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L'inizio della seconda battaglia di Char'kov

12/5/2015

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Oggi è il 73° anniversario dell'inizio della seconda battaglia di Char'kov.
Venne combattuta nel maggio del 1942 sul fronte orientale della seconda guerra mondiale tra le forze dell'Armata rossa, che avevano sferrato un potente attacco nel settore meridionale del fronte con l'obiettivo di riconquistare la grande città ucraina di Char'kov e le truppe della Wehrmacht che a loro volta stavano organizzando in quello stesso settore la loro offensiva generale d'estate (operazione Blu). Dopo alcune fasi drammatiche dall'esito alterno, le Panzer-Division tedesche passarono al contrattacco e isolarono le forze attaccanti che furono completamente accerchiate e quasi totalmente distrutte anche a causa di gravi errori di comando da parte dei dirigenti politico-militari sovietici.
La pesante sconfitta in questa battaglia e le gravi perdite subite indebolirono gravemente lo schieramento dell'Armata Rossa nel settore meridionale del fronte e crearono condizioni favorevoli ai tedeschi che poterono raggiungere rilevanti successi durante la successiva offensiva dell’estate 1942 in direzione del Caucaso e di Stalingrado.
Non esistono francobolli che commemorano questa sanguinosa battaglia. Per ricordarla abbiamo scelto un francobollo sovietico del 1980 dedicato al maresciallo
Semën Konstjantynovyč Tymošenko
, lo sfortunato generale che comandò la fallimentare controffensiva russa conclusasi con 277.000 perdite e 652 carri armati distrutti. L'esemplare lilla da 4 kopechi fu emesso in occasione del decimo anniversario della sua morte avvenuta a Mosca nel 1970.

Il piano tedesco prevedeva l’attacco per il 18 maggio. Timoscenko lo precedette.
Il 12 maggio, il maresciallo sovietico attaccò alla testa di forze che nessuno avrebbe immaginato così considerevoli, con una manovra a tenaglia la 6a armata del generale Paulus. Il braccio nord della tenaglia, avanzante dal settore di Volciansk, era formato dalla 28a armata sovietica comprendente sedici divisioni di fucilieri e di cavalleria, tre brigate corazzate e due brigate motorizzate autonome. Una massa soverchiante a confronto dei due corpi tedeschi, il XVII corpo d’armata del generale Hollidt e il LI del generale von Seydlitz-Kurzbach, comprendenti in tutto sei divisioni.
Il braccio sud, proveniente dal saliente di Isjum, era ancora più possente. L’VIII corpo d’armata tedesco del generale d’artiglieria Heitz e il VI corpo d’armata romeno vennero investiti da due armate sovietiche, la 6a e la 57a che comprendevano ventisei divisioni di fanteria e diciotto di cavalleria nonché quattordici brigate corazzate. La mezza dozzina di divisioni di fanteria tedesche e romene, per di più totalmente sprovviste di carri armati, si trovarono improvvisamente di fronte un nemico molte volte superiore e munito di poderose formazioni corazzate.
Non vi fu alcuna possibilità di assorbire l’urto russo nei centri di gravità. Le linee tedesche vennero semplicemente scavalcate. Numerosi capisaldi tedeschi, peraltro, tennero duro alle spalle del nemico, come era già accaduto durante la battaglia d’inverno.
Il generale Paulus scaraventò tutte le unità della 6a armata a portata di mano contro l’impetuosa e travolgente corrente dei russi. A venti chilometri soltanto da Karkov, i tedeschi riuscirono, veramente all’ultimo istante, a fermare il braccio nord della tenaglia di Timoscenko, attaccandolo ai fianchi con la 3a e 23a divisione corazzata e la 71a divisione di fanteria, fatte affluire in tutta fretta.
Non fu possibile, invece, fermare il troppo possente braccio sud della tenaglia, che avanzava dal saliente di Isjum, talché si profilava una catastrofe. I russi dilagarono verso occidente, e alcune formazioni di cavalleria sovietiche si avvicinarono il 16 maggio alla città di Poltava, quartier generale del feldmaresciallo von Bock, oltre cento chilometri alle spalle di Karkov. La situazione cominciava a farsi drammatica. Bock dovette affrontare un difficile dilemma.
Tra due giorni avrebbe dovuto cominciare l'”operazione Fridericus”. Ma l’offensiva russa aveva modificato totalmente la situazione. La 6a armata del generale Paulus era inchiodata sul posto e doveva difendersi a oltranza, per cui non era in grado di formare il gruppo attaccante a nord. Così, la manovra a tenaglia andava a farsi benedire.
Bisognava rinunciare a tutto il piano? O conveniva portare a termine l'”operazione Fridericus” con un braccio solo? Il capo di stato maggiore di von Bock, generale di fanteria von Sodenstern, premeva sull’esitante feldmaresciallo perché scegliesse la soluzione del “braccio unico”, peraltro molto rischiosa a causa delle forze di cui disponeva il nemico. A favore della soluzione, invece, militava il fatto che Timoscenko allungava pericolosamente il suo fianco con la progressiva avanzata verso occidente.
Era la buona occasione che ci voleva, e il feldmaresciallo decise di approfittarne e diede ordine di effettuare l'”operazione Fridericus” con un solo “braccio”. Per togliere ai russi ogni possibilità di proteggere il loro fianco allungato, von Bock decise addirittura di sferrare l’attacco con un giorno di anticipo su quello previsto dal piano.
Così, il gruppo armate von Kleist entrò in azione il 17 maggio nel settore a sud di Isjum con elementi della 1a armata corazzata e con la 17a armata, in tutto otto divisioni di fanteria, due divisioni corazzate e una divisione di fanteria motorizzata. Alcune divisioni romene proteggevano l’ala sinistra delle forze attaccanti.

Se volete potete continuare a leggere il libro di Paul Carell Operazione Barbarossaprelevandolo dalla biblioteca dell’Antica Frontiera.


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La nascita di Lenin

10/4/2015

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1945. 75° anniversario della nascita di Lenin.
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1955. 85° anniversario della nascita di Lenin.
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1956. 86° anniversario della nascita di Lenin.
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1957. 87° anniversario della nascita di Lenin.
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1958. 88° anniversario della nascita di Lenin.
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1959. 89° anniversario della nascita di Lenin.
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1960. 90° anniversario della nascita di Lenin.
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1961. 91° anniversario della nascita di Lenin.
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1962. 92° anniversario della nascita di Lenin.
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1963. 93° anniversario della nascita di Lenin.
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1964. 94° anniversario della nascita di Lenin.
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1965. 95° anniversario della nascita di Lenin.
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1966. 96° anniversario della nascita di Lenin.
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1967. 97° anniversario della nascita di Lenin.
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1968. 98° anniversario della nascita di Lenin.
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1970. Centenario della nascita di Lenin.
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1970. Centenario della nascita di Lenin. 
Esposizione filatelica confederale.
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1970. Centenario della nascita di Lenin. 
Incontro mondiale della gioventù.
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1970. Centenario della nascita di Lenin. Seconda emissione.
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1971. 101° anniversario della nascita di Lenin.
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1976. 106° anniversario della nascita di Lenin.
1975. 105° anniversario della nascita di Lenin.
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1977. 107° anniversario della nascita di Lenin.
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1978. 108° anniversario della nascita di Lenin.
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1979. 109° anniversario della nascita di Lenin.
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1980. 110° anniversario della nascita di Lenin.
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1981. 111° anniversario della nascita di Lenin.
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1982. 112° anniversario della nascita di Lenin.
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1983. 113° anniversario della nascita di Lenin.
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1984. 114° anniversario della nascita di Lenin.
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1985. 115° anniversario della nascita di Lenin.
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1986. 116° anniversario della nascita di Lenin.
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1987. 117° anniversario della nascita di Lenin.
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1988. 118° anniversario della nascita di Lenin.
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1989. 119° anniversario della nascita di Lenin.
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1990. 120° anniversario della nascita di Lenin.
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1991. 121° anniversario della nascita di Lenin.

Oggi è il 145° anniversario della nascita di Lenin.
Vladimir Il'iec Ul'janov, nato a Simbirsk il 22 aprile 1870 (10 aprile del calendario giuliano) e noto con lo pseudonimo di Lenin, fu uno dei principali pensatori marxisti, il promotore e l'indiscusso leader della corrente bolscevica, l'animatore della rivoluzione d'ottobre e il fondatore dello stato sovietico. Formatosi negli ambienti rivoluzionari populisti, venne a contatto con il pensiero marxista frequentando i circoli operai e socialisti di Pietroburgo, entrando presto in polemica con le posizioni dei populisti e rompendo con essi (Che cosa sono gli "amici del popolo" e come lottano contro la socialdemocrazia, 1894). Confinato in Siberia nel 1897 e costretto all'esilio tre anni dopo, fondò a Monaco il giornale "Iskra" (Scintilla) come organo di battaglia politica e ideologica tra le correnti del Partito operaio socialdemocratico russo. Cominciò così una lunga opera di formazione ideologica: Lenin, schierato su posizioni di sinistra sia nella seconda Internazionale che nel proprio partito, si distingueva per la centralità assegnata all'azione dell'avanguardia politica. Questa doveva guidare le masse proletarie alla conquista del potere politico, anche attraverso forzature, criticando l'attendismo delle socialdemocrazie europee. La formazione dei quadri del partito, la necessità di un'analisi rigorosa della fase politica, l'importanza della rottura rivoluzionaria nella presa del potere politico costituivano i suoi punti cardinali di riferimento (Che fare?, 1902). Su queste posizioni egli condusse un'aspra battaglia interna al Partito socialdemocratico russo, dando vita dal 1903 alla frazione bolscevica.
IL PARTITO AVANGUARDIA DELLA CLASSE. Prese forma in quegli anni l'idea leninista del partito come nuova avanguardia della classe operaia: esso doveva essere considerato l'espressione consapevole degli interessi del proletariato industriale e la direzione organizzata delle sue lotte politiche, composto da "rivoluzionari di professione" i cui rapporti erano regolati da una rigida disciplina che subordinava tutti i militanti alle decisioni della maggioranza e che avrebbe assunto il nome di "centralismo democratico". Rientrato in Russia in occasione della rivoluzione del 1905, fu nuovamente costretto all'esilio dal suo fallimento. La sconfitta dell'ipotesi democratica rinsaldò in Lenin la convinzione della necessità di una rottura politica violenta e del ruolo centrale del partito rivoluzionario. La modernizzazione della Russia per lui poteva avvenire solo a opera della classe operaia e della sua avanguardia politica. In questo quadro egli esaltava il ruolo della cultura teorica (cioè il ruolo demiurgico del partito) in contrapposizione sia all'"economicismo" marxista (secondo cui la forza politica deriva automaticamente da quella economica della classe operaia), sia allo "spontaneismo", cioè la subordinazione della lotta politica alla spontaneità delle lotte operaie. Sul piano internazionale Lenin condusse, negli anni precedenti lo scoppio della Prima guerra mondiale, un'aspra battaglia ideologica all'interno della seconda Internazionale, arrivando ad accusarla di tradimento di fronte alla dipendenza che i partiti socialisti europei mostrarono nei confronti dei loro governi allo scoppio della guerra. Contemporaneamente Lenin analizzò quella che considerava una nuova fase dello sviluppo capitalistico, culminante nella politica imperialistica delle grandi potenze e nella guerra. L'imperialismo, fase suprema del capitalismo (come egli lo definì nel 1916), determinava una situazione di progressiva concentrazione monopolistica della produzione, la crisi della libera concorrenza e il predominio del capitale finanziario. Ciò costituiva per Lenin un'ulteriore riprova della non riformabilità del sistema capitalistico, destinato a provocare continue crisi e conflitti, e avvalorava l'ipotesi della necessità di una forzatura politica rivoluzionaria. Il frutto di tutte queste elaborazioni teoriche apparve particolarmente efficace durante la rivoluzione russa del 1917. Lenin, rientrato dall'esilio ginevrino con un vagone ferroviario messogli a disposizione dalle autorità tedesche (e per nulla preoccupato del fatto che costoro, in questo modo, si riproponevano d'avvantaggiarsi militarmente nei confronti della Russia), organizzò e diresse l'insurrezione d'ottobre, imponendola al suo stesso partito. Resosi conto della debolezza dei governi provvisori, delle divisioni e dell'immobilismo di menscevichi e socialrivoluzionari, "costrinse" i bolscevichi (i cui dirigenti, nella quasi totalità, erano contrari all'insurrezione) a forzare militarmente la situazione per raccogliere il malcontento delle masse russe, in particolare di settori operai e dell'esercito che reclamavano la fine della guerra, portando al potere i comunisti che pure erano in minoranza sia nei soviet che nel paese. Attraverso la parola d'ordine dell'insurrezione, tutto il potere ai soviet, Lenin indicava sia una forma di democrazia politica più avanzata rispetto al regime parlamentare borghese, sia uno strumento politico di transizione dal capitalismo al comunismo. 
LA DITTATURA DEL PROLETARIATO. Assunta la guida del governo, delineò i tratti fondamentali del futuro stato sovietico rilanciando la marxiana dittatura del proletariato come strumento necessariamente coercitivo per attuare la trasformazione dell'apparato statale ereditato dal regime zarista (Stato e rivoluzione, 1917). Dopo aver fondato la terza Internazionale (o Comintern), negli ultimi anni della sua vita, già molto malato, si misurò con i limiti e le contraddizioni della sua stessa metodologia politica, aggravati e messi in risalto dall'isolamento internazionale e dalle difficoltà economiche dell'Urss. Da un lato creò così i presupposti per l'autoritarismo staliniano e la centralità dell'apparato del partito e, dall'altro, venne emarginato da Stalin che approfittò della malattia (emiplegia) che lo aveva colpito nel 1923 per isolarlo dal resto del partito. Lenin morì a Gorki il 21 gennaio 1924. Il suo testamento politico, in cui criticava Stalin e metteva in guardia il partito dai pericoli della burocrazia e dell'autoritarismo dell'apparato, non venne reso noto per molti anni. Mentre Lenin diventava da morto un elemento di stabilità del regime attraverso una santificazione che egli stesso non avrebbe voluto, Stalin, nel suo nome, procedeva alla progressiva trasformazione in senso autocratico del partito. Il centro del pensiero di Lenin, e l'eredità più rilevante che egli lasciò al movimento comunista internazionale, fu l'indissolubile nesso tra economia e politica: la politica concentrava in sé tutte le tendenze economiche e, contemporaneamente, doveva controllare l'economia. Inoltre egli elaborò un'interpretazione del marxismo che, da un lato, ne accentuò le valenze di sociologia scientifica (in base a questa lettura Il capitale diventava l'opera fondamentale di Marx) e, dall'altro, ne esaltò la portata filosofica assumendolo come modello interpretativo nuovo e autosufficiente.

Esistono numerosissimi francobolli dedicati a Lenin, sono talmente tanti che costituiscono una collezione tematica a sé stante. Filatelia e Storia ha raccolto in questo articolo tutti gli esemplari sovietici riguardanti l'anniversario della nascita del grande rivoluzionario russo (81 francobolli e 7 foglietti). Di ognuno di essi abbiamo pubblicato l'immagine e una breve descrizione sopra.

Formatosi negli ambienti rivoluzionari populisti, Vladimir Il’ic Ul’janov aderisce al marxismo verso la metà degli anni Novanta (era nato nel 1870) a contatto con i circoli operai di Pietroburgo. Confinato in Siberia nel 1897 ed esiliato tre anni dopo, fonda a Monaco il giornale “Iskra” (Scintilla), con cui inizia a muoversi fra le diverse correnti del Partito operaio socialdemocratico russo, nato nel 1898. Fautore di un partito d’avanguardia disciplinato, formato da soli militanti rivoluzionari, Lenin si pone nel 1903 alla testa della frazione bolscevica, che conquista la maggioranza nel Congresso di Bruxelles e Londra. Nel Congresso della II Internazionale del 1907, Lenin propone, insieme a Rosa Luxemburg, una risoluzione per trasformare una possibile guerra imperialista in lotta rivoluzionaria contro il capitalismo.
Allo scoppio del primo conflitto mondiale si prodiga, in Svizzera, per organizzare le tendenze internazionaliste interne ai partiti socialisti europei, dando un contributo fondamentale all’istituzione delle conferenze di Zimmerwald (1915) e Kienthal (1916). Scoppiata la rivoluzione di febbraio, Lenin raggiunge la Russia nell’aprile 1917, riuscendo ad imporre al partito, con le Lettere da lontano e poi con le Tesi d’aprile, la strategia rivoluzionaria che condurrà alla vittoria dell’Ottobre.
Il ruolo di Lenin nella rivoluzione russa non è solo quello di un leader capace, di un dirigente autorevole, di un capo dotato di grande seguito e carisma. E’ grazie alle sue doti di tenacia, capacità organizzativa, abilità nel governare la piccola ma litigiosa dirigenza bolscevica, che Lenin riesce a imporsi nei momenti decisivi pur trovandosi spesso in minoranza. Le decisioni di porre la rivoluzione socialista all’ordine del giorno, di dare vita a un’insurrezione condotta dal solo Partito bolscevico, di mantenere il potere sotto il controllo esclusivo di questo, di accettare un trattato di pace umiliante e svantaggioso ma necessario, vengono accolte dal partito dopo essere sempre state in minoranza. Senza Lenin il Partito bolscevico avrebbe fiancheggiato la rivoluzione, ma difficilmente se ne sarebbe impadronito, sottomettendola al proprio potere.

Se volete approfondire la biografia di Lenin potete farlo sfogliando le pagine del libro Storia illustrata del comunismo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.

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La nascita del Comintern

2/3/2015

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Oggi è il 96° anniversario della nascita del Comintern.
Organizzazione internazionale dei partiti comunisti, fu fondata per iniziativa dei bolscevichi russi secondo i quali la rivoluzione d'ottobre aveva aperto, nella storia delle lotte del proletariato, una fase nuova per la conquista del potere politico, che rendeva prioritaria la difesa dello stato sovietico minacciato dalla reazione delle potenze occidentali. Dopo il fallimento della seconda Internazionale, scioltasi allo scoppio della Prima guerra mondiale, la nuova doveva riunificare le correnti rivoluzionarie e favorire la formazione dei partiti comunisti in tutto il mondo. Su questa base, nel marzo 1919, si riunirono a Mosca delegati di partiti socialisti e comunisti di vari paesi per sostenere il governo sovietico e per compiere, secondo le parole di Lenin, il primo passo verso la Repubblica internazionale dei soviet e la vittoria mondiale del comunismo. Dopo questo primo atto formale di costituzione, l'Internazionale comunista tenne nel luglio-agosto del 1920 il suo secondo congresso, cui parteciparono delegazioni di trentasette paesi e che tracciò le basi ideali e programmatiche accogliendo i ventuno punti proposti da Lenin: i partiti che intendevano aderire si impegnavano a darsi una struttura analoga a quella del Partito comunista sovietico, a sostenere l'Urss, a rispettare le direttive del Comintern, a lottare contro la socialdemocrazia per favorire la nascita di autonomi partiti rivoluzionari. A dirigere l'Internazionale venne designato un comitato esecutivo permanente, con sede a Mosca, il cui primo presidente fu G.E. Zinov'ev. Negli anni successivi il Comintern risentì pesantemente dei conflitti interni al gruppo dirigente del Partito comunista dell'Urss, che condizionò le scelte politiche subordinando in più di un'occasione agli interessi nazionali sovietici le esigenze dei partiti comunisti dei vari stati, soprattutto negli anni di Stalin e della sua teoria del socialismo in un solo paese. Anche lo scioglimento dell'organizzazione, nel maggio 1943, maturò come conseguenza della politica estera sovietica che, durante la guerra contro il nazismo, volle lanciare agli alleati occidentali un segnale di riconciliazione accantonando, con l'Internazionale, il progetto della rivoluzione mondiale di cui questa doveva essere lo strumento operativo.
Per ricordare la fondazione dell'Internazionale Comunista abbiamo scelto un francobollo sovietico emesso nel 1968. L'esemplare da 30 kopechi fa parte della serie dedicata ai dipinti dei Musei Statali di San Pietroburgo (all'epoca Leningrado) e raffigura un quadro di 
Boris Michajlovič Kustodiev intitolato "I festeggiamenti nel 1921 del secondo congresso del Comintern in Piazza Uritsky a Pietrogrado" (oggi San Pietroburgo, ndr).

Di fronte all’avallo che la socialdemocrazia internazionale ha dato alla guerra, e al fallimento della sua promessa internazionalista di fermarla, piccoli gruppi di minoranza all’interno di alcuni partiti socialisti si muovono nella prospettiva di rifondare la Seconda Internazionale, di fatto ormai morta.
I socialisti contrari alla guerra, che rifiutano la scelta patriottica di difendere i propri governi impegnati nel conflitto, si ritrovano nel corso di due conferenze: la prima a Zimmerwald nel settembre 1915 e la seconda a Kienthal nell’aprile 1916.
Tra questi, guidata da Lenin, vi è una minoranza convinta della necessità di trasformare la guerra tra stati in guerra di classe e di creare una nuova organizzazione internazionale dei lavoratori. Questo progetto torna d’immediata attualità all’indomani della rivoluzione d’ottobre, prologo, secondo il punto di vista di Lenin, della rivoluzione che sarebbe dovuta scoppiare in tutta Europa. Creare una nuova Internazionale, secondo i capi bolscevichi, avrebbe permesso di raggruppare le sparse correnti rivoluzionarie e favorire in tutto il mondo la formazione dei partiti comunisti, misura ritenuta indispensabile alla vittoria stessa della rivoluzione.
Nel marzo 1919, su invito di Lenin, rappresentanti di numerosi partiti socialisti e dei pochi partiti comunisti già costituiti si ritrovano a Mosca, dove sull’onda dell’entusiasmo per le spinte rivoluzionarie che sembrano percorrere quasi tutti i paesi europei, i bolscevichi riescono a imporre, di fatto, la fondazione della Internazionale comunista.
Poco più di un anno dopo, nell’estate del 1920, il Comintern (così si chiama l’Internazionale in versione russa) nel II Congresso delinea il suo programma e adotta i 21 punti stilati da Lenin per individuare i partiti che possono fare parte della nuova organizzazione: il più importante di essi è la rottura netta con la socialdemocrazia e la formazione di partiti comunisti autonomi, anche se di piccole dimensioni.
La nuova Internazionale nasce attorno alle ipotesi e alle scelte elaborate dai bolscevichi, che utilizzano il prestigio della rivoluzione vittoriosa in Russia per assumerne la direzione e il controllo assoluti. Anche se nell’estate del 1920 la spinta rivoluzionaria europea è già in fase calante, l’attualità di sbocchi insurrezionali è considerata realistica, insieme con la convinzione che la radicalizzazione delle masse possa riprendere solo ove esista un partito d’avanguardia organizzato e disciplinato, su cui fondare le speranze di conquista del potere.
Quasi ovunque i partiti comunisti nascono per scissione di minoranze dai partiti socialisti esistenti, perdendo spesso il legame di massa, frutto di anni di lotte, e dividendo il movimento operaio con contrapposizioni ideologiche sempre più nette. Solo in Francia e Cecoslovacchia i partiti comunisti hanno la maggioranza. In Italia – come in Gran Bretagna, Svizzera, Spagna, Austria, Belgio, Olanda e Danimarca – il Partito comunista è nettamente minoritario; la sua scissione verrà criticata anche da una parte dei comunisti tedeschi, la cui influenza cresce ma senza riuscire ad attrarre nella propria orbita la maggioranza dei socialisti indipendenti.
Nel 1921, in occasione del III Congresso del Comintern, con la fermezza che gli è caratteristica, Lenin riesce a imporre una nuova svolta, dettata dalla convinzione che la fase acuta della rivoluzione sia stata ormai superata e che sia in corso un riflusso conservatore.
L’arma per convincere i partiti comunisti appena formati che la rivoluzione non è più il loro obiettivo immediato è soprattutto di ordine disciplinare e organizzativo, cui si aggiunge l’autorevolezza degli unici rivoluzionari al potere.
Analogamente a quanto sta accadendo in Russia, questa svolta di moderazione è accompagnata da un irrigidimento burocratico e da una progressiva, evidente limitazione degli spazi di dibattito e di dissenso.

Se volete approfondire la nascita del Comintern potete farlo sfogliando il volume Storia illustrata del comunismo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.


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Il Manifesto del Partito Comunista

21/2/2015

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Cina, 1963. 145° anniversario della nascita di Karl Marx. Manifesto del Partito Comunista.
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DDR, 1966. 20° anniversario del SED, il Partito Socialista Unificato di Germania. Karl Marx e Friedrich Engels, frontespizio del Manifesto del Partito Comunista.
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DDR, 1968, 150° anniversario della nascita di Karl Marx. Frontespizio del Manifesto del Partito Comunista.
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DDR, 1983. Centenario della morte di Karl Marx. 
Karl Marx e Friedrich Engels, frontespizio del Manifesto del Partito Comunista.
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URSS, 1964. Centenario della fondazione della Prima Internazionale. Manifesto del Partito Comunista, scritta "Proletari di tutto il mondo unitevi!".

Oggi è il 167° anniversario della pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista.
Opuscolo scritto da Karl Marx con la collaborazione di Friedrich Engels su incarico della Lega dei comunisti, venne pubblicato a Londra e divenne il programma politico della prima Internazionale (1864), ottenendo amplissima diffusione. Vi si identificava la Storia come continua lotta fra le classi, prospettando i mezzi con i quali il proletariato avrebbe potuto sconfiggere la borghesia e instaurare il comunismo.
Per ricordare il fondamentale e rivoluzionario libro che avrebbe condizionato la seconda metà dell'Ottocento e quasi tutto il Novecento abbiamo scelto i cinque esemplari di Cina, DDR e URSS ad esso dedicati. Di ognuno di essi abbiamo pubblicato l'immagine e una breve descrizione sopra.


Alla vigilia delle rivoluzioni europee del 1848 il pensiero comunista subì un profondo influsso, quasi una scossa, dalla pubblicazione avvenuta a Londra di un opuscolo in lingua tedesca, redatto da Karl Marx e Friedrich Engels, intitolatoManifesto del Partito Comunista. Si tratta di un libretto propagandistico famoso. Centinaia di migliaia, forse milioni di persone hanno letto e meditato su queste pagine che costituivano, almeno fino a pochi anni fa, una specie di breviario per la formazione ideologica di una buona metà del nostro pianeta.
Il valore dell’opera non è però solo quello di essere documento storico di una visione del mondo: in questo opuscolo sono enunciate le linee fondamentali di un pensiero che possiamo a tutti gli effetti definire “classico” e che ha influenzato i successivi sviluppi del movimento operaio europeo e asiatico.
Il primo capitolo, intitolato Borghesi e proletari, presenta la genealogia della società borghese e una succinta ma completa esposizione della teoria che va sotto il nome di concezione materialistica della storia. La storia, come aveva insegnato all’inizio dell’Ottocento il filosofo G.W.F. Hegel (1770-1831), è anche per Marx ed Engels un processo dialettico, in cui le varie fasi si susseguono superandosi reciprocamente. Non è facile dire che cosa significhi “processo dialettico”, anche perché su questo problema l’interpretazione degli studiosi non è sempre univoca.
Si può provare a pensare che la fondamentale caratteristica degli uomini sia quella di fare sostanzialmente i loro interessi, ma di poterli fare soltanto quando si trovano associati con altri uomini, in quella che Hegel e i suoi allievi chiamano società civile. La dialettica consiste proprio nel continuo scontrarsi delle esigenze dell’individuo o del gruppo che vuole fare i propri interessi con quelle degli altri. Per esempio il servo ubbidisce al suo padrone, ma anche il padrone non potrebbe mangiare se il servo non lavorasse per lui, e il servo non avrebbe di che vivere se il padrone non gli fornisse i mezzi per lavorare. Ebbene, Marx ed Engels giungono alla conclusione che tutte le società esistite fino a quel momento si siano basate su questi rapporti conflittuali, anzi, che le società non siano propriamente la somma degli individui che le compongono, bensì la somma di quei rapporti sociali che si sono definiti “dialettici”. Ma questi rapporti non sono eterni.
Lo studio dell’economia e della società capitalistica, in cui soprattutto Marx resta un maestro per certi aspetti insuperato, consente ai due pensatori di fare questa affermazione. La società così come noi la conosciamo, almeno in tutta l’epoca storica, è fatta di conflitti fra gruppi di individui e di individui fra loro per la conquista della possibilità di opprimere gli altri. L’idea stessa di società contiene una limitazione di fondo alla libertà dell’uomo. Da quando esiste la divisione del lavoro, c’è chi, inevitabilmente e per certi aspetti necessariamente, vive sul lavoro degli altri, chi sfrutta il lavoro, dunque limita la libertà degli uomini nella sfera più fondamentale, quella dell’appropriazione dei beni necessari alla sopravvivenza e alla vita in generale. Lo sfruttamento può finire perché, all’interno del movimento generale della storia, il gruppo dominante nella società capitalistica, vale a dire la borghesia imprenditoriale e finanziaria, è in grado di sviluppare in misura e proporzioni mai viste prima tutte le forze produttive e creative dell’uomo. Ciò produce problemi molto seri, talvolta in contraddizione con le relazioni sociali generate dal capitalismo; produce insomma una contraddizione che nasce da quella che noi oggi chiameremmo “aspettativa”. Gli uomini si impadroniscono delle capacità e talvolta anche delle conoscenze che sono inizialmente solo della classe dominante e vogliono quindi sostituirla. Si aspettano di sostituirla. Quando ciò accade, la rivoluzione contiene sempre qualche tratto violento. Il proletariato, dicono Marx ed Engels, la classe degli oppressi, ha davanti a sé un’occasione d’oro per far compiere un passo decisivo alla storia dell’umanità. Nel momento in cui diventa maggioranza, povera e tendenzialmente omogenea della società, potrà, attraverso l’opera dei comunisti, prendere coscienza della propria condizione e abbattere il regime della borghesia liberando l’intera umanità dal conflitto degli interessi. La liberazione consiste proprio nel fatto, come dice Marx nel terzo libro del Capitale, che verranno abolite le condizioni del lavoro salariato. Non si lavorerà più per il profitto di pochi, ma per le necessità di ciascuno o per lo svago della mente, o del corpo. Nella società non ci saranno più conflitti di classe.
Marx ed Engels ritengono che, con l’eliminazione del fine di lucro, dello scopo del profitto dall’attività industriale, la libertà, cioè la libertà nell’appropriazione dei beni, possa realizzarsi per tutti e non solo per la classe al momento dominante. «Infine: il sistema borghese dipende, da un lato, dalla progressiva accumulazione del capitale, dall’altro dalla periodica distruzione di questo stesso capitale attraverso crisi che tendono a diventare sempre più gravi» (Cole).
Le previsioni del Manifesto si rivelarono presto del tutto sbagliate. In Inghilterra, dove l’opuscolo era uscito, il proletariato non era affatto diventato una maggioranza schiacciante e informe di personale privo di qualunque specializzazione, e i salari cominciavano lentamente ma costantemente ad aumentare, specialmente tra gli operai più specializzati. Nei loro scritti successivi i due autori non diedero mai l’impressione che volessero modificare le prese di posizione del Manifesto: la situazione di molti Paesi dell’Europa centrale e orientale sembrava adattarsi ancora alla perfezione a quanto era stato scritto nel 1848.
Dopo le delusioni patite durante la rivoluzione Marx si gettò nello studio dell’economia politica, passando intere giornate nella biblioteca londinese del British Museum, dove riuscì a elaborare e pubblicare nel 1867 il primo volume della sua monumentale opera intitolata Il Capitale. Nel corso di questi studi analizzò soprattutto le statistiche riguardanti la prima metà dell’Ottocento, non potendo disporre ancora dell’aggiornamento sulle vicende più recenti. Il Marxismo affermava la dipendenza delle teorie scientifiche e delle forme d’arte dal periodo storico nel quale si affermano; quindi, se applichiamo coerentemente questa visione allo stesso Marxismo, dobbiamo definirlo come una teoria della prima fase della rivoluzione industriale. In effetti si verificarono due fatti solo apparentemente fra loro contraddittori: in Occidente, laddove lo sviluppo industriale andava affermandosi in modi completamente diversi da quanto Marx ed Engels avevano previsto, nacquero proposte di revisione del Marxismo che, invece, fu accettato come una religione in quei Paesi più arretrati in cui la diagnosi marxiana si applicava correttamente o addirittura descriveva uno scenario futuribile.
Possiamo dire, insomma, che il Manifesto, scritto d’occasione, appello all’azione più che riflessione teorica, non ci diede la sintesi di tutta la teoria marxiana. «Del suo pensiero fondamentale Marx vi immise solo quel tanto che secondo lui poteva essere digerito dai membri, attuali e futuri, dell’organizzazione sotto i cui auspici il documento usciva, o che poteva riuscire accetto ai delegati che dovevano approvarlo. Vi inserì anche molte cose che si rivolgevano più a quei delegati e ai loro seguaci che non al resto del mondo, e parecchie altre che dovevano starci perché così essi volevano» (Cole). Tra le cose che Marx non inserì c’era sicuramente uno dei pilastri teorici di tutto il suo sistema di pensiero: il ruolo dominante dell’evoluzione delle forze produttive, concetto indefinito ma suggestivo, nella determinazione dei rapporti sociali. Su questo tema il movimento operaio, che assumerà il pensiero di Marx come un faro, si dividerà in due tronconi sempre più netti: il Socialismo riformista e il Socialismo rivoluzionario che, dopo la Rivoluzione russa, darà vita al movimento dei Partiti Comunisti.

Se volete approfondire il programma rivoluzionario di Karl Marx e Friedrich Engels potete farlo sfogliando il volume Atlante della storia – Il comunismo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.

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La nascita di Boris Leonidovič Pasternak

10/2/2015

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Oggi è il 125° anniversario della nascita di Boris Leonidovič Pasternak.
Scrittore russo, dopo aver studiato a Mosca e a Marburgo, esordì con alcune raccolte di liriche (Il gemello tra le nuvole, 1914; Mia sorella la vita, 1917) e poemi (L'anno 1905, 1926, Il luogotenente Schmidt, 1927) che si segnalano per il sapiente uso della lingua e la musicalità del verso. Dopo alcuni racconti, ottenne un riconoscimento internazionale con il romanzo Il dottor Živago (1946-55), pubblicato per la prima volta in Italia nel 1957, sofferta e critica rievocazione del periodo rivoluzionario attraverso la figura del medico protagonista. Fortemente osteggiato in URSS, gli fu impedito di ritirare il premio Nobel (1958). Fu anche apprezzato traduttore di W. Shakespeare, J. W. Goethe, R.M. Rilke, ecc.

Per rendere omaggio al grande scrittore moscovita abbiamo scelto proprio il francobollo che l'Unione Sovietica, un tempo sua grande nemica, gli dedicò nel 1990 in occasione del centenario della sua nascita. L'esemplare bluastro da 15 kopechi fa parte della prima serie dedicata ai vincitori russi del premio Nobel per la letteratura.

PARTE PRIMA.
IL DIRETTO DELLE CINQUE.
1.
Andavano e sempre camminando cantavano “eterna memoria”, e a ogni pausa era come se lo scalpiccìo, i cavalli, le folate di vento seguitassero quel canto.
I passanti facevano largo al corteo, contavano le corone, si segnavano. I curiosi, mescolandosi alla fila, chiedevano: «Chi è il morto?» La risposta era: «Zivago.» «Ah! allora si capisce.» «Ma non lui. La moglie.» «E’ lo stesso. Dio l’abbia in gloria. Gran bel funerale.»
Scoccarono gli ultimi minuti, scanditi, irrevocabili. «La terra del Signore e la sua creazione, l’universo e ogni cosa vivente.»
Il prete nel gesto della benedizione gettò un pugno di terra su Màrija Nikolàevna. Fu intonato «Con gli spiriti giusti». Poi tutto prese un ritmo spaventoso. La bara fu chiusa, inchiodata, calata nella fossa. Tambureggiò la pioggia delle palate di terra, rovesciata in fretta, con quattro vanghe, sulla cassa, finché non si formò un piccolo tumulo. Sopra vi salì un ragazzo di dieci anni.
Soltanto quello stato d’inebetito torpore, che di solito prende alla fine d’ogni imponente funerale, poté creare l’impressione che il bambino volesse tenere un discorso sulla tomba della madre.
Lui sollevò la testa e dal tumulo abbracciò con sguardo assente i deserti spiazzi autunnali e le guglie del monastero. Il suo volto camuso si contrasse. Il collo si protese. Fosse stato un lupacchiotto a levare il capo in quell’atto, c’era da credere che avrebbe preso a ululare. Il ragazzo si coprì la faccia con le mani e scoppiò in singhiozzi. Muovendo verso di lui, una nube cominciò a colpirlo sulle mani e sul viso con le umide sferze di un gelido scroscio. Alla tomba si avvicinò un uomo, in nero, con le maniche strette che tiravano ai gomiti. Era il fratello della morta e zio del fanciullo che piangeva, il sacerdote Nikolàj Nikolàevich Vedenjapin, ridotto allo stato laicale a propria richiesta. Si accostò al ragazzo e lo condusse via.

2.
Trascorsero la notte al monastero, in una cella che era stata riservata allo zio, come a
persona lì ben nota da tempo. Era la vigilia dell’Intercessione della Vergine.
L’indomani sarebbero dovuti partire per un lungo viaggio verso il sud, fino a un capoluogo di provincia del Volga, dove padre Nikolàj era impiegato presso una casa editrice, che pubblicava il giornale progressista della zona. Avevano già acquistato i biglietti per il treno e riunito nella cella il loro bagaglio. Nelle vicinanze, dalla stazione il vento portava i fischi lamentosi delle locomotive che facevano manovra lontano.
Verso sera vi fu un brusco sbalzo di temperatura. Due finestre a livello del suolo davano su uno squallido angolo d’orto, circondato da gialli arbusti d’acacia, sulle pozzanghere gelate della strada e su quel lembo di cimitero dove la mattina avevano seppellito Màrija Nikolàevna. Tranne alcune aiuole, marezzate di cavoli illividiti dal freddo, l’orto era spoglio. Quando irrompeva il vento, i rami nudi delle acacie si dimenavano come ossessi, piegandosi fin sulla strada.
Un colpo alla finestra destò Jurij durante la notte. L’oscura cella era magicamente illuminata da una guizzante luce bianca. Jura corse in camicia alla finestra e appoggiò il viso al vetro gelido.
Fuori non c’era più la strada, né il cimitero, né l’orto: solo la tormenta che infuriava, l’aria fumigante di neve. Quasi che la tormenta si fosse accorta del ragazzo e, consapevole del proprio terrificante potere, godesse dell’impressione che gl’incuteva.
E fischiava e ululava, tutta affannata a richiamare la sua attenzione. Dal cielo, sdipanandosi giro su giro da matasse senza fine, un bianco ordito cadeva sulla terra avvolgendola in un sudario. Non era rimasta che la tormenta al mondo, sola e incontrastata.
Il primo impulso di Jura, scendendo dal davanzale, fu di vestirsi e di correre in istrada: occorreva fare qualcosa. Ora lo angosciava l’idea che la neve seppellisse i cavoli del monastero prima che non si potessero più raccogliere; ora il pensiero della madre, là, in quel campo, ricoperta dalla neve, senza più forze per resisterle, mentre sprofondava sotto terra, sempre più giù, ancora più lontano da lui.
Ruppe nuovamente in lacrime. Lo zio si svegliò, gli parlò di Cristo e lo consolò, poi sbadigliando si accostò alla finestra e rimase a guardar fuori pensieroso.
Cominciarono a vestirsi. Era quasi l’alba.

3.
Finché fu viva la mamma, Jura ignorava che il babbo li aveva da tempo abbandonati, che viaggiava per le città della Siberia e all’estero, conducendo una vita dissoluta e che aveva finito con lo sperperare un patrimonio di milioni. A Jura avevano sempre detto che si trovava a Pietroburgo, o a qualche fiera, quasi sempre la fiera di Irbìtsk.
Poi, alla mamma, che non era mai stata in buona salute, si manifestò la tisi. Per curarsi prese allora a viaggiare nel sud della Francia e nell’Italia settentrionale, dove Jura l’accompagnò per due volte. Così era trascorsa la sua infanzia, disordinatamente e in mezzo a continui misteri, spesso affidato a gente estranea, sempre diversa. Ma si era abituato ai cambiamenti e, in quella situazione di perenne provvisorietà, l’assenza di suo padre non lo stupiva.
Bambino, aveva potuto ancora conoscere i tempi in cui col nome che portava, si designavano un’infinità di cose, le più disparate.
C’era la manifattura Zivago, la banca Zivago, le case Zivago, il nodo alla cravatta e con la spilla appuntata alla Zivago, c’era persino un dolce di forma rotonda, una specie di babà al rhum, che si chiamava anch’esso Zivago; e per un certo tempo a Mosca gridare a un vetturino: «da Zivago!» equivaleva né più né meno che a dirgli: «a casa del diavolo!»; e infatti il vetturino vi avrebbe trasportato con la sua slitta in capo al mondo, nel regno di Oga e Magoga. Lì vi accoglieva un parco silenzioso. Sui rami pendenti degli abeti si posavano i corvi, facendone piovere la brina. Si udiva all’intorno il loro gracchiare, echeggiante come lo schianto ligneo d’un ramo. Cani di razza accorrevano dalla dimora di recente costruita, traversando la strada che tagliava il bosco. Laggiù si accendevano luci, scendeva la sera.
D’improvviso, tutto questo svanì. Erano diventati poveri.

4.
Nell’estate del ‘103, Jura e lo zio si recavano attraverso i campi, su un “tarantàs” a due cavalli, a Dupljanka, la tenuta di Kologrivov, fabbricante di seta e protettore delle arti, per far visita a Ivàn Ivànovich Voskobòjnikov, cultore di pedagogia e autore di opere divulgative.
Era il giorno della Madonna di Kazàn’, nel pieno della mietitura. Poiché era l’ora del pranzo o forse perché giorno festivo, nei campi non s’incontrava anima viva. Il sole ardeva sulle strisce non ancora mietute, come nuche, rasate in mezzo, di detenuti. Sui campi volteggiavano gli uccelli. A spighe ripiegate il grano s’irrigidiva in file serrate, nella più assoluta fissità, o laggiù, lontano dalla strada, si drizzava in covoni, che a guardarli per un po’ finivano col dare la sensazione di figure in movimento, quasi agrimensori che camminassero sulla linea dell’orizzonte annotando qualcosa.
«E quelli?» domandò Nikolàj Nikolàevich a Pavel, uomo di fatica e custode della casa editrice, il quale sedeva a cassetta di traverso, curvo, con le gambe accavallate, come a dimostrare che lui non era proprio un cocchiere e che, se guidava, non era certo per vocazione. «Di chi sono, dei signori o dei contadini?»
«Quelli, dei signori,» rispose Pavel accendendo per fumare, «mentre invece questi,» e, dopo una lunga pausa, il tempo per accendere e fare una tirata, indicò nell’altra direzione con l’estremità della frusta, «questi sono nostri. Ehi, dormite?!» gridò, come faceva di tanto in tanto, ai cavalli, di cui durante tutto il tempo continuava a sorvegliare con la coda dell’occhio le groppe, come un macchinista i manometri.
Ma i cavalli tiravano come tutti i cavalli del mondo, e cioè quello di stanga correva con l’innata onestà di una natura semplice, mentre l’altro, il bilancino, poteva apparire a un profano un lavativo di tre cotte che, inarcando il collo a cigno, sembrava non sapesse far altro che ballare su e giù al tintinnio delle sonagliere scosse dai suoi stessi balzi.
Nikolàj Nikolàevich portava a Voskobòjnikov le bozze di un suo libro sulla questione agraria, che la casa editrice, di fronte all’accresciuta pressione della censura, gli aveva
chiesto di rivedere.
«Qua il popolo fa dei brutti scherzi, eh?» disse Nikolàj Nikolàevich. «Nel “volost” di Pan’kov hanno sgozzato un mercante, al capo dello “zemstvo” hanno incendiato la scuderia. Tu che ne pensi? Che si dice da voi in campagna?»
Ma scoprì che per Pavel le cose erano ancora più nere di quanto non le vedesse il censore incaricato di moderare i bollori agrari di Voskobòjnikov.
«Cosa dicono? Che si sono allentate le briglie al popolo. Dicono che lo hanno viziato troppo. Credete che si può far così con noialtri? Da’ la libertà ai contadini e quelli, qui, si ammazzano tra loro, com’è vero Dio. Ehi, dormite?»
Era la seconda volta che zio e nipote si recavano a Dupljanka. Jura credeva di ricordare la strada e ogni volta che i campi si allargavano e i boschi li abbracciavano, con un sottile orlo, gli sembrava di riconoscere il posto ove la strada doveva poi svoltare a destra, mostrarsi alla curva, e, dopo un minuto, apparire il panorama della tenuta di Kologrìvov, di una decina di “verste”, col fiume che scintillava lontano e la linea ferroviaria che lo costeggiava lungo l’altra riva. Ma ogni volta si sbagliava. I campi si succedevano ai campi, e di nuovo i boschi che li abbracciavano. L’anima s’accordava al largo ritmo di quel susseguirsi di vaste distese. Si provava il desiderio di sognare, di perdersi nell’avvenire.
Nessuno dei libri che in seguito avrebbero reso celebre Nikolàj Nikolàevich era stato ancora scritto. Ma le sue idee erano già definite. Egli non sapeva quanto fosse vicina la sua ora.
Presto fra gli esponenti della letteratura d’allora, i professori d’università e i filosofi della rivoluzione, doveva emergere quest’uomo, che meditava i loro medesimi problemi e pure, eccezion fatta per la terminologia, non aveva nulla in comune con loro. Tutti gli altri, nel loro dogmatismo, si contentavano di frasi e di apparenze: padre Nikolàj era un prete che, passato attraverso il tolstoismo e la rivoluzione, si spingeva sempre più oltre. Mirava a un pensiero elevato e, insieme, concreto, capace di tracciare una strada precisa e inequivocabile nel suo procedere, che migliorasse il mondo e fosse chiaro anche ai fanciulli e agli sciocchi, come sono evidenti il balenare di un lampo o il rimbombo del tuono che s’allontana. Era un uomo che anelava a un mutamento delle cose.
Jura si sentiva a suo agio con lo zio, così simile alla mamma, come lei libero, spoglio di prevenzioni contro quanto non è abituale. E come lei, anche lo zio capiva tutto al primo sguardo, e sapeva esprimere i pensieri nella stessa forma in cui salgono alla mente, quando sono ancora vivi e non hanno perduto il loro senso.
Jura era contento che lo zio lo avesse portato a Dupljanka. Tutto era bello laggiù e anche la pittoresca bellezza del paesaggio ricordava la mamma, che amava la natura e spesso lo conduceva con sé nelle sue passeggiate. Inoltre, a Jura faceva piacere incontrare nuovamente Nika Dudorov, un ginnasiale che abitava da Voskobòjnikov, il quale però aveva due anni più di lui, e certo lo disprezzava: salutando, abbassava con forza la mano che stringeva e piegava la testa in modo che i capelli gli cadevano sulla fronte a nascondergli metà viso.

Quelli che avete letto sono i primi quattro capitoli del romanzo di Boris Pasternak Il dottor Živago, pubblicato in anteprima mondiale in Italia nel 1957 dalla Casa Editrice Feltrinelli.
Vi si narra la vita di un medico e poeta, Jùrij Andrèevič Živàgo, diviso dall’amore per due donne e coinvolto nel turbine della rivoluzione di ottobre.
Il romanzo fu pubblicato in Russia solo nel 1988 perché a lungo osteggiato dal regime comunista e fu l’unico scritto da Pasternak. Grazie al suo unico romanzo, Pasternak meritò il premio Nobel per la letteratura pochi anni prima della sua morte, che però non poté mai ritirare per l’opposizione del governo di Chruščёv.
Nel 1965 dal romanzo fu tratto il film omonimo.
Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.



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La fine della battaglia di Stalingrado

2/2/2015

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Oggi è il 72° anniversario della fine della battaglia di Stalingrado.
Albania, Cecoslovacchia, Germania Est e Guinea-Bissau sono solo quattro tra i tanti Paesi che hanno dedicato francobolli a questo decisivo episodio della Seconda Guerra Mondiale, un titanico scontro che dopo quasi sei mesi di durissimi combattimenti segnò la prima grande sconfitta politico-militare della Germania nazista e dei suoi alleati e satelliti, nonché l'inizio dell'avanzata sovietica verso ovest che sarebbe terminata due anni dopo con la conquista del palazzo del Reichstag e la morte di Hitler nel bunker della Cancelleria durante la battaglia di Berlino.
Per celebrare la battaglia che da alcuni storici è stata definita come "la più importante di tutta la Seconda guerra mondiale" abbiamo naturalmente scelto le sei emissioni sovietiche che nel corso degli anni si sono susseguite.
Le prime due risalgono addirittura al periodo bellico. Quella del 1944 è una serie di quattro valori dedicata alla liberazione delle città di Odessa, Sebastopoli, Leningrado (oggi San Pietroburgo) e appunto Stalingrado (oggi Volgograd). Quest'ultimo esemplare, da 30 kopechi, mostra una medaglia commemorativa, una mappa della città e alcuni soldati sovietici mentre avanzano con le bandiere rosse. Nel marzo del 1945, poche settimane prima della fine della guerra, venne ricordato il 2° anniversario della battaglia con due valori da 60 kopechi e 3 rubli e un foglietto che comprendeva il francobollo da 3 rubli ripetuto 4 volte e privo di dentellatura. Il soggetto rappresentato in questo caso è sempre lo stesso, un soldato sovietico che tiene in mano la bandiera rossa mentre marcia tra le rovine della città.
La terza emissione è del 1963 e celebra la "grande guerra patriottica del 1941-1945". Nell'esemplare da 4 kopechi riguardante il 20° anniversario della battaglia si vede in primo piano un soldato sovietico davanti a una batteria di lanciarazzi Katiuscia e sullo sfondo una lunghissima fila di prigionieri tedeschi.

Arriviamo quindi alla serie di sette valori da 10 kopechi che l'URSS dedicò alle sue città eroiche. Uno di questi riguarda naturalmente Stalingrado e raffigura una medaglia al centro, mentre ai lati si notano scene della città durante la guerra e nel dopoguerra.
Nel 1968 l'Unione Sovietica commemorò, con una bella emissione di dieci valori da 4 kopechi e un foglietto da un rublo, il cinquantenario del suo esercito. Un francobollo della serie mostra la scultura del memoriale eretto sulla collina Mamaev Kurgan dedicato agli eroi di Stalingrado e sullo sfondo una colonna di prigionieri tedeschi.
L'ultima serie che esamineremo oggi è quella del 1973, fra tutte quelle viste sinora la più corposa, con quattro valori e un foglietto dedicati al 30° anniversario della battaglia. I francobolli rappresentano rispettivamente il monumento alla Madre Patria sulla collina Mamaev Kurgan e la scultura "Difesa fino alla morte" già ricordata nell'emissione del 1968 (3 kopechi), il viale degli eroi (4 kopechi), la scultura "Madre in lutto" (10 kopechi) e la fiamma eterna nella sala della gloria guerriera (12 kopechi), mentre il foglietto contiene due esemplari da 20 kopechi che illustrano il monumento alla Madre Patria sulla collina Mamaev Kurgan da prospettive diverse.

La mattina del 2 febbraio iniziò con una nebbia densa, dispersa in seguito dal sole e dal vento che spazzava la neve polverosa. Quando le notizie della resa finale si diffusero nella 62ª armata, razzi di segnalazione vennero sparati nel cielo in un’improvvisa manifestazione di gioia. I marinai della flotta del Volga e i soldati della riva sinistra attraversarono il ghiaccio con pagnotte e lattine di cibo per i civili rimasti intrappolati per cinque mesi nelle cantine e nelle buche.
A gruppi e da soli, tutti andavano in giro con aria sbigottita abbracciando chiunque incontrassero. Le voci si smorzavano nell’aria gelida. Non mancava certo la gente nel paesaggio incolore di rovine, eppure la città sembrava deserta e morta. Non che non si fossero aspettati la fine, anche se così improvvisa, eppure i difensori non riuscivano ancora a credere che la battaglia dì Stalingrado fosse finalmente terminata. Quando ci pensavano, o ricordavano i morti, rimanevano stupiti dal fatto di essere ancora in vita. Di tutte le divisioni che avevano attraversato il Volga, erano rimaste poche centinaia di uomini. Nel corso della campagna di Stalingrado, l’Armata Rossa aveva subito 1.100.000 perdite, compresi 485.751 morti.
Grossman ricordò i cinque mesi appena trascorsi. «Ho pensato all’ampia strada sterrata che portava al villaggio dei pescatori sulla riva del Volga – una strada di gloria e di morte – e alle colonne silenziose che marciavano nella polvere soffocante d’agosto, nelle notti di luna piena di settembre, nelle piogge torrenziali d’ottobre, nelle nevicate dì novembre. Avevano marciato con passo pesante – uomini dei reparti d’artiglieria, mitraglieri, soldati di fanteria – avevano marciato in un silenzio solenne e severo. L’unico suono che proveniva dai loro ranghi era il rumore metallico delle loro armi e del loro passo misurato.»
Era rimasto molto poco di riconoscibile nella città esistente prima che i bombardieri di von Richthofen apparissero quel pomeriggio d’agosto. Adesso Stalingrado era poco più di uno scheletro mal ridotto e bruciacchiato. L’unico punto di riferimento rimasto intatto era la fontana con giovani e giovanette che vi danzavano attorno. Sembrava un incredibile miracolo dopo che tante migliaia di bambini erano morti nelle rovine tutt’intorno.
A mezzogiorno del 2 febbraio un aereo da ricognizione della Luftwaffe sorvolò la città. Il messaggio radio del pilota fu comunicato immediatamente al feldmaresciallo Milch: «Non ci sono più segni dì combattimento a Stalingrado».
Dopo il primo colloquio di Voronov e Rokossovskij con Paulus, il capitano Djatlenko tornò a interrogare altri generali catturati. Contrariamente a quanto si aspettava, costoro reagirono in modi molto differenti. Il generale Schlömer, che aveva assunto il comando del XIV Panzerkorps dopo il trasferimento di Hube, arrivò appoggiandosi a un bastone e indossando una giacca imbottita dell’Armata Rossa. Conquistò il suo investigatore con il suo fascino tranquillo e le sue osservazioni sul «caporale inesperto dì problemi militari» e i «carrieristi senza talento del suo entourage». D’altro canto, il generale Walther von Seydlitz, di cui l’NKVD «scoprì in seguito i trascorsi di energico assertore della disobbedienza al Führer durante l’accerchiamento», si comportò «in modo molto riservato».
Per Stalin, 91.000 prigionieri, tra cui 22 generali tedeschi, erano trofei molto più ambiti delle bandiere o dei cannoni. Paulus, ancora in stato di shock, dapprima rifiutò di apparire davanti ai giornalisti portati da Mosca. «Abbiamo le nostre regole», gli fece notare il colonnello Jakomovic del comando del fronte del Don, mentre il tenente Bezjminskij fungeva da interprete. «Lei deve fare quello che le è stato detto.» Ma si arrivò a un compromesso. Paulus non avrebbe risposto alle domande dei giornalisti, doveva solo mostrarsi per provare che non si era suicidato.
I corrispondenti stranieri erano alquanto sorpresi dall’aspetto dei generali tedeschi. «Sembravano in forma e per niente denutriti», scrisse Alexander Werth. «Era chiaro che, durante tutte le sofferenze di Stalingrado, mentre i loro soldati morivano di fame, avevano continuato a prendere i loro pasti più o meno regolarmente. L’unico che sembrava in pessime condizioni era lo stesso Paulus. Appariva pallido e malaticcio ed esibiva una contrazione nervosa della guancia sinistra.»
I tentativi di fare domande non ebbero molto successo. «Era un po’ come essere allo zoo», scrisse Werth, «in cui certi animali mostravano interesse per il pubblico e altri erano più scontrosi.» Il generale Deboi era ansioso di piacere e disse subito ai giornalisti stranieri – «come se volesse chiederci di non aver paura» – di essere austriaco. Il generale Schlömer era il più rilassato. Si rivolse a uno dei suoi custodi e, battendolo leggermente sulle spalline, appena reintrodotte da Stalin, esclamò con una comica espressione di sorpresa: «Ma è … una novità!» D’altra parte, il generale von Arnim era preoccupato soprattutto della sorte del suo bagaglio e, di conseguenza, di quello che pensava dei soldati dell’Armata Rossa. «Gli ufficiali si comportano molto correttamente», annunciò, ma descrisse i soldati come «ladri matricolati».
La tensione della cattura provocò comportamenti poco dignitosi in due case di contadini a Zavarjkino. Una mattina Adam provocò deliberatamente il tenente Bogomolov con un saluto nazista e un «Heil Hitler». Ma era Schmidt l’ufficiale che piaceva meno ai russi. Bogomolov lo costrinse a chiedere scusa a una cameriera della mensa che il generale aveva fatto piangere con le sue osservazioni mentre serviva loro il pranzo. Pochi giorni più tardi, scoppiò un putiferio nell’isba che ospitava altri generali. Il tenente Spektor del gruppo di custodia n. 2 telefonò a Bogomolov pregandolo di venite il più presto possibile. Era scoppiata una rissa. «Quando aprii la porta di casa», scrisse Bogomolov, «vidi che un generale tedesco aveva preso un generale rumeno per il polso. Quando il tedesco mi vide, lo lasciò, e allora il rumeno lo colpì alla bocca. Risultò che il litigio riguardava la forchetta, il coltello e il cucchiaio del rumeno che, a parere dell’ufficiale rumeno, il tedesco aveva cercato di sottrargli.» Incredulo e sprezzante, Bogomolov avvertì sarcasticamente il tenente Spektor «che, se avesse continuato a tollerare simili comportamenti, avrebbero confiscato il cucchiaio anche a lui».
Rivalità latenti e antipatie tra generali continuavano a venire allo scoperto. Heitz e von Seydlitz si detestavano a vicenda e ancor più dopo che il secondo aveva permesso ai suoi comandanti di divisione di scegliere da soli riguardo la resa. Heitz, che aveva ordinato ai suoi soldati di combattere «fino all’ultima pallottola, tranne una», si era tuttavia arreso e aveva accettato di andare a cena dal generale Zumilov al comando della 64ª armata. Anzi, vi aveva trascorso la notte. Quando finalmente aveva raggiunto gli altri generali prigionieri a Zavarjkino, c’era stata una baraonda perché era arrivato con diverse valigie già pronte per la prigionia. Dopo che gli erano stati rinfacciati i suoi ordini dì combattere fino all’ultimo, aveva risposto che lui si sarebbe suicidato, ma il suo capo di stato maggiore glielo aveva impedito.
Per la Wehrmacht era tempo di fare due conti. Lo stato maggiore del feldmaresciallo Milch aveva calcolato la perdita di 488 aerei da trasporto e di 1.000 uomini d’equipaggio durante il ponte aereo. La 9ª divisione Flak era stata annientata, insieme con altro personale di terra, senza contare poi le perdite di bombardieri, caccia e Stuka della Luftflotte 4 durante la campagna. Il numero esatto delle perdite dell’esercito è ancora incerto ma non c’erano dubbi che la campagna di Stalingrado avesse rappresentato la disfatta più catastrofica subita fino a quel momento dalla Germania. La 6ª armata e la 4ª Panzerarmee erano state distrutte. Solo nel Kessel erano morti quasi 60.000 uomini dall’inizio dell’operazione Uranus e altri 130.000 erano stati presi prigionieri. (Anche in questo caso la confusione delle statistiche sembra essere dovuta al numero di russi che avevano combattuto con i tedeschi.) Queste cifre non tengono conto delle perdite a Stalingrado e nei dintorni tra agosto e novembre, dell’annientamento di quattro armate alleate, del fallimento del tentativo di salvataggio di von Manstein e delle perdite inflitte dall’operazione Piccolo Saturno. Nel complesso, l’Asse dovrebbe aver perso più di 500.000 uomini.
Presentare una simile catastrofe al popolo tedesco era una prova alla quale Goebbels si dedicò con frenetica energia usando tutto il suo talento per le distorsioni più impudenti. Il regime non aveva ammesso che la 6ª armata fosse circondata fino al 16 gennaio, quando aveva parlato delle «nostre truppe che per diverse settimane hanno respinto eroicamente gli attacchi nemici da tutte le parti». Ora aveva scelto una direzione completamente opposta, sostenendo che non era sopravvissuto nemmeno un solo uomo.
Goebbels mobilitò le stazioni radio e la stampa per unire il paese in un lutto marziale. Le sue istruzioni ai giornali su come descrivere la tragedia si spingevano ancora più in là. Dovevano rammentare che ogni parola su questa drammatica lotta sarebbe passata alla storia. La stampa doveva sempre usare il termine bolscevico e non russo. «L’intera propaganda tedesca deve creare un mito sull’eroismo di Stalingrado destinato a diventare uno dei valori più apprezzati della storia tedesca.» In particolare il comunicato della Wehrmacht doveva essere redatto in modo «da commuovere gli animi nei secoli a venire». Doveva essere all’altezza del discorso di Cesare alle sue truppe, dell’appello di Federico il Grande ai suoi generali prima della battaglia di Leuthen e dell’invito di Napoleone alla sua guardia imperiale.
Il comunicato fu trasmesso come annuncio speciale alla radio 24 ore dopo la resa di Strecker. «Dal quartier generale del Führer, 3 febbraio 1943. Il comando supremo della Wehrmacht annuncia che la battaglia di Stalingrado è giunta alla fine. Fedele al suo giuramento di lealtà, la 6ª armata, sotto il comando esemplare del feldmaresciallo Paulus, è stata annientata dalla schiacciante superiorità delle forze nemiche [… ] Il sacrificio della 6ª armata non è stato vano. In quanto bastione della nostra storica missione europea, ha resistito contro l’assalto di sei armate sovietiche [ … ] Sono morti affinché la Germania possa vivere.»
Le menzogne del regime risultarono controproducenti, specialmente il fatto che tutti gli uomini della 6ª armata fossero morti. Nell’annuncio non si citavano i 91.000 prigionieri già annunciati dal governo sovietico, notizia che si era diffusa in tutto il mondo. Inevitabilmente, un numero molto maggiore del solito di tedeschi si sintonizzò sulle emittenti straniere.
Fu ordinato un periodo di tre giorni di lutto nazionale, i luoghi di divertimento rimasero chiusi e le stazioni radio trasmisero solo musica classica, ma ai giornali fu proibito di uscire listati a lutto e le bandiere non furono abbassate a mezz’asta.
Il servizio di sicurezza delle SS non sottovalutò 1’effetto sul morale dei civili. Sapeva anche che le lettere giunte dal Kessel, in cui si descrivevano gli orrori e gli squallori, contraddicevano alla base il modo eroico con cui il regime aveva trattato il disastro. «Le lettere d’addio dei combattenti di Stalingrado», diceva un rapporto, «diffondono una grande angoscia spirituale non solo nei parenti, ma anche in cerchie più ampie della popolazione, tanto più perché il contenuto di queste lettere si è diffuso rapidamente. La descrizione delle sofferenze durante le ultime settimane di combattimenti ossessiona giorno e notte i parenti.» In effetti, Goebbels aveva previsto questo problema con molto anticipo e aveva deciso di intercettare la posta dei prigionieri. Il 17 dicembre, scriveva nel suo diario: «In futuro, non si devono più consegnare le lettere ai parenti, perché offrono uno spiraglio di accesso alla propaganda bolscevica in Germania».
Ma gli sforzi sovietici risultarono troppo energici per poterli bloccare. I campi dì prigionia dell’NKVD fornivano carta da lettera ma, poiché le autorità tedesche ne avrebbero impedito l’ingresso, il contenuto era stampato in caratteri piccoli, di solito su una facciata sola, e in seguito veniva lanciata sulle linee tedesche come volantini di propaganda. Nonostante rischiassero severe punizioni, i soldati tedeschi al fronte le raccoglievano e mandavano lettere anonime agli indirizzi sull’elenco per comunicare che il loro congiunto era vivo. Si firmavano «un compatriota» o anche solo «xxx». A volte, con grave preoccupazione delle autorità naziste, le famiglie ricevevano persino una copia del volantino sovietico e contattavano chi si trovava nella stessa situazione.

Il post che avete letto oggi è la logica conclusione di quello che fu pubblicato il 23 agosto 2012 e che ricordava l’inizio della battaglia di Stalingrado. Se volete approfondire le fasi di quella che è considerata la battaglia che segnò la svolta della seconda guerra mondiale potete farlo sfogliando il libro di Antony Beevor Stalingrado prelevandolo dalla biblioteca dell’Antica Frontiera.


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La morte di Fëdor Dostoevskij

28/1/2015

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1956. Personalità (I emissione).
Ritratto di Fëdor Dostoevskij.
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1971. 150° anniversario della nascita di Fëdor Dostoevskij. Dipinto di Vasilij Grigor'evič Perov.

Oggi è il 134° anniversario della morte di Fëdor Dostoevskij.
Nato a Mosca nel 1821, Dostoevskij rimase presto orfano di madre e il padre, un medico militare, morì in seguito alcolizzato. Studiò ingegneria all'Istituto militare di San Pietroburgo. Dopo un periodo a Mosca (1843) come impiegato statale, si dimise per dedicarsi alla letteratura. Nel 1846 uscirono i fortunati racconti di Povera gente e il romanzo Il sosia.
Permeato, come molti altri intellettuali, da idee socialiste e utopiste, Dostoevskij aderì a un gruppo di giovani liberali. Nel 1849 fu arrestato dalla polizia e, dopo otto mesi di carcere, condannato a morte (22 dicembre 1849); fu quindi condotto, insieme ad altri diciannove compagni, sul luogo dell'esecuzione, ma poco prima che i gendarmi facessero fuoco gli fu annunciata la commutazione della pena in quattro anni di lavori forzati in Siberia. Durante la prigionia si ammalò di epilessia. Scontata la pena, si arruolò come soldato. Nel 1857 sposò una vedova, ma se ne separò presto.
Nel 1859 poté rientrare a San Pietroburgo, dove si tuffò nell'attività letteraria: con il fratello Michail e altri fondò la rivista Vremja (Il tempo); quindi pubblicò alcuni scritti umoristici e nel 1861 le Memorie da una casa dei morti, sulla vita di deportato in Siberia. Il libro colpì lo zar Alessandro II e gli procurò nuova fama, rinsaldata da altri romanzi: Umiliati e offesi (1861), Ricordi dal sottosuolo (1864), Delitto e castigo (1866).
Nel 1866 si risposò con la giovane stenografa Anna Snitkina; poco dopo i due coniugi dovettero fuggire dalla Russia per debiti. Rimasero all'estero per alcuni anni (1867-71), passando dalla Germania alla Svizzera, a Firenze. La morte di una figlioletta, vissuta pochi giorni appena, suscitò nello scrittore un dolore immenso. L'idiota (1868-69) fu accolto freddamente, ma I demoni (1873) ottenne grande successo. Dostoevskij e la moglie poterono così rientrare a San Pietroburgo. Pressato dai creditori e dagli impegni con gli editori, scrisse e pubblicò altri due grandi romanzi, L'adolescente (1875) e I fratelli Karamazov (1879-80). Dal 1873 e con vari intervalli Dostoevskij compilò il Diario di uno scrittore, originale dialogo giornalistico con i lettori sui temi più scottanti del momento.
La sua fama era al culmine: nel giugno 1880 tenne la commemorazione pubblica, a Mosca, del centenario di Puskin. Morì a San Pietroburgo il 28 gennaio 1881, onorato con funerali solenni.

Per rendere omaggio allo scrittore russo considerato, insieme a Tolstoj, uno dei più grandi romanzieri e pensatori di tutti i tempi abbiamo scelto i due francobolli che l'Unione Sovietica gli ha dedicato nel 1956 e nel 1971. Di ambedue abbiamo fornito una breve descrizione sopra.

Sono finalmente tornato dopo un’assenza di due settimane. I nostri si trovavano già da tre giorni a Rulettenburg. M’immaginavo che mi aspettassero con chissà quale ansia, ma invece mi ero sbagliato. Il generale aveva un’aria estremamente indipendente, mi ha parlato guardandomi dall’alto in basso e mi ha spedito direttamente dalla sorella. È chiaro che sono riusciti a scroccare dei soldi da qualche parte. Mi è parso perfino che il generale si vergognasse un po’ dì guardarmi. Mar’ja Filippovna era terribilmente presa da certe sue faccende e mi ha parlato con aria un po’ distaccata; comunque ha preso i soldi, li ha contati ed ha ascoltato tutto il mio rapporto. Per pranzo aspettavano Mezencov, il francesino e per giunta anche un inglese: come al solito, appena ci sono soldi, ecco che t’invitano gente a pranzo, all’uso moscovita. Polina Aleksandrovna, vedendomi, mi ha chiesto perché mai ci avevo messo tanto tempo, e poi, senza aspettar risposta, se n’é andata per i fatti suoi. Naturalmente l’ha fatto apposta. Comunque bisognerà spiegarsi; troppe cose si sono accumulate.
Mi hanno assegnato una stanzetta al terzo piano. Qui tutti sanno che faccio parte del «seguito del generale». Da tutto quanto, si vede benissimo che sono riusciti a farsi conoscere anche qui. Qui tutti considerano il generale un gran signore russo, ricco sfondato. Ancora prima di pranzo, tra altre commissioni, ha trovato il tempo di mandarmi a cambiare due biglietti da mille franchi. Li ho cambiati all’ufficio dell’albergo e ora, per almeno tutta una settimana, ci considereranno come dei milionari. Volevo prendere con me Miša e Nadja e portarli a passeggio, quando già sulla scala mi hanno chiamato dicendo che il generale mi voleva: a sua eccellenza era venuto in mente d’informarsi dove li avrei condotti. Decisamente quest’uomo non è capace di guardarmi dritto negli occhi; lui magari ne avrebbe una gran voglia, ma io ogni volta lo guardo così fissamente, e cioè così poco rispettosamente, che lui finisce per cadere nell’imbarazzo. Con un lungo discorso estremamente ampolloso, infilzando a fatica una frase dopo l’altra e alla fine confondendosi del tutto,
mi ha fatto capire che io dovevo andare a passeggio con i bambini da qualche parte lontano dal casinò, nel parco. Alla fine, perdendo decisamente le staffe, ha aggiunto bruscamente:
«E lei magari sarebbe capace di portarli proprio al casinò, alla roulette! Lei mi scuserà,» ha aggiunto poi, «ma io so che lei è ancora abbastanza sconsiderato e magari sarebbe anche capace di giocare. In ogni caso, anche se io non sono certo il suo mentore e non desidero minimamente assumere una tale parte, ho comunque pur sempre il diritto di desiderare che lei, per così dire, non mi comprometta…»
«Ma il fatto è che non ho neppure del denaro,» gli ho risposto con la massima calma, «e per poter perdere al gioco bisogna averne.»
«Lei lo riceverà immediatamente,» ha replicato il generale arrossendo un po’. Quindi si è messo a frugare nella scrivania e ha consultato un taccuino scoprendo che mi doveva circa centoventi rubli.
«E ora come facciamo a regolare i conti,» ha detto allora il generale, «bisogna calcolare quanto fa in talIeri. Be’, per adesso prenda questi cento talleri, e quanto al resto stia tranquillo che non lo perderà.»
Ho preso il denaro in silenzio.
«Lei forse si sarà offeso per le mie parole, è così suscettibile… Ma se le ho fatto un’osservazione è stato soltanto, per così dire, per metterla in guardia, e del resto ne ho anche un certo diritto…»
Tornando a casa prima di pranzo con i bambini ho incontrato tutta una cavalcata: i nostri erano andati a vedere certe rovine. Avevano preso due splendidi calessi con dei magnifici cavalli. In un calesse c’era mademoiselle Blanche con Mar’ja Filippovna e Polina; il francesino, l’inglese e il nostro generale erano a cavallo.
I passanti si fermavano a guardare: l’effetto era pienamente raggiunto. Ma per il generale le cose si mettono male. Ho calcolato che con i quattromila franchi che ho portato, aggiungendoci quello che evidentemente erano riusciti a scroccare, adesso disponiamo di circa sette od ottomila franchi: sempre troppo poco per mademoiselle Blanche.
Anche mademoiselle Blanche è alloggiata nel nostro albergo insieme con la madre, e in non so quale stanza c’è alloggiato anche il nostro francesino. I lacchè lo chiamano monsieur le comte, e chiamano la madre di mademoiselle Blanche madame la comtesse; in fin dei conti può anche darsi che siano davvero conte e contessa.
Sapevo già da prima che monsieur le comte non mi avrebbe riconosciuto quando ci saremmo ritrovati tutti insieme a pranzo. Al
generale, naturalmente, non sarebbe mai venuto in mente di farci far conoscenza, e neppure di presentarmi a lui; quanto a monsieur le comte, lui era già stato in Russia e sapeva benissimo che quello che chiamano outchitel è un pesce piccolo. Del resto, lui mi conosce benissimo. A dire il vero, io stesso mi ero presentato a pranzo senza essere stato invitato; evidentemente il generale si era dimenticato di dare disposizioni, altrimenti mi avrebbe certo mandato a pranzare alla table d’hôte. Mi sono presentato a tavola di mia iniziativa, tanto che il generale mi ha guardato con aria scontenta. La buona Mar’ja Filippovna mi ha subito indicato il mio posto, ma l’incontro con mister Astley mi ha tolto d’impaccio e così, volente o nolente, mi sono trovato a far parte della compagnia.
Avevo incontrato per la prima volta questo strano inglese in Prussia: ci eravamo trovati seduti l’uno di fronte all’altro in un vagone ferroviario mentre io raggiungevo i nostri; poi l’avevo incontrato di nuovo entrando in Francia, e infine in Svizzera; così nel corso delle due ultime settimane l’avevo incontrato due volte, e adesso me lo trovavo davanti a Rulettenburg. Non mi è mai capitato in vita mia d’incontrare un uomo più timido di lui; è timido fino all’idiozia, ma naturalmente ne è perfettamente cosciente, giacché non è affatto sciocco. Del resto è una persona molto tranquilla e amabile. Quando l’avevo incontrato la prima volta in Prussia l’avevo costretto a chiacchierare. Mi aveva detto allora che in estate era stato a Capo Nord e che aveva molta voglia di recarsi alla fiera di Nižnij-Novgorod. Non so come abbia fatto conoscenza col generale, ma mi sembra che sia perdutamente innamorato di Polina. Quando lei è entrata, lui s’è fatto di fuoco. È stato molto contento che a tavola io gli sedessi accanto e sembra che mi consideri ormai come suo intimo amico.
A tavola era il francesino a tenere banco; si dava con tutti delle arie piene di noncuranza e di sussiego. Ma a Mosca, a quanto mi ricordo, boccheggiava come un pesce. Ora invece si riempiva la bocca di discorsi sulle finanze e sulla politica russa. Di tanto in tanto il generale si azzardava a contraddirlo, ma lo faceva con timidezza, tanto per cercare di arrestare il crollo definitivo del proprio prestigio.
Io mi trovavo in una strana disposizione di spirito; naturalmente, prima che si fosse arrivati alla metà del pranzo, mi ero già posto la mia solita ed eterna domanda: perché stavo ancora lì a perdere il tempo con quel generale e non li avevo piantati in asso già da un pezzo tutti quanti? Ogni tanto gettavo un’occhiata a Polina Aleksandrovna, ma lei nemmeno si
accorgeva della mia presenza. È andata a finire che mi sono arrabbiato e ho deciso di fare qualche impertinenza.
È cominciato così: tutt’a un tratto, di punto in bianco, ad alta voce e senza chiedere il permesso a nessuno, mi sono immischiato nella conversazione. L’essenziale era che avevo una gran voglia di attaccar briga col francesino. Così a un tratto mi sono rivolto al generale a voce alta e ben distinta e, a quanto mi sembra, tagliandogli la parola in bocca, ho osservato che quell’estate per un russo era quasi impossibile pranzare alla table d’hôte di un albergo. Il generale mi ha fissato addosso uno sguardo meravigliato.
«Una persona che abbia un po’ di amor proprio,» ho continuato io imperterrito, «si troverà immancabilmente ad essere oggetto d’insolenze e dovrà sopportare delle straordinarie mortificazioni. A Parigi, sul Reno e perfino in Svizzera alle tables d’hôte ci sono tanti di quei polaccucci e di francesini simpatizzanti che per un russo non c’è possibilità di dire una parola.»
Avevo detto questo in francese. Il generale mi guardava perplesso, non sapendo bene se dovesse arrabbiarsi con me oppure soltanto meravigliarsi che io avessi trasceso fino a quel punto.
«Significa che da qualche parte ha trovato qualcuno che le ha dato una lezione,» ha osservato il francese con aria di sprezzante noncuranza.
«A Parigi ho attaccato briga con un polacco,» ho risposto io, «e poi con un ufficiale francese che appoggiava il polacco. Ma poi una parte dei francesi presenti è passata dalla mia parte quando ho raccontato che volevo sputare nel caffè di un monsignore.»
«Sputare?» ha chiesto il generale con dignitosa e scandalizzata meraviglia, guardandosi perfino intorno.
Il francesino mi ha gettato un’occhiata incerta.
«Proprio così,» ho risposto io. «Siccome per due giorni interi ero convinto che probabilmente avrei dovuto fare un salto a Roma per i nostri affari, mi sono recato alla cancelleria dell’ambasciata del Santo Padre a Parigi per farmi vistare il passaporto. Là sono stato ricevuto da un abatino sui cinquant’anni, asciutto come un chiodo e dalla fisionomia gelida, il quale dopo avermi ascoltato mi ha pregato cortesemente ma freddamente di aspettare. Sebbene avessi fretta, naturalmente mi sono seduto ad aspettare, ho tirato fuori ‹L’Opinion nationale› e mi sono messo a leggere le più terribili insolenze contro la Russia. Intanto ho sentito che qualcuno, passando dalla stanza accanto, veniva introdotto da monsignore e ho visto
il mio abatino che si profondeva in inchini. Allora mi sono rivolto a lui ripetendo la mia richiesta, e di nuovo lui mi ha pregato seccamente di aspettare. Poco dopo è entrato un altro sconosciuto, evidentemente per qualche faccenda, un austriaco: è stato ascoltato e subito è stato accompagnato di sopra. Allora mi sono seccato sul serio; mi sono alzato, sono andato dall’abate e gli ho detto con decisione che dal momento che monsignore riceveva, poteva sbrigare anche la mia faccenda. L’abate allora si è scostato da me guardandomi con straordinaria meraviglia; evidentemente per lui era assolutamente incomprensibile che un qualsiasi russo da quattro soldi osasse paragonarsi agli ospiti di monsignore. Col tono più insolente, quasi si rallegrasse di potermi offendere, mi ha misurato con un’occhiata dalla testa ai piedi e ha gridato: ‹E così lei s’immagina che monsignore lascerà per lei il suo caffè?› Allora io mi son messo a gridare più forte di lui: ‹Allora sappia che io ci sputo dentro al caffè del vostro monsignore! E se lei non mi vista immediatamente il passaporto, andrò io stesso da lui.›
«Come! Proprio nel momento in cui c’è da lui un cardinale!» ha gridato l’abatino scostandosi da me inorridito; quindi si è precipitato sulla porta allargando le braccia a formare una croce, esprimendo con tutto il suo aspetto la risoluzione di morire piuttosto che lasciarmi passare.
Allora gli ho risposto che io sono un eretico e un barbaro, «que je suis hérétique et barbare», e che per me tutti quegli arcivescovi, cardinali, monsignori, eccetera, eccetera, non valevano un fico secco. Insomma gli ho fatto capire che non avrei desistito. Allora l’abate mi ha fissato con una rabbia indescrivibile, poi mi ha strappato il passaporto di mano e se l’è portato di sopra. Un minuto più tardi il passaporto era già vistato. «Eccolo qui, non volete darci un’occhiata?» E così dicendo ho tirato fuori il passaporto e ho mostrato il visto papale.
«Lei, comunque…» cominciava a dire il generale.
«Lei è stato salvato dal fatto di dichiararsi un barbaro e un eretico,» ha osservato sogghignando il francesino. «Cela n’était pas si bête.»
«Dovrei forse fare come questi nostri russi? Loro se ne stanno seduti lì senza osar di fiatare e magari sono pronti a negare di essere russi. Per conto mio ho notato che a Parigi nel mio albergo hanno cominciato a trattarmi con molto più riguardo quando ho raccontato a tutti del mio scontro con l’abate. Un grasso «pan» polacco, che mi era più ostile di tutti alla table d’hôte, ha cominciato da allora a scendere in secondo piano. I francesi dell’albergo sono addirittura arrivati a tollerarmi quando ho
raccontato che due anni prima avevo visto un uomo su cui un soldato francese del corpo dei cacciatori nell’anno 1812 aveva sparato un colpo di fucile al solo scopo di scaricare l’arma. A quell’epoca quell’uomo era un bambino di dieci anni e la sua famiglia non aveva fatto a tempo ad abbandonare Mosca.»
«Questo non può essere!» è scattato su allora il francesino. «Un soldato francese non sparerà mai su un bambino!»
«Eppure è successo,» ho replicato io. «Me l’ha raccontato un rispettabile capitano a riposo e io stesso ho visto la cicatrice della pallottola sulla sua guancia.»
Il francese allora si è messo a parlare molto e in fretta. Il generale ha cominciato a dire qualcosa per appoggiarlo, ma io gli ho consigliato di leggere almeno, ad esempio, dei passi delle «Memorie» del generale Perovskij che nell’anno 1812 era stato prigioniero dei francesi. Alla fine Mar’ja Filippovna si è messa a dire qualcosa per troncare quella conversazione. Il generale era evidentemente molto scontento di me, giacché tanto io che il francese ci eravamo quasi messi a gridare. Ma a quanto pare la mia discussione col francese è piaciuta molto a mister Astley, che alzandosi da tavola mi ha proposto di bere un bicchierino con lui. La sera, come c’era da aspettarsi, sono riuscito a parlare per un quarto d’ora con Polina Aleksandrovna. La nostra conversazione si è svolta durante la passeggiata. Erano tutti andati nel parco, verso il casinò. Polina si è seduta su una panchina davanti alla fontana e ha mandato Naden’ka a giocare poco lontano con gli altri bambini. Anch’io ho permesso a Miša di andare alla fontana e così finalmente siamo rimasti soli.
Dapprima, naturalmente, abbiamo cominciato a parlare di affari. Polina si è addirittura arrabbiata quando le ho consegnato in tutto settecento fiorini. Lei era convinta che, impegnando i suoi brillanti, le avrei portato da Parigi almeno duemila fiorini, e forse anche di più.
«Mi occorrono dei denari a qualsiasi costo,» mi ha detto «e bisogna procurarseli; altrimenti sono semplicemente perduta.»
Ho preso a interrogarla su ciò che era successo durante la mia assenza.
«Praticamente nulla, a parte il fatto che da Pietroburgo sono giunti due dispacci: dapprima che la nonna stava molto male e, due giorni dopo, che – a quanto sembra – era già morta. Questa notizia viene da Timofej Petroviè,» aggiunse Polina, «e quello è un tipo molto preciso. Si attende un ultimo, definitivo messaggio.»
«E così qui tutti sono in aspettativa?» ho chiesto.
«Naturalmente, tutti e tutto; per mezzo anno intero non hanno fatto altro che sperare in questo.»
«E anche lei spera?» ho chiesto ancora.
«Ma io non le sono affatto parente, sono soltanto la figliastra del generale. Tuttavia so con certezza che lei si ricorderà di me nel testamento.»
«Ho l’impressione che lei riceverà parecchio,» ho affermato io con sicurezza.
«Sì, mi voleva bene; ma perché proprio lei ha questa impressione?»
«Mi dica un po’,» ho detto io, replicando a mia volta con una domanda, «anche il nostro marchese, a quanto pare, dev’essere bene informato su tutti i segreti di famiglia, vero?»
«E a lei cosa gliene importa?» ha replicato Polina seccamente, fissandomi con uno sguardo severo.
«Sfido io! Se non mi sbaglio, il generale deve aver già fatto in tempo a farsi prestar dei soldi da lui.»
«Lei indovina molto esattamente.»
«Ma certo! Avrebbe forse dato i denari se non avesse saputo della nonnina? Lei avrà notato che a tavola, parlando della nonna, tre o quattro volte lui l’ha chiamata ‹nonnina›: ‹la baboulinka›. Oh, che rapporti intimi e affettuosi!»
«Sì, lei ha ragione. Non appena lui saprà che anche a me toccherà qualcosa per testamento, subito chiederà la mia mano. Era questo che voleva sapere?»
«Soltanto allora chiederà la sua mano? Ma io credevo che già da un pezzo l’avesse chiesta!»
«Lei sa benissimo che non l’ha fatto!» esclamò con fuoco Polina. «Dove ha conosciuto quell’inglese?» aggiunse, dopo un minuto di silenzio.
«Sapevo già che mi avrebbe chiesto di lui.»
Così le ho raccontato dei miei precedenti incontri in viaggio con mister Astley.
«È un tipo timido e facile ad innamorarsi; naturalmente è innamorato di lei?»
«Sì, è innamorato di me,» ha risposto Polina.
«E naturalmente lui è dieci volte più ricco del francese. Ma il francese poi, possederà davvero qualcosa? Non c’è qualche dubbio in proposito?»
«Nessun dubbio. Lui ha un cháteau. Ancora ieri il generale me ne ha parlato con assoluta sicurezza. Ebbene, è soddisfatto adesso?»
«Al suo posto, io sposerei senz’altro l’inglese.»
«E perché?» ha chiesto Polina.
«Il francese è più bello, ma è più vile; l’inglese invece, oltre al fatto che è un uomo d’onore, è anche dieci volte più ricco,» ho risposto.
«Sì, ma in compenso il francese è marchese ed è anche più intelligente,» ha risposto Polina con la massima calma.
«Ma questo è poi vero?» ho continuato io nello stesso tono.
«Assolutamente vero.»
A Polina davano terribilmente fastidio le mie domande, ed io mi accorgevo che lei aveva una gran voglia d’irritarmi con il tono e il carattere paradossale delle sue risposte; così gliel’ho detto subito.
«Ebbene?» ha replicato lei. «Io mi diverto davvero a vedere che lei va su tutte le furie. Già per il solo fatto che le permetto di far tali domande e avanzare tali supposizioni, bisognerà bene che gliela faccia pagare.»
«In realtà io mi considero nel pieno diritto di farle qualsiasi domanda,» ho risposto io con la massima calma, «e proprio perché sono pronto a pagare per questo nel modo che le parrà più opportuno; ormai non do più nessun valore alla mia vita.»
Polina scoppiò a ridere:
«La volta scorsa, sullo Schlangenberg, lei mi ha detto che a una mia sola parola era pronto a gettarsi a capofitto disotto, e là sembra che il precipizio sia profondo mille piedi. Una volta o l’altra io pronuncerò quella parola unicamente per vedere se lei saprà pagare il debito, e stia pur sicuro che farò fino in fondo la mia parte. Lei mi è odioso proprio per il fatto che le ho permesso tanto, e mi è ancora più odioso per il fatto che mi è così necessario. Ma per ora ho bisogno di lei e devo risparmiarla.»
Intanto si era alzata. Il suo tono era molto irritato. Negli ultimi tempi Polina concludeva ogni conversazione con me con irritazione e con rabbia, con vera, autentica rabbia.
«Mi permetta una domanda: che roba è questa mademoiselle Blanche?» le ho chiesto allora, perché non volevo lasciarla andare senza una spiegazione.
«Lei stesso sa benissimo che roba è mademoiselle Blanche. Da allora non c’è stato nulla di nuovo. mademoiselle Blanche diventerà probabilmente generalessa, naturalmente a patto che le voci sulla morte della nonna siano confermate, giacché tanto mademoiselle Blanche quanto
la sua mammina e il marchese cousin in terzo grado sanno tutti quanti benissimo che noi siamo sul lastrico.»
«E il generale è irrimediabilmente innamorato?»
«Adesso non si tratta di questo. Ascolti e tenga bene a mente: prenda questi settecento fiorini e vada a giocare, vinca per me alla roulette quanto più può: ora ho bisogno di denaro a qualsiasi costo.»
Detto ciò, ha chiamato Naden’ka e si è avviata verso il chiosco della musica dove si è riunita a tutto il resto della compagnia. Io invece ho svoltato a sinistra per il primo vialetto che mi è capitato davanti, assorto in una stupita meditazione. L’ordine di andare a giocare alla roulette mi aveva lasciato stordito come se avessi ricevuto una mazzata in testa. Strana cosa: avevo anche troppe cose a cui pensare, e invece mi sono immerso tutto nell’analisi dei miei sentimenti verso Polina. È vero che mi ero sentito più leggero in quelle due settimane di assenza che non adesso che ero appena tornato, sebbene durante il viaggio fossi divorato dalla nostalgia come un pazzo, mi dimenassi come un ossesso e perfino in sogno me la vedessi continuamente davanti. Una volta (mi trovavo in Svizzera) mi ero addormentato in treno e, a quanto pare, mi ero messo a parlare ad alta voce con Polina, cosa che aveva fatto ridere tutti i viaggiatori che sedevano nello stesso scompartimento. E adesso di nuovo mi ponevo la domanda: l’amavo o non l’amavo? E di nuovo mi sentivo incapace di rispondervi o, per meglio dire, per la centesima volta di nuovo mi rispondevo che l’odiavo. Sì, mi era odiosa. C’erano degl’istanti (specialmente alla conclusione di tutte le nostre conversazioni) che avrei dato la metà della mia vita per poterla strangolare! Giuro che se mi fosse stata data la possibilità di affondare lentamente un coltello affilato nel suo petto, ebbene io l’avrei fatto con vero godimento. Eppure allo stesso tempo – lo giuro per tutto ciò che c’è di più sacro – se sullo Schlangenberg, su quella vetta alla moda, lei mi avesse davvero detto: ‹si butti di sotto›, ebbene io mi sarei immediatamente buttato, e perfino con piacere. Questo lo sapevo. In un modo o nell’altro la questione andava risolta. Lei comprendeva benissimo tutto ciò, e il pensiero che io avevo la più chiara e piena coscienza di quanto lei fosse per me inaccessibile e di come mi fosse impossibile realizzare le mie fantasie, ebbene questo pensiero – ne sono convinto – le arrecava uno straordinario piacere; altrimenti avrebbe mai potuto lei, intelligente e prudente com’era, intrattenere con me dei rapporti così franchi e intimi? Mi sembra che lei si comportasse con me come
quell’antica imperatrice che si spogliava in presenza del suo schiavo, non considerandolo un uomo. Sì, molte volte lei non mi considerava un uomo…
Comunque avevo ricevuto un suo ordine: vincere alla roulette a qualsiasi costo. Non avevo il tempo di starci a pensar su o di chiedermi perché mai fosse così necessario e urgente vincere al gioco e quali nuove idee fossero spuntate in quella testa eternamente assorta in nuovi calcoli. Evidentemente in quelle due settimane a tutto il resto si era aggiunta una quantità di fatti nuovi di cui io non avevo ancora l’idea. Bisognava indovinare e penetrare tutti questi fatti, e al più presto. Ma ora come ora non c’era tempo: bisognava andare a giocare alla roulette.

Quello che avete letto è il primo capitolo del romanzo di Fëdor Dostoevskij Il giocatore. Fu dettato in un mese ad Anna Grigorievna Snitkina (che diventerà in seguito sua moglie) e pubblicato nel 1866. Scritto per necessità (lo scrittore doveva pagare dei debiti di gioco), pressato dagli editori ai quali aveva promesso questo romanzo, contemporaneo di Delitto e castigo, Il giocatore è comunque diventato un capolavoro e un punto di riferimento della narrativa russa dell’Ottocento. Dostoevskij analizza il gioco d’azzardo in tutte le sue forme con i diversi tipi di giocatori, dai ricchi nobili europei, ai poveretti che si giocano tutti i loro averi, ai ladri tipici dei casinò. È anche uno studio delle diverse peculiarità delle popolazioni europee: la severità del barone tedesco, la vanità del conte italiano, il ricco gentleman inglese e il francese manipolatore.
Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.

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L'assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht

15/1/2015

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Germania, zona di occupazione sovietica, 1949. 30° anniversario della morte di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht.
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URSS, 1958/59. Rosa Luxemburg.
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Bulgaria, 1960. Anno internazionale della donna. Rosa Luxemburg.
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Germania Ovest, 1974. Donne celebri tedesche. Femministe. Rosa Luxemburg.
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Germania Est, 1951. 80° anniversario 
della nascita di Karl Liebknecht.
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Germania Est, 1955. Capi del movimento dei lavoratori tedeschi. Ritratti e manifestazioni.
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Germania Est, 1959. 40° anniversario della morte di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Discorsi.
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Germania Est, 1968. 
50° anniversario della Rivoluzione di Novembre in Germania. Ritratti di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, testata del giornale "Neues Deutschland" (Nuova Germania).
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Germania Est, 1971. Centenario della nascita di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht.
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Germania Est, 1966. Cinquantenario della conferenza del gruppo spartachista. Foglietto.
Frammento di una lettera spartachista e ritratti di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht.

Oggi è il 96° anniversario dell'assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht.
Fondatori della Lega Spartachista, dal nome dal celebre gladiatore che capeggiò una rivolta antischiavista contro Roma, furono i leader del primo nucleo del Partito Comunista di Germania, mirante ad una rivoluzione simile a quella attuata dai Bolscevichi in Russia. Tra il 4 e il 15 gennaio 1919 esplose a Berlino la rivolta spartachista, un tentativo insurrezionale originato da uno sciopero generale sfociato poi in scontri armati contro il neo costituito governo della Repubblica di Weimar. Dopo alcuni negoziati il cancelliere tedesco Friedrich Ebert decise per l'intervento armato, facendo affluire nella capitale reparti fedeli al governo e membri dei freikorps, milizie volontarie di orientamento reazionario: meglio armate e organizzate, le forze governative furono ben presto capaci di avere ragione dei manifestati spartachisti; Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, arrestati dai freikorps, furono sottoposti a maltrattamenti e poi assassinati.

Per commemorare i capi rivoluzionari del movimento spartachista abbiamo raccolto in questo articolo tutti i francobolli che diversi stati nel corso degli anni hanno emesso per ricordarli, dei quali è possibile leggere una breve descrizione sopra.

Il mito della rivoluzione, che sopravvive anche quando essa diventa inattuale o di fatto impossibile sul piano storico, riesce a raccogliere attorno al comunismo internazionale gran parte delle spinte che vogliono un cambiamento drastico della vita politica, che si oppongono in modo totale al capitalismo, che si battono per una trasformazione radicale della società.
Le difficoltà che la rivoluzione incontra in Europa nascono proprio dai caratteri moderni e avanzati della sua realtà sociale e politica, smentendo ancora una volta le previsioni teoriche già messe in crisi dalla rivoluzione russa; e s’intrecciano con le trasformazioni cui quest’ultima è sottoposta dalla sua logica interna, dalle scelte della élite che ha guidato alla conquista del potere, dai condizionamenti internazionali.
La fine della prima guerra mondiale sembra portare, in Germania, la rivoluzione. Anzi, in apparenza si direbbe che siano proprio le avvisaglie della rivoluzione ad accelerare la fine della guerra.
Nell’ottobre del 1918, mentre sono in corso trattative di pace tra il nuovo governo del principe Max von Baden e gli alleati, i marinai della flotta si ammutinano a Kiel, mentre soldati e operai formano Consigli (Räte) sul modello celebrato dei Soviet russi, che proclamano la repubblica in Baviera. Già nel 1917 oltre un milione e mezzo di operai erano scesi in scioperi, e altrettanti avevano incrociato le braccia nel gennaio 1918.
Gli strati popolari che nell’agosto del 1914 avevano accolto con favore la svolta nazionalistica interpretata dal Partito socialdemocratico e, in particolare, la sua decisione di votare i crediti di guerra, reclamano adesso a gran voce la fine del conflitto, l’allontanamento della monarchia e della dinastia Hohenzollem, ovvero la nascita della repubblica.
Tra i dirigenti socialisti acquistano popolarità quei pochi che avevano proclamato fin dall’inizio del conflitto la necessità di un “disfattismo rivoluzionario”. Tra di loro Karl Liebknecht, l’unico deputato che il 2 dicembre 1914 aveva votato in parlamento contro i crediti di guerra (da lui stesso approvati, invece, il 4 agosto per disciplina di partito), e Rosa Luxemburg, nota negli ambienti socialisti internazionali per le sue polemiche con Lenin sulla concezione del partito d’avanguardia come “motore” e guida di una rivoluzione. Il gruppo che hanno fondato, gli Spartachisti, insieme ad altre piccole organizzazioni dà vita nel dicembre del 1918 al Partito comunista tedesco.
La repubblica, nel frattempo, aveva trionfato.
Il 9 novembre Berlino è nelle mani di operai e soldati in rivolta, l’impero si dissolve e il primo Cancelliere della Repubblica è il socialista maggioritario (nome che avevano i socialdemocratici) Friedrich Ebert .
Il governo è formato da sei “commissari” (anche qui, nel nome, un richiamo alla tradizione consiliare e sovietica) che appartengono ai socialisti maggioritari (SPD) e ai socialisti indipendenti (USPD). Questi ultimi si dimettono proprio nei giorni in cui viene fondato il partito comunista, perché non condividono l’obiettivo “limitato” dei maggioritari: un’Assemblea costituente che confermi il voto alle donne, la giornata lavorativa di otto ore, la fine della censura e incammini il paese verso una graduale democratizzazione.
Socialisti indipendenti e comunisti, invece, vogliono il proseguimento della rivoluzione, con il passaggio del potere ai Consigli. La guerra civile, che si pensava dovesse scoppiare tra i fautori della repubblica e i nostalgici dell’impero, contrappone in realtà le diverse anime del socialismo, ponendo gli operai e gli strati popolari da una parte e dall’altra delle barricate che attraversano le strade di Berlino. Il governo destituisce il prefetto della capitale, che appartiene ai socialisti indipendenti, provocando accese proteste di piazza. Viene istituito un comitato rivoluzionario, vengono occupate le sedi dei giornali e alcuni edifici pubblici, ma ben presto è evidente che tra comunisti e indipendenti non c’è accordo su come proseguire la ribellione.
Il 6 gennaio il Partito comunista e i Consigli decidono d’insorgere e di deporre il governo Ebert. Il mito della rivoluzione russa non è certo estraneo a una scelta che Rosa Luxemburg, con estrema lucidità, ritiene prematura e dannosa, anche se non si ritrae dalla battaglia rivoluzionaria che inizia.
Tra i socialisti maggioritari il ministro della Difesa Gustav Noske decide di reprimere l’insurrezione, d’accordo con gli alti comandi dell’esercito, utilizzando per la repressione i Corpi franchi (Freikorps), reparti civili paramilitari formati da nazionalisti e reduci che sono ben determinati a riportare l’ordine nel paese.
È la tragica “settimana di sangue”: Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht vengono arrestati e assassinati nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1919.
Pochi giorni dopo, le elezioni per l’Assemblea costituente del 19 gennaio vedono delinearsi un nuovo equilibrio. Ai socialisti maggioritari vanno oltre undici milioni di voti, il 38 per cento dei suffragi. Gli indipendenti non superano 1’8 per cento e tra i comunisti ha prevalso la scelta astensionista.

Se volete approfondire il contesto storico della Germania dopo la Prima Guerra Mondiale e la nascita del movimento spartachista potete farlo sfogliando il volume Storia illustrata del comunismo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.

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La conferenza di Teheran

28/11/2014

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Oggi è il 71° anniversario della conferenza di Teheran.
L'incontro fra i Tre Grandi ebbe inizio il 28 novembre e si concluse il 1° dicembre 1943. In tale conferenza, caratterizzata da una sostanziale concordanza di idee e progetti tra Stalin e Roosevelt in contrapposizione con i piani di Churchill, i leader di URSS, USA e Gran Bretagna si accordarono sull'appoggio ai partigiani di Tito in Jugoslavia, sulla data e sulle modalità esecutive dell'operazione Overlord (sbarco in Normandia), sull'entrata in guerra dell'URSS contro il Giappone dopo la sconfitta della Germania, sulla creazione, dopo la guerra, dell'ONU. Vennero presi accordi per l'invasione della Francia e si delinearono i confini della Polonia, con il consenso degli anglosassoni allo spostamento delle frontiere dell'URSS verso ovest.
Per ricordare questo fondamentale momento della Seconda Guerra Mondiale abbiamo scelto i due francobolli che le poste sovietiche emisero tre giorni prima dell'inizio della storica conferenza. I due esemplari da 30 kopechi e da 3 rubli rappresentano le bandiere delle potenze alleate e una lavagna sulla quale campeggia la frase di Stalin "Да здравствует победа англо-советско-американского боевого союза!" (Viva la vittoria dell'alleanza militare anglo-sovietico-americana!).


L’apertura di un secondo fronte in Europa, per alleggerire la pressione nazista sull’Unione Sovietica, era stata una richiesta più volte avanzata da Stalin agli Anglo-Americani, per tutto il 1942. 1Dal punto di vista strettamente militare le esigenze sottolineate dai Sovietici erano ineccepibili; uno dei principali obiettivi della strategia hitleriana era sempre stato quello di evitare di essere impegnato su «due fronti»: all’inizio aveva colpito in occidente solo dopo essersi garantito l’appoggio diplomatico dell’URSS e, quando aveva deciso di attaccare quest’ultima, aveva sospeso ogni iniziativa di rilievo contro l’Inghilterra. Di fatto, quindi, impegnare i Tedeschi in combattimenti anche sul fronte occidentale diventava una priorità di valore assoluto per gli alleati, che soltanto in questo modo potevano essere in grado sia di aiutare l’URSS sia di «colpire al cuore» l’intera strategia offensiva della Germania. Ma queste considerazioni militari si scontravano con altre esigenze, molto più direttamente politiche.
L’alleanza che legava le democrazie occidentali all’URSS, infatti, pur senza raggiungere l’anomalia dell’iniziale «connubio» tra sovietici e nazisti, restava un accordo diplomatico comunque attraversato da sospetti e diffidenze reciproche. L’essere uniti nella formula della guerra «democratica e antifascista» non bastava a cancellare di colpo anni di ostilità ideologiche e di rivalità geopolitiche; soprattutto in Winston Churchill, ad esempio, una volta emersa con chiarezza la prospettiva della sconfitta hitleriana, furono molto presenti considerazioni e progetti legati più al dopoguerra che non alla guerra stessa. In particolare sul secondo fronte, Churchill fu sempre molto tiepido agli appelli di Stalin e quando – anche perché «forzato» da Roosevelt – fu costretto ad accoglierli, tentò di farlo sempre in modo riduttivo. Fu così un fervente sostenitore dell’operazione Torch in Nord Africa, presentandola a Stalin come un’operazione complementare e non sostitutiva del secondo fronte, soprattutto perché in essa vedeva la possibilità di ripristinare l’egemonia britannica nel Mediterraneo anche per il dopoguerra; e, dopo le sconfitte dell’Asse a Stalingrado e in Tunisia, cominciò a parlare dei Balcani come della sede ideale per un nuovo attacco, anticipando così uno dei cardini della sua linea politica nell’ultima fase del conflitto, tutta tesa a bloccare l’espansione sovietica verso il cuore dell’Europa continentale e a impedire che alla sconfitta nazista seguisse un contemporaneo, complessivo declino della potenza britannica.
Strenuo assertore del secondo fronte fu invece Roosevelt. Superando anche dissensi interni al suo stato maggiore (dopo la battaglia delle Midway erano in molti, infatti, a sostenere l’assoluta priorità di concentrare tutti gli sforzi nella lotta contro il Giappone), il presidente americano rimase sempre fedele al suo disegno strategico iniziale, quello che nella Germania aveva identificato l’avversario da battere prima degli altri. Accentuatamente favorevole all’operazione Torch proprio in quanto coincideva con un primo coinvolgimento operativo dell’esercito americano nel teatro di guerra europeo, il suo intervento fu decisivo nella scelta di aprire il secondo fronte nella Francia settentrionale, nella zona, cioè, ritenuta in grado di offrire le migliori condizioni di natura militare per un attacco diretto alla Germania, da scatenare il più possibile a ridosso dei suoi confini nazionali. Oltre che dal suo irriducibile antifascismo, Roosevelt, a differenza di Churchill, era assistito dalla consapevolezza che alla fine della guerra si sarebbe registrata comunque una incontrastata leadership internazionale degli USA, tale da rendere non preoccupante un’eventuale accresciuta potenza sovietica (senza dimenticare che, sul piano contingente degli obiettivi di guerra, egli sperava di veder ripagato il suo aiuto all’URSS da un intervento di questa ultima contro il Giappone). Alla conferenza di Teheran (28 novembre-­primo dicembre 1943), alla presenza di Churchill, Roosevelt e Stalin, la scelta di aprire il secondo fronte sbarcando sulle coste della Normandia divenne irrevocabile; gli USA avrebbero sostenuto il peso maggiore (logistico e operativo) della iniziativa e tutte le speranze di successo erano in pratica riposte sulla schiacciante superiorità dell’apparato industriale americano.

Se volete approfondire le conseguenze politico-militari della Conferenza di Teheran potete farlo sfogliando il 13° volume de La Storia – L’età dei totalitarismi e la seconda guerra mondiale nella biblioteca dell’Antica Frontiera.

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La Rivoluzione d'Ottobre

7/11/2014

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Oggi è il 97° anniversario della Rivoluzione d'Ottobre.
La grande rivoluzione bolscevica esplose a Pietrogrado, in Russia, il 7 novembre 1917 (la Russia usava ancora il calendario Giuliano, i riferimenti dell’epoca indicano quindi la data del 25 ottobre).

La Russia prima e l'Unione Sovietica poi hanno dedicato moltissime emissioni alla fase finale della rivoluzione russa guidata da Lenin e Trockij. La Russia celebrò nel 1918, nel 1921 e nel 1922 rispettivamente il 1°, il 4* e il 5° anniversario della Rivoluzione d'Ottobre. L'URSS cominciò a commemorare la Rivoluzione nel 1927, in occasione del 10° anniversario, e poi per altre tre volte ogni cinque anni. Ma nel Dopoguerra, a partire dal 1946, le poste sovietiche dedicarono alla Rivoluzione d'Ottobre almeno un'emissione all'anno, con due uniche eccezioni: nel 1956, l'anno in cui l'allora capo del PCUS Chruščëv denunciò i crimini staliniani, e nel 1991, quando all'URSS restavano ormai pochi mesi di vita.
Le emissioni dedicate alla Rivoluzione d'Ottobre sono ben 68 e potrebbero essere oggetto di una specifica collezione tematica. Noi le abbiamo ricercate e selezionate per voi: buon inizio!

Da diverse settimane Pietrogrado era grigia e te­tra, e i cittadini si affrettavano al lavoro sotto una pioggerella gelata. Ma la mattina del 25 ottobre* 1917 il tempo era chiaro e freddo. Il sole brillava sull’istituto Smolny, fino a poco tempo prima scuola di perfezionamento per le fanciulle dell’aristocrazia della Russia imperiale. Uomini in uniformi raccogliticce sostavano accanto ai muri imponenti, parlottando fra loro o sorvegliando il continuo afflusso di gente. All’interno dell’istituto regnava la confusione.
Vi circolava una folla di uomini coperti di fango; per la maggior parte erano membri del Soviet dei deputati, degli operai e dei soldati di Pietrogrado, l’organo rappresentativo che raccoglieva i delegati nominati nelle fabbriche e nei reparti militari della capitale. Gli altri, che arrivavano in numero crescente col passar delle ore, erano membri degli analoghi Soviet sparsi per tutta la Russia; stavano affluendo a Pietrogrado per un’assemblea decisiva fissata per quella sera: stava per iniziare il secondo Congresso russo dei Soviet.
I Soviet avevano assunto un ruolo del tutto particolare da quando, sette mesi prima, lo zar aveva abdicato ed era stato costituito un governo provvisorio. Ufficialmente, non avevano alcuna funzione nel nuovo governo, ma in effetti detenevano le leve del potere. Come rappresentanti diretti degli operai armati e dei soldati, erano arrivati a esercitare sul corso degli avvenimenti un’influenza maggiore di quella dello stesso governo provvisorio. Mentre quell’anno di rivoluzione si avvicinava alla stretta finale, il Soviet di Pietrogrado, il più forte e prestigioso, e molti dei Soviet di altre città si trovavano in conflitto con il governo. Nella capitale il controllo di numerosi edifici pubblici e dei servizi essenziali era stato già assunto dalle truppe e dalla guardia agli ordini del Soviet di Pietrogrado. Prima che nascesse l’alba del 26 ottobre, i delegati riuniti allo Smolny avrebbero presenziato e ratificato l’ascesa al potere di un gruppo di utopisti, decisi a distruggere il vecchio ordine e a creare la prima Repubblica socialista del mondo.
Quel giorno, allo Smolny, alcuni fra i presenti indossavano semplici abiti da lavoro, altri portavano gli stivali di feltro dei contadini; ma l’impressione generale era quella di gente in uniforme, perché la Russia era tuttora in guerra, il quarto anno della Prima Guerra mondiale: un evento disastroso che aveva portato a poche ma umilianti disfatte, a perdite umane incalcolabili, alla carestia, infine alla rivoluzione.
Per la Russia, infatti, la Prima Guerra mondiale costituì il rintocco funebre di tutta un’èra. Fra gli Alleati, le perdite più ingenti erano di parte russa, le cui truppe erano profondamente demoralizzate, talvolta al limite dell’ammutinamento. Rispetto al resto d’Europa, la Russia era una nazione arretrata, dove la rivoluzione industriale era appena agli inizi, impotente, quindi, a fornire sostegno a un grande esercito.
Nonostante l’emancipazione dei contadini fosse stata proclamata nel 1861, le radici della servitù della gleba erano tenacissime. I contadini pagavano ancora un tributo ai proprietari, che spesso incameravano la metà dei raccolti; un terzo dei contadini non aveva terre.
La rivoluzione del 1905 non aveva avuto effetti duraturi. Nicola II aveva mantenuto i poteri impliciti nel titolo di zar di tutte le Russie; la Duma, cioè il parlamento, alla cui istituzione lo zar aveva dovuto acconsentire il 17 ottobre 1905, era risultata avere, di parlamentare, la mera apparenza. Nel 1917 la popolazione era demoralizzata, i militari scontenti e mal guidati, la carenza di viveri gravissima. L’epicentro dell’agitazione era Pietrogrado: qui, nel 1917, tornarono dall’esilio, a dirigere il movimento rivoluzionario, Vladimir Iliè Ulianov Nikolaj Lenin e Lev Davidoviè Trotskij.

L’abdicazione dello zar
Avendo il dominio su più di 160 milioni, di sudditi, Nicola II non ebbe molte difficoltà a raccogliere un esercito di oltre 12 milioni di uomini per combattere contro la Germania e l’Austria-Ungheria. Ma i problemi logistici legati ai trasporti, all’addestramento, all’approvvigionamento di una massa cosi ingente di truppe erano troppo complessi per lo zar e per i suoi miopi consiglieri. Dalla debole industria nazionale non poteva venire che scarso aiuto, e cosi dalle allea­te Gran Bretagna è Francia, duramente impegnate per conto loro. Nel giro di alcuni mesi dalla dichiarazione di guerra, le truppe russe dovettero mettersi sulla difensiva; di tanto in tanto lanciavano disperati attacchi, che venivano però respinti da un ben trincerato avversario, la cui inferiorità numerica era più che compensata dalla superiorità di potenza di fuoco e abilità tattica.
Già entro i primi mesi del 1917 le forze nemiche avevano occupato la maggior parte delle provincie più occidentali dell’impero ed erano penetrate profondamente in territorio russo. Più di 9 milioni di Russi erano stati uccisi, feriti o fatti prigionieri.
Lo zar Nicola, uomo debole, di scarsa intelligenza, era dominato dalla moglie Alessandra (nata Alice d’Assia). Di aspetto regale, profondamente religiosa, la zarina nutriva una suprema ambizione: trasmettere il controllo totale dell’impero al figlio, lo zarevič Alessio, affetto da emofilia. Sempre tesa a questo suo scopo, da tempo subiva l’ascendente morboso di un uomo che si era scelta come consigliere: Grigori Rasputin, detto il “monaco folle”. Era costui un rozzo contadino, ma eloquente anche se ignorante; ubriacone, sudicio, lascivo, si era proclamato santo, ed era tuttavia dotato della inquietante capacità di dar sollievo allo zarevič durante le periodiche emorragie causate dalla malattia.
Quando la guerra stava per iniziare, Rasputin dominava praticamente la zarina e, attraverso di lei, influenzava lo stesso zar. Il 17 dicembre 1916 Rasputin fu assassinato da una congiura di aristocratici insofferenti del suo potere.
Circa tre mesi prima di morire, Rasputin aveva profetizzato la rivoluzione e la guerra civile. Tutto cominciò con un piccolo incidente. Durante l’inverno i poveri di Pietrogrado avevano molto sofferto della crescente penuria di viveri: il 23 febbraio 1917, infine, quando le donne della città appresero che il prezzo del pane era per l’ennesima volta aumentato, inscenarono una dimostrazione contro il governo. Centinaia di ferrovieri e di operai con bandiere rosse marciarono per le strade insieme con le donne, reclamando la fine della guerra.
La cavalleria cosacca investi la folla menando piattonate e scudisciate per disperderla. Ma a un osservatore attento l’abituale spietatezza di questi reparti poteva sembrare affievolita. Il giorno dopo, circa 200.000 lavoratori scesero compatti per le strade, e i cosacchi, che erano in effetti turbati dalla carneficina dei loro reggimenti al fronte non meno che dalle sofferenze della popolazione in patria, si rifiutarono di intervenire.
Quando, il 26, si trovò alla fine una piccola unità di truppe lealiste disposte a far fuoco sulla folla tuttora in tumulto, nelle varie caserme delle città gli altri soldati si ammutinarono e raggiunsero i manifestanti nelle strade; gli ufficiali che tentarono di fermarli vennero uccisi dai loro stessi uomini. Lo zar dichiarò sciolta la Duma, ma i membri di questa, di solito arrendevoli, respinsero l’intimazione e istituirono invece un comitato esecutivo che chiese poteri per ristabilire l’ordine. Lo stesso giorno risorse il Soviet di Pietrogrado (già apparso nel tentativo rivoluzionario del 1905) in rappresentanza di soldati, marinai e operai; i due organi non collaborarono, e anzi entrarono in concorrenza. Il comitato della Duma mirava a un governo costituzionale, il Soviet a una ben più radicale rivoluzione.
Allo zar, che era al fronte, presso il quartier generale, quegli avvenimenti apparvero remoti e poco importanti. Ma ben presto fu costretto a reagire: il 1° marzo, alla notizia che anche a Mosca erano scoppia­ ti moti rivoluzionari, decise di inviare forze scelte per pacificare la città. Ma anche quelle truppe si ammutinarono e si unirono al popolo che avevano avuto ordine di domare.
Il 2 marzo 1917, abbandonato dall’esercito, pressato da richieste di abdicazione, stanco di mente e di corpo, Nicola II, l’ultimo zar di tutte le Russie, abdicò per sé e per lo zareviè in favore del fratello Michele, che il giorno seguente rifiutò la successione al trono. La dinastia dei Romanov, vecchia di secoli, scivolò nell’ombra della storia, per emergerne brevemente e tragicamente nel luglio 1918, quando la famiglia reale, ridotta in prigionia, cadde davanti a un plotone d’esecuzione bolscevico.
L’abdicazione dello zar apri la strada alla formazione di un governo provvisorio, con ministri presi dal gruppo dirigente della Duma. Guidato dal principe Lvov, un aristocratico politicamente moderato, il governo era di fatto controllato dal ministro più dinamico, il socialista riformista Aleksandr Kerenskij, al quale l’influenza sui lavoratori e l’appartenenza al Soviet di Pietrogrado davano, almeno per il momento, un’incontestabile autorità. Pochi mesi dopo, Kerenskij assunse anche la carica formale di primo ministro.
Ma il suo tentativo di stabilire in Russia una democrazia parlamentare doveva fallire: si trattò di una sottile facciata di modello occidentale applicata allo Stato russo in sfacelo, e tutto il governo provvisorio venne coinvolto in una complicata sciarada in cui l’apparenza del potere celava il fatto che il potere reale stava affluendo nelle mani dei Soviet.

L’intervento di Lenin
Vladimir Ilije Ulianov, noto ai compagni e alla posterità come V.I. Lenin, era un intellettuale dagli occhi d’acciaio appartenente alla sinistra rivoluzionaria. Nato nel 1870, figlio di un ispettore scolastico, fu presto attratto dai movimenti di sinistra. Anche i fratelli e le sorelle di Lenin fecero parte di gruppi radicali, e anzi il fratello maggiore era stato giustiziato per aver partecipato a un complotto per assassina­re lo zar Alessandro III. Lenin si votò completamente alla distruzione dello zarismo e alla creazione di una società socialista. Arrestato due volte e due volte esiliato per attività rivoluzionarie, Lenin lasciò la Russia nel 1900, tornando a Pietrogrado (allora ancora Pietroburgo) dal 1905 al 1907.
Nei primi anni del 1900 il nome di Lenin era a un tempo rispettato e temuto negli ambienti radicali. Nel 1903 la sua intransigenza al Congresso di Londra aveva spaccato il partito socialdemocratico russo in due distinte correnti. Militante attivissimo, Lenin esigeva che il partito fosse organizzato in modo da poter fronteggiare le necessità di un’esistenza clandestina e cospirativa, e che i suoi membri, a null’altro devoti che alla rivoluzione, fossero pronti a seguire gli ordini con cieca obbedienza. I più furono d’accordo, per cui i seguaci di Lenin vennero chiamati “bolscevichi” (dal termine russo che significa “maggioranza”). Gli oppositori, che desideravano far nascere un movimento rivoluzionario di massa strettamente legato alle associazioni dei lavoratori e con aperto carattere riformista, vennero chiamati “menscevichi” (“minoranza”); per essi Lenin manifestava soltanto disprezzo.
La Guerra Mondiale sorprese Lenin in Polonia, donde poté però riparare nella neutrale Svizzera. Qui scrisse appassionati articoli per i giornali rivoluzionari, incitando gli operai a rovesciare lo zar. Quando, con sorpresa di Lenin, lo zar fu veramente rovesciato, il leader bolscevico si preoccupò del problema, apparentemente insolubile, di come attraversare la Germania e i territori da questa occupati per raggiungere Pietrogrado.
Ma accadde l’inatteso: il governo imperiale tedesco, intuendo che quel rivoluzionario poteva guidare un forte movimento che portasse la Russia fuori dalla guerra, permise a Lenin di tornare in patria attraverso la Germania. E non è escluso che denaro tedesco sia finito, per tali strumentali ragioni, in mani bolsceviche.
Lenin arrivò a Pietrogrado, alla stazione Finlandia, il 3 aprile 1917, e fu quasi sommerso dalle dimostrazioni di benvenuto. Parlando alla folla con accenti pieni di ardore, auspicò “la rivoluzione socialista in tutto il mondo”. Il giorno seguente definì “imperialista da cima a fondo” il governo provvisorio di Kerenskij e chiese che fosse rovesciato a favore di una “Repubblica dei Soviet … “
Contestare il governo era un conto; rovesciarlo, un altro. In seno al Soviet di Pietrogrado di cui pure ancora per breve tempo Kerenskij avrebbe fatto parte i bolscevichi leninisti costituivano una piccola minoranza. Ma il programma di Lenin era fatto per trovare pronta accoglienza fra i soldati stanchi della guerra, gli operai affamati e i contadini senza terra.
Con lo slogan “Pace, pane e terra”, Lenin prometteva proprio ciò che il governo provvisorio di Kerenskij legato agli Alleati occidentali da trattati, da obblighi economici per i massicci prestiti e da vincoli d’onore non poteva dare. Nel corso del 1917 la situazione al fronte si deteriorò per il crescente numero di reparti che si ammutinavano o disertavano. L’azzardata e disperata offensiva ordinata da Kerenskij sul fronte meridionale si risolse in una disastrosa ritirata.
Nelle città e nelle campagne la situazione era altrettanto grave. A Pietrogrado e a Mosca l’inflazione selvaggia, la crescente carenza di farina e il collasso dei trasporti stavano rendendo il pane prezioso quanto l’oro. Nei latifondi, dove contadini assoldati dissodavano il terreno, la parola “rivoluzione” voleva dire riforma agraria. Per quanto si fosse impegnato a una ridistribuzione della terra, il governo non si decideva ad attuarla.
Sobillati da agitatori rivoluzionari, i contadini agirono da soli, incendiando le case dei proprietari, cacciando o uccidendo tutti i nobili che trovavano e impadronendosi della terra. In quell’atmosfera caotica il partito bolscevico di Lenin trovò un terreno favorevole. Presto avrebbe trovato anche il suo propagandista più efficace.

“Tutto il potere ai Soviet”
Lev Davidoviè Bronstein, conosciuto come Lev (Leone) Trotskij, era nato nella Russia meridionale nel 1879, figlio di un agiato agricoltore ebreo. Non aveva ancora vent’anni quando organizzò uno sciopero dei dipendenti del padre. Al pari di Lenin, per due volte fu arrestato e imprigionato dalla polizia zarista. Nelle pause di libertà divenne ben noto nei circoli di estrema sinistra. Trotskij ebbe notizia della rivoluzione di febbraio mentre si trovava a New York, dove dirigeva un giornale di emigrati russi. Il 4 maggio 1917 tornò a Pietrogrado.
Per quanto, in passato, Trotskij avesse avuto profonde divergenze con Lenin circa la struttura e la dottrina del partito, ora l’accordo politico era perfetto, e in breve di Lenin egli divenne uno dei più stretti collaboratori. Eletto nel Soviet di Pietrogrado, Trotskij usò il suo fortissimo ascendente per rovesciare il governo provvisorio. Con Lenin, lanciò la parola d’ordine: “Tutto il potere ai Soviet”.
Sembrò, in principio, uno slogan molto velleitario. Al primo Congresso dei Soviet di tutta la Russia, tenuto a Pietrogrado fra il 3 e il 24 giugno 1917, i bolscevichi avevano solo 137 seggi su l. 090; ma, in un’atmosfera cosi incandescente, chi oggi era menscevico poteva l’indomani essere bolscevico. La pressione esercitata dalle dimostrazioni di piazza, la protesta nelle fabbriche e l’agitazione nell’esercito favorivano un rapido spostamento di alleanze. Il 2 luglio migliaia di soldati e marinai si unirono ai dimostranti nelle strade; la folla invase il palazzo di Tauride dove era riunito il Soviet di Pietrogrado, e ne minacciò i capi. Il governo di Kerenskij prese a pretesto i tumulti per arrestare Trotskij e altri dirigenti bolscevichi, per sopprimere il loro giornale Pravda (“Verità”), per lanciare contro Lenin, riparato intanto in Finlandia, l’accusa di essere un agente tedesco e quindi per emettere contro di lui mandato d’arresto.
Quando l’8 luglio, Kerenskij fu ufficialmente nominato primo ministro, si adoperò immediatamente per formare un Gabinetto di coalizione di socialisti radicali e moderati. Per tranquillizzare la destra, ordinò di cessare le requisizioni dei latifondi. Inoltre, sperando di indebolire il Soviet di Pietrogrado con l’isolarlo, ne trasferì la sede all’istituto Smolny, alla periferia orientale della città.
Ma il colpo dal quale Kerenskij non si riebbe venne da destra. Il 28 agosto il generale Lavr Kornilov, comandante in capo del fronte occidentale russo, tentò di lanciare un attacco su Pietrogrado; Kerenskij fronteggiò quella minaccia con una mossa imprudente. Distribuì armi agli operai perché resistessero alle truppe di Kornilov. Il colpo di Stato di Kornilov i cui uomini, sobillati da agenti del Soviet, disertarono falli. Corsero voci della partecipazione dello stesso Kerenskij a quel complotto, voci di cui i bolscevichi approfittarono per esacerbare gli animi degli operai in armi e dei soldati malcontenti.
Un repentino cambiamento di umori spazzò la città: nel settembre al Soviet di Pietrogrado venne eletta una maggioranza bolscevica. Kerenskij, con affannosa manovra, il 14 settembre proclamò la Repubblica.

Il successo della rivoluzione
Dall’esilio finlandese Lenin guardava a questi avvenimenti con crescente ottimismo, e il 7 ottobre, ben­ché ricercato dalla giustizia, fece ritorno a Pietrogrado. Quando, il 9 ottobre, Kerenskij ordinò l’allontanamento dalla città di parecchi reparti militari, corse voce che il governo intendesse consegnare Pietrogrado alla Germania pur di impedire un successo dei bolscevichi. Il Soviet di Pietrogrado rispose autorizzando la creazione di un comitato militare rivoluzionario che prendesse il comando delle guarnigioni e organizzasse reparti armati di operai nelle fabbriche, le “guardie rosse”. Nel frattempo i bolscevichi incitavano apertamente alla ribellione contro il governo di Kerenskij. Trotskij correva di fabbrica in fabbrica, di caserma in caserma, esortando operai e soldati alla lotta.
Il 23 ottobre, senza sparare un sol colpo, un reparto di guardie rosse assunse il controllo dell’antica fortezza di Pietro e Paolo. Con questa azione, anche se pochi al momento se ne resero conto, ebbe inizio la Rivoluzione bolscevica.
Alle 23 del 24 ottobre Lenin lasciò il suo rifugio e si 1 d!) recò allo Smolny. Poco soddisfatto del procedere delle cose e non sicuro di possedere la maggioranza in seno al Soviet, Lenin aveva già rivolto alla popolazione un chiaro appello alla rivolta. Piccole bande armate di bolscevichi circolavano cautamente per la città, trovando niente più che un accenno di resistenza. I centri del governo provvisorio stavano crollando. Alle 6 del mattino del 25 ottobre la centrale telefonica, la banca di Stato, il Tesoro, la posta centrale, la principale stazione ferroviaria, le centrali elettriche erano in mano ai bolscevichi.
L’incrociatore Aurora, la rossa bandiera della rivoluzione al vento, era all’àncora sul fiume Neva. Aveva i cannoni puntati sul Palazzo d’Inverno, dove Kerenskij, esitante, stava cercando di prendere una decisione. Nelle prime ore del mattino del giorno 25 un aiutante di campo gli riassunse brutalmente la situazione: “Non rimane una sola unità sulla quale il governo possa contare”. Sperando di raccogliere truppe fedeli fuori città, Kerenskij lasciò il palazzo poco prima di mezzogiorno; non riuscendo a ottenere aiuto, parti per l’esilio. Trovò rifugio negli Stati Uniti, dove visse fino al 1970, morendo ottantanovenne a New York. Lenin, rivolgendosi per la prima volta in pubblico al Soviet, dichiarò trionfalmente: “I poteri dello Stato sono passati nelle mani del Soviet di Pietrogrado… Evviva la rivoluzione degli operai, dei soldati, dei contadini!”
Mentre l’oscurità scendeva sulla capitale, truppe lealiste prendevano posizione all’interno’ e all’esterno del Palazzo d’Inverno. Alle 21.35 l’incrociatore Aurora sparò un colpo d’avvertimento e cominciò a bombardare il palazzo. La maggior parte dei funzionari che vi si trovavano si arrese immediatamente alle guardie rosse; quindi i bolscevichi vi fecero irruzione, costringendo le truppe governative all’inevitabile resa. Infine, alle 2.10 del mattino del giorno 26, gli ultimi ministri del governo provvisorio capitolarono formalmente.
Nel frattempo, allo Smolny, si era finalmente aperto il Congresso generale dei Soviet. Trotskij replicò alle accuse di tradimento, lanciategli dai delegati antibolscevichi, con insulti sprezzanti. « Siete dei miserabili falliti» gridò, « la vostra parte è finita, andate dove dovreste essere: nella pattumiera della storia ». Il Congresso, in cui i bolscevichi detenevano la maggioranza, approvò il fatto compiuto insurrezionale e autorizzò la formazione di un nuovo governo, con Lenin presidente, Trotskij commissario degli esteri e Josif Stalin, aderente alle tesi di Lenin e primo direttore della Pravda, commissario alle Nazionalità. Era nato, per la prima volta al mondo, un governo che si definiva “comunista” (termine che era stato usato per la prima volta da Lenin nell’aprile di quel 1917).
Alla Rivoluzione d’ottobre segui un’ondata devastatrice di spargimenti di sangue, privazioni, miseria e morte. A Mosca un reparto di allievi ufficiali leali a Kerenskij si impadronì del Cremlino, e massacrò le guardie rosse che vi aveva catturato. Il 29 ottobre le guardie rosse bombardarono le spesse mura del Cremlino, aprendovi una breccia: quattro giorni più tardi presero d’assalto la vecchia fortezza e distrusse­ro l’ultimo nucleo di resistenza.
Il futuro della nazione stava nell’immensa campagna; soltanto assicurandosi la lealtà dei contadini i bolscevichi potevano mantenersi al potere. Primo obiettivo fu quello di mantenere le promesse di pace. Nel marzo 1918 Lenin, nonostante un’aspra opposizione, obbligò il governo a sottostare alle dure richieste della Germania firmando il Trattato di Brest­ Litovsk. La Russia perdeva la provincia finlandese, l’Ucraina ricca di grano, i suoi territori polacchi e l’Estonia, la Lettonia e la Lituania. Perdeva, cioè, circa il 34% della popolazione, il 90% delle miniere di carbone, il 32% del terreno agricolo. (La Russia riottenne in seguito molto di quello che aveva dovuto cedere.)
Nel frattempo, la nazione era piombata in una rovinosa guerra civile. Nel maggio 1918 un’armata Bianca (non comunista) di cosacchi scatenò la lotta. Le potenze ex alleate della Russia, temendo il contagio rivoluzionario, stabilirono quello che fu chiamato il “cordone sanitario” antibolscevico, ossia un duro blocco navale, e inviarono armi e aiuti alle forze bianche, finendo poi con l’inviare truppe proprie. A oriente il Giappone occupò punti strategici in Siberia, dove si videro anche truppe americane. Gli Inglesi sbarcarono a nord, ad Arcangelo; e i Francesi a sud, in Crimea. A ovest la Polonia, Stato di recente indipendenza, con l’aiuto della Francia lanciò un’offensiva contro l’Armata rossa. Per più di tre anni Trotskij, allora commissario alla Guerra, dovette spostare con rapidità e tempismo le scarse forze di cui disponeva per tamponare ogni nuova minaccia. A uno a uno, a un costo incalcolabile, l’Armata rossa batté i nemici.
Anche la natura sembrava cospirare contro la Russia. Nel 1921 la siccità fu particolarmente grave. Per fornire di viveri l’Armata rossa e la popolazione delle città, i comunisti confiscarono le limitate scorte di grano dei contadini. Per quanto poco attratti dai comunisti, quasi tutti i contadini detestavano i Bianchi; ma, poiché i comunisti, per lo meno, assicuravano loro il diritto alla terra, essi li aiutarono.

• Tutte le date si riferiscono al calendario giuliano in uso in Russia fino al 1918 e che era in ritardo di 13 giorni rispetto al calendario gregoriano in uso nel resto del mondo occidentale.

Se volete potete approfondire la Rivoluzione Russa leggendo il libro Ventesimo secolo – i grandi avvenimenti che gli hanno dato un volto nella biblioteca dell’Antica Frontiera.
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