La missione delle Forze armate israeliane ebbe luogo nella notte tra il 3 luglio ed il 4 luglio 1976, nell'aeroporto internazionale dell'omonima città ugandese, a seguito del dirottamento di un aereo francese avvenuto una settimana prima ad opera di palestinesi. I militari che la pianificarono e la condussero le diedero il nome di Mivtsa‘ Kadur Ha-ra‘am ("Operazione Fulmine"). In onore del tenente colonnello Yonatan Netanyahu, comandante del gruppo d'assalto durante il raid ed unico militare israeliano a perdere la vita nell'azione, venne in seguito denominata anche Mivtsa‘ Yonatan ("Operazione Yonatan"). La spettacolare liberazione di quasi tutti gli ostaggi diventò di lì a poco materia d'ispirazione per tre film, due statunitensi ed uno israeliano.
Per ricordare i fatti di Entebbe abbiamo scelto un francobollo emesso nel 1975 dalla Comunità dell'Africa Orientale (Uganda - Kenya - Tanzania) e dedicato al vertice dell'O.A.U. (Organizzazione per l'Unità Africana) che si tenne a Kampala dal 28 luglio al 1° agosto di quell'anno. L'esemplare mostra l'aeroporto internazionale di Entebbe, il luogo dove si svolse la missione segreta israeliana.
Entebbe è il nome di una città dell’Uganda Orientale. Ma è anche quello di un’operazione militare israeliana che, 36 anni fa esatti, fece scalpore. O almeno questo è il nome con cui è passata alla Storia, perché per i militari di Tel Aviv era l’operazione Thunderbolt (“fulmine” in inglese). Scopo del blitz (che dal punto di vista diplomatico fu una violazione del diritto internazionale) era liberare i 105 ostaggi di un aereo di linea decollato da Israele e dirottato da terroristi palestinesi. Ne risultò un’azione talmente spettacolare che nel giro di un anno furono girati ben tre film su quel raid (tra cui La lunga notte di Entebbe, con Kirk Douglas e Liz Taylor). Oggi dimenticata, l’operazione fu uno dei momenti più caldi del conflitto arabo-israeliano, lo scontro politico-militare scoppiato dopo la fondazione, nel 1948, dello Stato di Israele.
Dirotta sull’Africa! La mattina del 27 giugno 1976 il volo 139 dell’Air France partito da Tel Aviv fece scalo ad Atene, in Grecia. Il velivolo ripartì per Parigi con a bordo 12 membri dell’equipaggio e 248 passeggeri. Tra loro c’erano quattro terroristi: due tedeschi filopalestinesi e due arabi legati al Fronte popolare per la liberazione della Palestina. I quattro, imbarcatisi nella capitale ellenica, dirottarono il volo prima verso la Libia, poi sull’Uganda, atterrando a Entebbe. Il Paese africano era allora governato dal dittatore Idi Amin Dada, amico della causa palestinese. E là ai quattro dirottatori se ne aggiunsero altri tre.
I terroristi chiesero al governo israeliano la liberazione di 53 detenuti palestinesi: 40 in Israele e 13 in altri Stati. Nel frattempo decisero di trattenere in ostaggio solo israeliani o ebrei oltre all’equipaggio (105 in tutto), rilasciando gli altri, e di rinchiuderli in un vecchio terminal dell’aeroporto, in corso di ristrutturazione.
Reazione. Il governo di Israele, guidato dal primo ministro Yitzhak Rabin, avviò le trattative. Ma mentre scorrevano le ore e lo scadere dell’ultimatum (il 4 luglio) si avvicinava, il ministro della Difesa Shimon Peres e il capo di Stato maggiore Mordechai Gur misero a punto un raid, la cui guida fu affidata al colonnello Yonatan Netanyahu (fratello maggiore di Benjamin, attuale premier israeliano).
Questo il piano “impossibile”: inviare sul posto quattro aerei da trasporto C-130 Hercules (soprannominati “ippopotami” per la loro forma panciuta) e un Boeing 707 d’appoggio per il comando dell’operazione, assaltare di sorpresa il terminal e riportare a casa gli ostaggi.
Per raggiungere l’obiettivo gli “ippopotami” volarono di notte, a bassa quota e al buio per evitare di essere intercettati. Verso le 23 ora italiana del 3 luglio (l’una di notte del 4 luglio in Uganda) uno dopo l’altro atterrarono a Entebbe. L’operazione segreta fu favorita da una circostanza particolare: il mondo intero pensava ad altro, pronto a festeggiare il 4 luglio, i 200 anni dell’indipendenza degli Stati Uniti.
Azione. Dallo sportello posteriore di uno degli “ippopotami” sbarcò una Mercedes nera, seguita da due Land Rover. La messinscena avrebbe dovuto far credere a terroristi e ugandesi che Amin – che usava quel tipo di auto – si fosse recato di nascosto sul luogo. Sui tre veicoli c’erano invece uomini dei reparti speciali di Israele. Due sentinelle, però, s’insospettirono: Amin aveva appena cambiato la sua auto nera con una bianca. All'”alt” delle guardie gli israeliani abbassarono i finestrini e aprirono il fuoco. Poi accelerarono verso il terminal. Irrompendo urlarono agli ostaggi, in ebraico, di mettersi al riparo. Dopodiché liquidarono, in una sequenza mai chiarita del tutto, i sequestratori. Di certo conoscevano bene il teatro dell’azione: il terminal era stato progettato da un’azienda israeliana, che aveva fornito a Tel Aviv i relativi disegni.
Ritorno a casa. Sotto il tiro dei soldati ugandesi il commando tornò agli aerei con gli ostaggi. Nel frattempo altri militari israeliani (ce n’erano un centinaio) avevano distrutto i caccia ugandesi sulla pista, per evitare l’inseguimento. Imbarcati sugli “ippopotami”, 101 ostaggi su 105 tornarono a casa sani e salvi: 3 morirono nell’attacco e uno, ferito, morì in ospedale in Uganda. L’unico caduto del commando israeliano fu il comandante Netanyahu. Il blitz, dal primo atterraggio all’ultimo decollo degli Hercules, era durato un’ora e mezza (di cui più di mezz’ora di conflitto a fuoco).
Gli ugandesi denunciarono all’Onu l’azione ma l’ex colonia inglese, indipendente da appena 14 anni, benché sostenuta dall’Urss non fu ascoltata. Il raid, così, uscì dalla cronaca ed entrò nei manuali di antiterrorismo.
Se volete approfondire la spettacolare operazione dei corpi speciali israeliani (in gran parte elementi del reparto speciale Sayeret Matkal) potete farlo sfogliando le pagine 16-17 del n. 59 di Focus Storia nella biblioteca dell’Antica Frontiera.