100 d: soldati dell'esercito e mondine; 500 d: donna con bambino, folla.
0,50 r: stemma nazionale; 1 r: libro con stemma e bandiera nazionale;
3 r: carta geografica e figure umane stilizzate; 6 r: tempio (foglietto).
0,50 r: croce rossa e barca a vela; 1 r: soldati, bandiera nazionale, monumento all'indipendenza;
3 r: folla, tempio, fuochi d'artificio; 6 r: portatori (foglietto).
Dopo due anni di sanguinose incursioni e rappresaglie reciproche, il governo di Hanoi decise di rovesciare il regime dei Khmer Rossi e nel dicembre del 1978 diede avvio a un'invasione su vasta scala della Cambogia, culminata con la presa della capitale Phnom Penh il 7 gennaio 1979. L'invasione da parte delle forze vietnamite fu la diretta conseguenza delle continue provocazioni che il regime cambogiano aveva inviato tra il 1976 e il 1979, soprattutto per quanto riguarda il controllo del delta del fiume Mekong, rivendicato dal regime di Pol Pot. Se da una parte l'invasione contribuì a devastare ulteriormente un territorio già scosso da anni di fame, guerra civile e dittatura, dall'altro depose il regno del terrore dei Khmer Rossi, che in meno di 4 anni di governo aveva sterminato più di 2 milioni di civili (circa un terzo della popolazione), riuscendo quindi ad interrompere quello che gli storici hanno definito autogenocidio cambogiano. Il ritiro delle truppe vietnamite del paese avvenne 10 anni dopo, nel 1989.
Per ricordare la deposizione del regime di Pol Pot e dei Khmer Rossi sconfitti militarmente dalle forze vietnamite abbiamo scelto le quattro emissioni dedicate alla liberazione del 7 gennaio 1979. Di ognuna di esse abbiamo aggiunto una breve descrizione sopra.
Verso la fine del 1978, mentre le esecuzioni e le morti per fame erano al culmine, e il regime di Pol Pot sembrava apparentemente invincibile, il governo cominciò ad autodistruggersi. Dal momento che le informazioni provenivano soltanto dalle sue forze di sicurezza, il partito cadde preda dell’ossessione per il controspionaggio, portando alla rovina, oltre al popolo cambogiano, anche se stesso. Non esisteva alcuna istituzione tradizionale che controllasse l’operato del partito, che aveva eliminato ogni opposizione con il terrore e la coercizione. Ora, Pol Pot sarebbe stato annientato dal suo stesso psicotico e accanito odio per i vietnamiti.
Dopo una serie di violenti scontri di frontiera con il Vietnam, 150.000 soldati vietnamiti entrarono in Kampuchea e, il 6 gennaio, si prepararono ad attaccare Phnom Penh. Le continue purghe di Pol Pot avevano causato la rottura della catena di comando tra ufficiali e truppe, e abbattuto il morale sia nell’esercito che nel partito. Chi veniva considerato un traditore sapendo di non esserlo si chiedeva cosa fare, se morire in nome del partito o fuggire; il popolo cambogiano, però, nel complesso sapeva bene cosa fare e accolse i vietnamiti a braccia aperte. Per ironia della sorte, a capo del governo che avrebbe sostituito Pol Pot sarebbero stati posti tre cambogiani di origine vietnamita sfuggiti alle purghe: Heng Samrin, Chea Sim e Ros Samay.
Pol Pot e i suoi seguaci si rifugiarono nella Cambogia settentrionale e in Thailandia, mentre l’odiato direttore dell’S-21 Deuch riuscì a sfuggire alla cattura per un’ora. Quarantaquattro mesi dopo aver conquistato Phnom Penh, i Khmer rossi furono costretti dalle forze di invasione vietnamite ad abbandonare la capitale. In questo periodo, in una singola nazione si era verificata la più consistente perdita di vite umane di tutto il XX secolo. Nel tentativo di affermare un “comunismo puro”, i Khmer rossi avevano ridotto un’economia già duramente provata dalla guerra, ma tradizionalmente forte, in un sistema praticamente incapace di riprendersi. Le draconiane regole di vita di Pol Pot avevano trasformato l’intera Cambogia in un enorme gulag.
Mentre Pol Pot fuggiva a bordo di una Mercedes bianca e di un elicottero, portando con sé in Thailandia i suoi assistenti, migliaia di altri Khmer rossi abbandonarono la Cambogia devastata. Dalla sua base egli continuò a combattere nelle campagne insieme ai suoi fedeli seguaci, costituendo il Fronte di liberazione popolare Khmer e promettendo, con manifesta ipocrisia, libertà politica e religiosa. Sarebbero occorsi altri vent’anni prima che il mondo sentisse ancora parlare di Pol Pot.
I Khmer rossi avevano finito per rivoltarsi contro il loro ex leader, arrestandolo non con l’accusa di genocidio o di crimini contro l’umanità, ma in quanto nemico politico. In un’intervista rilasciata a Nate Thayer poco prima di morire, Pol Pot rifiutò di ammettere la propria responsabilità per la morte di tante persone innocenti, e dichiarò che gli errori commessi dal regime riguardavano soprattutto l’applicazione della politica. Due settimane più tardi, nell’aprile 1998, Pol Pot morì per cause naturali.
A tutt’oggi, i suoi complici non sono ancora stati deferiti alla giustizia. Si sono scoperte fosse comuni in tutta la Cambogia, soprattutto in zone remote. Innumerevoli crani sono stati riuniti e ammucchiati in un unico luogo, a memoria del regime del terrore di Pol Pot. Si stanno ancora raccogliendo prove per un processo internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite, ma i progressi sono ostacolati dal fatto che il nuovo governo cambogiano comprende anche esponenti dei Khmer rossi. Quando il ministro degli Esteri della Cambogia, Ieng Sary, ammise finalmente la morte di tre milioni di persone durante il regime dei Khmer rossi, dichiarò che Pol Pot era stato frainteso e che i massacri erano stati «un errore».
Se volete approfondire i crimini di Pol Pot in Kampuchea potete farlo sfogliando le pagine del libro I Personaggi più malvagi della storia di Shelley Klein e Miranda Twiss nella biblioteca dell’Antica Frontiera.