Roma di soppiatto, nelle vesti di schiavo. Lepido ne seguì l’esempio senza muovere uno solo dei tanti uomini della sua cavalleria di cui infinite volte s’era gloriato di essere il comandante. L’Urbe era nelle mani del popolo che però non sapeva per chi e per che cosa manifestare. Ci furono delitti inesplicabili, saccheggi di negozi e di magazzini. Le porte della città vennero chiuse, ma i disordini non avevano fine.
Si susseguirono paurosi fenomeni terrestri e celesti. Sul Campidoglio lo scudo del dio della guerra cadde a terra quando vi giunse Bruto seguito dagli altri congiurati che ancora mostravano i pugnali insanguinati. Per più giorni il sole si oscurò, «impietosito di Roma »,miseratus Romam, scrive Virgilio. Quasi a nascondere lo strazio in cui la città viveva. Per sette notti consecutive apparve in cielo una grande cometa, sicché il popolo credette, per l’abile suggestione dei cesariani, che il suo spirito fosse asceso tra gli dèi immortali, e Ottaviano due anni dopo, ordinando la divinizzazione ufficiale dell’estinto, fece apporre una stella in cima a una sua statua. La stella ricordava la cometa la quale, col nome di sidus Iulium, provava l’assunzione di Cesare fra gli astri dell’universo, accanto agli altri corpi celesti, Venere, Marte e Giove, che avevano influenzato la sua esistenza terrena. Il Tevere straripò, i monti tremarono. L’Etna eruttò lava ardente e tanto fuoco da incendiare tutta la Sicilia. Le fiamme si estesero oltre lo stretto anche a Regium come a infiammare l’Italia intera. Straripò l’Eridano travolgendo le selve e gli armenti, allagando i campi. Dovunque s’aprivano voragini, « piangeva l’avorio nei templi, sudavano i bronzi delle statue ».
Bruto e i congiurati si affannavano a gridare che nessuno doveva temere di loro. A poco a poco i senatori ricomparvero nelle vie di Roma, mentre il popolo si raccoglieva nel Foro. I cospiratori rimanevano rinchiusi sul Campidoglio, ch’era attorniato da un alto muro, temendo di essere attaccati dai cesariani. La situazione sembrò placarsi, e Bruto scese dal colle sul far della sera. Giunto nel Foro, prese a parlare dai Rostri. Diceva che era tornato il governo popolare repubblicano. La plebe applaudiva e lo chiamava liberatore. Diceva che Cesare aveva ucciso la repubblica, che la sua morte era inevitabile, che la soppressione d’un tiranno era un antico diritto degli uomini amanti della libertà. La plebe protestava e lo chiamava assassino. Appariva oltremodo difficile dominare una massa così ondeggiante fra opposti sentimenti. Parlò pure un altro congiurato, Cornelio Cinna, che ingiuriò trivialmente la vittima. Poi si strappò di dosso la veste militare, avuta da Cesare, per dimostrare quanto odiasse il tiranno. La folla, incollerita, minacciò di aggredire i cesaricidi che in gran fretta si ritirarono nuovamente sul Campidoglio. Bruto e Cassio inviarono messaggeri a Cicerone che aveva approvato il loro gesto pur non avendo partecipato al complotto. Il vecchio consolare, che non poteva fare a meno di vergare fogli anche nei momenti più turbinosi, aveva inviato al cospiratore Minucio Basilo un breve biglietto grondante soddisfazione per la riuscita dell’attentato: « Mi congratulo, sono felice. Ho cura dei tuoi interessi ». Tibi gratulor, mihi gaudeo.

Se volete approfondire la vita di colui che viene giustamente considerato uno dei personaggi più importanti e influenti della Storia potete farlo sfogliando la biografia di Antonio SpinosaCesare – Il grande giocatore nella biblioteca dell’Antica Frontiera.


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Il passaggio del Rubicone

10/1/2015

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Oggi è il 2064° anniversario del passaggio del Rubicone.
Il fiume, oggi in provincia di Forlì e diventato celebre per l'attraversamento di Giulio Cesare nel 49 a.C., all'epoca segnava il confine oltre il quale un generale romano non poteva portare le armi, atto che sarebbe stato considerato fuorilegge e che in effetti provocò l’inizio della guerra civile. Il condottiero vincitore delle Gallie, alla testa del suo esercito composto di 11 legioni, manifestò in tal modo la sua ribellione allo stato romano: secondo il racconto di Svetonio, prima di risolversi a questo passo sembra che abbia esitato e infine abbia preso la sua decisione esclamando alea iacta est ("il dado è tratto").

L'unico francobollo che commemora questo celebre episodio della Storia dell'antica Roma è curiosamente un esemplare belga da un franco emesso nel 1967 per la Fondazione per l'educazione popolare "Lodewijk de Raet e Charles Plisnier". La vignetta mostra il particolare di un arazzo del XV secolo in cui si vede un improbabile Cesare a cavallo in un contesto decisamente anacronistico.

Le esitazioni di Cesare prima di scatenare la guerra civile hanno fatto la gioia di molti scrittori e la fortuna di un fiumiciattolo, di cui altrimenti nessuno conoscerebbe il nome: il Rubicone. Esso marcava, presso Rimini, il confine fra la Gallia Cisalpina, dove il proconsole aveva diritto di tenere i suoi soldati, e l’Italia vera e propria, dove la legge gli vietava di condurli; e fu sulle sue sponde che gli storici descrivono Cesare meditabondo e roso dai dubbi. Ma il fatto è che quando Cesare giunse lì, la decisione l’aveva già presa o, per meglio dire, gliel’avevano già imposta.
Pur di evitare una lotta fra romani, egli aveva accettato tutte le proposte avanzate da Pompeo e dal Senato che ormai erano una cosa sola: di mandare una delle sue scarsissime legioni in Oriente a vendicarvi Crasso, di restituirne un’altra a Pompeo che gliel’aveva prestata per le operazioni in Gallia. Ma quando il Senato definitivamente gli rispose impedendogli di concorrere al consolato e mettendolo alla scelta: o sbandare l’esercito, o essere dichiarato nemico pubblico, egli comprese che, scegliendo la prima alternativa, si consegnava inerme nelle mani di uno stato che voleva la sua pelle. Avanzò ancora un’ultima proposta, che i suoi luogotenenti Curione e Antonio vennero a leggere, sotto forma di lettera, in Senato: egli avrebbe congedato otto delle sue dieci legioni, se gli prolungavano il governatorato della Gallia fino al 48. Pompeo e Cicerone si pronunziarono in favore; ma il console Lentulo cacciò i due messi fuori dall’aula, e Catone e Marcello chiesero al Senato, che consentì controvoglia, di conferire a Pompeo i poteri per impedire che «pregiudizio fosse recato alla cosa pubblica». Era la formula di applicazione della legge marziale. Essa metteva definitivamente Cesare con le spalle al muro.
Cesare adunò la sua legione favorita, la tredicesima, e parlò ai soldati, chiamandoli nonmilites, ma commilitones. Poteva farlo. Oltre che il loro generale, egli era stato davvero anche il loro compagno. Erano dieci anni che li conduceva di fatica in fatica e di vittoria in vittoria, alternando sapientemente l’indulgenza al rigore. Quei veterani erano veri propri professionisti della guerra, se ne intendevano, e sapevano misurare i loro ufficiali. Per Cesare, che di rado era dovuto ricorrere alla propria autorità per affermare il proprio prestigio, avevano un rispettoso affetto. E quando egli ebbe spiegato loro come stavano le cose e chiese se se la sentivano di affrontare Roma, la loro patria, in una guerra che, a perderla, li avrebbe qualificati traditori, risposero di sì all’unanimità. Erano quasi tutti galli del Piemonte e della Lombardia: gente a cui Cesare aveva dato la cittadinanza che il Senato si ostinava a disconoscerle. La loro patria era lui, il generale. E quando questi li avvertì che non aveva neanche i soldi per pagar loro la cinquina, essi risposero versando nelle casse della legione i loro risparmi. Uno solo disertò per schierarsi con Pompeo: Tito Labieno. Cesare lo considerava il più abile e fidato dei suoi luogotenenti. Gli spedì dietro il bagaglio e lo stipendio, che il fuggiasco non si era curato di ritirare.
Il 10 gennaio di quell’anno 49 «trasse il dado» com’ebbe a dire egli stesso, cioè passò il Rubicone con quella legione, seimila uomini, contro i sessantamila che Pompeo già aveva raccolto. A Piceno lo raggiunse la dodicesima, a Codinio l’ottava. Altre tre ne formò con volontari del posto, che non avevano dimenticato Mario e ne vedevano in Cesare, suo nipote, il continuatore. «Le città si aprono dinanzi a lui e lo salutano come un dio» scrisse Cicerone, che cominciava a non essere più sicuro di aver scelto bene schierandosi coi conservatori. In realtà l’Italia era stanca di costoro e non opponeva resistenza al ribelle, che la ripagava con lungimirante clemenza: niente saccheggi, niente prigionieri, niente epurazioni.
Durante questa incruenta avanzata su Roma, Cesare seguitò a cercare un compromesso, o almeno a darsi le arie di cercarlo. Scrisse a Lentulo prospettandogli i disastri cui Roma poteva andare incontro con quella lotta fratricida; scrisse a Cicerone dicendogli di riferire a Pompeo ch’egli era pronto a ritirarsi a vita privata, se gli garantivano la sicurezza. Ma, senza aspettare le risposte, seguitò ad avanzare contro Pompeo che avanzava anche lui, ma verso Sud.
Pur respingendo le offerte di Cesare, i conservatori avevano abbandonato Roma, dopo aver dichiarato che avrebbero considerato nemici i senatori che vi fossero rimasti. Carichi di soldi, di pretese e d’insolenza, ognuno con servi mogli, amiche, efebi, tende di lusso, biancheria di lino uniformi e pennacchi, questi aristocratici facevano schiamazzante codazzo a Pompeo, frastornandogli il cervello con le loro chiacchiere. Pompeo non aveva avuto gran carattere nemmeno quand’era giovane e magro. Ora, invecchiato e imbolsito, aveva perso anche quel poco; e per non affrontare una decisione, seguitò a ritirarsi fino a Brindisi dove caricò tutto il suo esercito sulle navi e lo traghettò a Durazzo. Curiosa tattica, per un generale che aveva un esercito doppio di quello avversano. Ma disse che voleva allenarlo e disciplinarlo, prima di affrontare la battaglia risolutiva. Cesare entrò in Roma il 16 marzo, lasciando l’esercito fuori della città. Si era ribellato allo stato, ma ne rispettava i regolamenti. Chiese il titolo di dittatore, e il Senato rifiutò. Chiese che fossero mandati messi di pace a Pompeo, e il Senato rifiutò. Chiese di poter disporre del Tesoro e il tribuno Lucio Metello oppose il veto. Cesare disse: «Tanto mi è difficile pronunciare minacce, quanto mi è facile eseguirle». Subito il Tesoro gli venne messo a disposizione. Cesare, prima di vuotarlo per impinguare le casse dei suoi reggimenti, vi versò tutto il bottino accumulato nelle ultime campagne. Il furto, sì; ma, prima, la legalità.

Se volete approfondire le imprese di Giulio Cesare durante la Guerra Civile potete farlo sfogliando le pagine del libro di Indro Montanelli Storia di Roma nella biblioteca dell’Antica Frontiera.


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La morte di Cleopatra

12/8/2014

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Oggi è il 2044° anniversario della morte di Cleopatra. 
Il 12 agosto del 30 a.C., ad Alessandria, la regina egizia Cleopatra VII morì suicida a 39 anni facendosi mordere da un aspide, dopo essere stata sconfitta ad Azio da Ottaviano e aver assistito alla morte, anche questa per suicidio, dell'amato Marco Antonio.
L'Egitto ha dedicato alla sua regina un francobollo verde da 2 millièmes nel 1914, inserendolo nella serie ordinaria relativa a soggetti storici. L'esemplare - successivamente riemesso tre volte, nel 1921 con una filigrana diversa, nel 1922 di colore rosso vermiglio e, sempre nello stesso anno, con la soprastampa di una corona e della scritta in arabo del regno di Fuad I - riproduce un intaglio di Cleopatra rinvenuto nel tempio di Dendera.

Cleopatra potrebbe essere stata invidiosa di Nefertiti, sua antenata sul trono d’Egitto. Non era infatti bella come lei, sebbene la sua sensualità suscitasse negli uomini lo stesso fascino, avendo un naso troppo lungo e la bocca troppo grande. Come Nefertiti, visse intensamente e conobbe la gloria e la caduta. Di lei scrisse lo storico greco Plutarco: “A quanto si dice la sua bellezza non era in sé del tutto incomparabile né tale da colpire a prima vista: ma la sua conversazione aveva un fascino irresistibile e la seduzione della sua parola, unita a una personalità affascinante, costituivano un pungiglione che si affondava nel cuore”.
Alcuni scrittori romani importanti come Virgilio, Orazio, Properzio e Seneca la descrissero nei modi più spregevoli, come una donna perfida, crudele, avara e immorale. Altri ne hanno invece lodato l’audacia prodigiosa, il genio politico, la viva intelligenza, la vasta cultura, l’indomabile aspirazione a non sottomettersi al volere di un uomo e di difendere il proprio Paese. In tempi recenti addirittura di Cleopatra si è fatto quasi un’eroina del femminismo, e in lei il movimento di liberazione della donna ha riconosciuto la tempra di chi si batte per imporre al mondo maschile il riconoscimento del proprio valore. Se andiamo con la memoria all’anno 50 a.C. troviamo che a quel tempo l’Egitto era ancora una nazione ricca e potente per via dell’abbondanza dei suoi raccolti e della flotta considerevole su cui poteva contare. La sua capitale non era più Menfi o Tebe, ma Alessandria, divenuta importante centro di scambio e di produzione culturale oltre che commerciale dai tempi della conquista di Alessandro il Grande e della dinastia dei Tolomei. A minacciarne la grandezza è Roma, che non sembra desiderosa di altro che di espandersi e di dominare. Due modi di intendere la civiltà erano di fronte, l’Oriente e l’Occidente, e Cleopatra si schiererà risolutamente a favore del primo.
Figlia di Tolomeo XII, uno dei successori della dinastia dei Lagidi che dopo la morte di Alessandro Magno aveva ereditato la corona d’Egitto, Cleopatra crebbe in una fase storica in cui l’ascesa di Roma aveva costretto i signori della Valle del Nilo a una politica di compromesso con la potente vicina. Nel corso di decenni l’Egitto era diventato a tal punto dipendente da Roma che il padre di Cleopatra era stato costretto al pagamento di un tributo per scongiurare l’occupazione militare del proprio Paese. Insomma la sopravvivenza stessa dell’Egitto era ormai legata alle lotte politiche interne che si combattevano nell’urbe.
A quattordici anni Cleopatra assiste alla guerra civile tra Cesare e Pompeo e, alla morte di suo padre, a diciassette anni, sale sul trono con il fratello Tolomeo XIII, che era diventato suo sposo secondo la tradizione della successione reale. Una sorda lotta per il potere mise temporaneamente fuori gioco la regina, favorendo per contro il fratello.
Dopo la disfatta patita a Farsalo, Pompeo si rifugiò in Egitto dove l’amico Tolomeo, credendo di fare cosa gradita a Cesare, lo fece assassinare. Eludendo tuttavia la sorveglianza del fratello Cleopatra si avvicinò a Cesare, in visita ad Alessandria. La scena è conosciuta: Cesare ricevette in dono il famoso tappeto orientale in cui era avvolto lo splendido corpo di Cleopatra allora ventiduenne. I due si innamorarono perdutamente e insieme tramarono contro Tolomeo, di lì a poco sconfitto dalle truppe romane accorse e ucciso. Cleopatra si sposò allora con un altro fratello, Tolomeo XIV, e tornò a essere regina d’Egitto. I due amanti intanto viaggiano per due mesi lungo il Nilo, visitano luoghi sacri e, a Dendera, Cleopatra è acclamata dea, il più alto degli onori. Poi segue Cesare a Roma, e gli dà un figlio, Cesarione. Sembra che Cesare l’avrebbe fatta sua sposa se non fosse caduto vittima delle pugnalate delle Idi di marzo del 44 a.C. Cleopatra ritornò allora ad Alessandria, dove Tolomeo XIV cadde in disgrazia e fu sostituito da Cesarione come coreggente della madre. Così lo storico latino Svetonio, nell’opera intitolata Le vite dei Cesari, rievoca il legame tra Cesare e la bella egiziana: “Amò anche delle regine (…) ma amò soprattutto Cleopatra, con la quale s’intrattenne spesso a banchetto fino all’alba, e su una nave fornita di stanze si addentrò con lei in Egitto e fin quasi in Etiopia, dove sarebbe entrato se l’esercito non si fosse rifiutato di seguirlo. In seguito, fattala venire a Roma, la rimandò in patria solo dopo averla colmata di onori e di regali splendidi, e consentì che il figlio nato dalla loro unione portasse il suo nome. Molti Greci hanno tramandato che questi gli rassomigliava molto, sia nell’aspetto sia nel portamento”.
Intanto a Roma Ottaviano e Antonio, dopo la breve parentesi del Secondo triumvirato, si contendevano l’eredità di Cesare. Antonio, acquisito il controllo della parte orientale dello Stato, incarnava ormai agli occhi del rivale il campione dell’Ellenismo, il sostenitore della monarchia assoluta in spregio delle istituzioni repubblicane.
Anche Ottaviano ambiva per la verità a un potere personale e senza limiti, ma da Roma ebbe buon gioco nel presentarsi come il difensore dei costumi e delle tradizioni patrie contro il misticismo e il fasto della corte egizia che in Cleopatra, ora amante di Antonio, trovava la sua ultima rappresentante.
La nuova relazione produsse scandalo a Roma. Cleopatra fu accusata in Senato di tutti i peccati possibili e il fango che la propaganda di Ottaviano le gettò addosso ne rovinò per lungo tempo la memoria; la damnatio in atto si completò quando Antonio decise di fare dono a lei e ai figli avuti da lei dei territori romani. I giochi ormai erano decisi: Ottaviano rivendicò a sé l’Egitto come provincia romana e ad Azio batté Antonio, che morì tra le braccia della regina. Cleopatra, dopo aver dichiarato ai suoi fedeli che nessuno avrebbe potuto esibirla in trionfo, si fece mordere da un aspide e morì, a trentanove anni. La letteratura, il cinema, la pittura, persino il fumetto e la pubblicità s’impossessarono del mito di Cleopatra, ultima regina d’Egitto. E il suo trionfo sarà allora completo.

Se volete approfondire la vita dell’ultima affascinante regina d’Egitto potete farlo sfogliando il libro Faraoni – Atlanti del sapere prelevandolo dalla biblioteca dell’Antica Frontiera.





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