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Il Manifesto del Partito Comunista

21/2/2015

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Cina, 1963. 145° anniversario della nascita di Karl Marx. Manifesto del Partito Comunista.
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DDR, 1966. 20° anniversario del SED, il Partito Socialista Unificato di Germania. Karl Marx e Friedrich Engels, frontespizio del Manifesto del Partito Comunista.
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DDR, 1968, 150° anniversario della nascita di Karl Marx. Frontespizio del Manifesto del Partito Comunista.
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DDR, 1983. Centenario della morte di Karl Marx. 
Karl Marx e Friedrich Engels, frontespizio del Manifesto del Partito Comunista.
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URSS, 1964. Centenario della fondazione della Prima Internazionale. Manifesto del Partito Comunista, scritta "Proletari di tutto il mondo unitevi!".

Oggi è il 167° anniversario della pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista.
Opuscolo scritto da Karl Marx con la collaborazione di Friedrich Engels su incarico della Lega dei comunisti, venne pubblicato a Londra e divenne il programma politico della prima Internazionale (1864), ottenendo amplissima diffusione. Vi si identificava la Storia come continua lotta fra le classi, prospettando i mezzi con i quali il proletariato avrebbe potuto sconfiggere la borghesia e instaurare il comunismo.
Per ricordare il fondamentale e rivoluzionario libro che avrebbe condizionato la seconda metà dell'Ottocento e quasi tutto il Novecento abbiamo scelto i cinque esemplari di Cina, DDR e URSS ad esso dedicati. Di ognuno di essi abbiamo pubblicato l'immagine e una breve descrizione sopra.


Alla vigilia delle rivoluzioni europee del 1848 il pensiero comunista subì un profondo influsso, quasi una scossa, dalla pubblicazione avvenuta a Londra di un opuscolo in lingua tedesca, redatto da Karl Marx e Friedrich Engels, intitolatoManifesto del Partito Comunista. Si tratta di un libretto propagandistico famoso. Centinaia di migliaia, forse milioni di persone hanno letto e meditato su queste pagine che costituivano, almeno fino a pochi anni fa, una specie di breviario per la formazione ideologica di una buona metà del nostro pianeta.
Il valore dell’opera non è però solo quello di essere documento storico di una visione del mondo: in questo opuscolo sono enunciate le linee fondamentali di un pensiero che possiamo a tutti gli effetti definire “classico” e che ha influenzato i successivi sviluppi del movimento operaio europeo e asiatico.
Il primo capitolo, intitolato Borghesi e proletari, presenta la genealogia della società borghese e una succinta ma completa esposizione della teoria che va sotto il nome di concezione materialistica della storia. La storia, come aveva insegnato all’inizio dell’Ottocento il filosofo G.W.F. Hegel (1770-1831), è anche per Marx ed Engels un processo dialettico, in cui le varie fasi si susseguono superandosi reciprocamente. Non è facile dire che cosa significhi “processo dialettico”, anche perché su questo problema l’interpretazione degli studiosi non è sempre univoca.
Si può provare a pensare che la fondamentale caratteristica degli uomini sia quella di fare sostanzialmente i loro interessi, ma di poterli fare soltanto quando si trovano associati con altri uomini, in quella che Hegel e i suoi allievi chiamano società civile. La dialettica consiste proprio nel continuo scontrarsi delle esigenze dell’individuo o del gruppo che vuole fare i propri interessi con quelle degli altri. Per esempio il servo ubbidisce al suo padrone, ma anche il padrone non potrebbe mangiare se il servo non lavorasse per lui, e il servo non avrebbe di che vivere se il padrone non gli fornisse i mezzi per lavorare. Ebbene, Marx ed Engels giungono alla conclusione che tutte le società esistite fino a quel momento si siano basate su questi rapporti conflittuali, anzi, che le società non siano propriamente la somma degli individui che le compongono, bensì la somma di quei rapporti sociali che si sono definiti “dialettici”. Ma questi rapporti non sono eterni.
Lo studio dell’economia e della società capitalistica, in cui soprattutto Marx resta un maestro per certi aspetti insuperato, consente ai due pensatori di fare questa affermazione. La società così come noi la conosciamo, almeno in tutta l’epoca storica, è fatta di conflitti fra gruppi di individui e di individui fra loro per la conquista della possibilità di opprimere gli altri. L’idea stessa di società contiene una limitazione di fondo alla libertà dell’uomo. Da quando esiste la divisione del lavoro, c’è chi, inevitabilmente e per certi aspetti necessariamente, vive sul lavoro degli altri, chi sfrutta il lavoro, dunque limita la libertà degli uomini nella sfera più fondamentale, quella dell’appropriazione dei beni necessari alla sopravvivenza e alla vita in generale. Lo sfruttamento può finire perché, all’interno del movimento generale della storia, il gruppo dominante nella società capitalistica, vale a dire la borghesia imprenditoriale e finanziaria, è in grado di sviluppare in misura e proporzioni mai viste prima tutte le forze produttive e creative dell’uomo. Ciò produce problemi molto seri, talvolta in contraddizione con le relazioni sociali generate dal capitalismo; produce insomma una contraddizione che nasce da quella che noi oggi chiameremmo “aspettativa”. Gli uomini si impadroniscono delle capacità e talvolta anche delle conoscenze che sono inizialmente solo della classe dominante e vogliono quindi sostituirla. Si aspettano di sostituirla. Quando ciò accade, la rivoluzione contiene sempre qualche tratto violento. Il proletariato, dicono Marx ed Engels, la classe degli oppressi, ha davanti a sé un’occasione d’oro per far compiere un passo decisivo alla storia dell’umanità. Nel momento in cui diventa maggioranza, povera e tendenzialmente omogenea della società, potrà, attraverso l’opera dei comunisti, prendere coscienza della propria condizione e abbattere il regime della borghesia liberando l’intera umanità dal conflitto degli interessi. La liberazione consiste proprio nel fatto, come dice Marx nel terzo libro del Capitale, che verranno abolite le condizioni del lavoro salariato. Non si lavorerà più per il profitto di pochi, ma per le necessità di ciascuno o per lo svago della mente, o del corpo. Nella società non ci saranno più conflitti di classe.
Marx ed Engels ritengono che, con l’eliminazione del fine di lucro, dello scopo del profitto dall’attività industriale, la libertà, cioè la libertà nell’appropriazione dei beni, possa realizzarsi per tutti e non solo per la classe al momento dominante. «Infine: il sistema borghese dipende, da un lato, dalla progressiva accumulazione del capitale, dall’altro dalla periodica distruzione di questo stesso capitale attraverso crisi che tendono a diventare sempre più gravi» (Cole).
Le previsioni del Manifesto si rivelarono presto del tutto sbagliate. In Inghilterra, dove l’opuscolo era uscito, il proletariato non era affatto diventato una maggioranza schiacciante e informe di personale privo di qualunque specializzazione, e i salari cominciavano lentamente ma costantemente ad aumentare, specialmente tra gli operai più specializzati. Nei loro scritti successivi i due autori non diedero mai l’impressione che volessero modificare le prese di posizione del Manifesto: la situazione di molti Paesi dell’Europa centrale e orientale sembrava adattarsi ancora alla perfezione a quanto era stato scritto nel 1848.
Dopo le delusioni patite durante la rivoluzione Marx si gettò nello studio dell’economia politica, passando intere giornate nella biblioteca londinese del British Museum, dove riuscì a elaborare e pubblicare nel 1867 il primo volume della sua monumentale opera intitolata Il Capitale. Nel corso di questi studi analizzò soprattutto le statistiche riguardanti la prima metà dell’Ottocento, non potendo disporre ancora dell’aggiornamento sulle vicende più recenti. Il Marxismo affermava la dipendenza delle teorie scientifiche e delle forme d’arte dal periodo storico nel quale si affermano; quindi, se applichiamo coerentemente questa visione allo stesso Marxismo, dobbiamo definirlo come una teoria della prima fase della rivoluzione industriale. In effetti si verificarono due fatti solo apparentemente fra loro contraddittori: in Occidente, laddove lo sviluppo industriale andava affermandosi in modi completamente diversi da quanto Marx ed Engels avevano previsto, nacquero proposte di revisione del Marxismo che, invece, fu accettato come una religione in quei Paesi più arretrati in cui la diagnosi marxiana si applicava correttamente o addirittura descriveva uno scenario futuribile.
Possiamo dire, insomma, che il Manifesto, scritto d’occasione, appello all’azione più che riflessione teorica, non ci diede la sintesi di tutta la teoria marxiana. «Del suo pensiero fondamentale Marx vi immise solo quel tanto che secondo lui poteva essere digerito dai membri, attuali e futuri, dell’organizzazione sotto i cui auspici il documento usciva, o che poteva riuscire accetto ai delegati che dovevano approvarlo. Vi inserì anche molte cose che si rivolgevano più a quei delegati e ai loro seguaci che non al resto del mondo, e parecchie altre che dovevano starci perché così essi volevano» (Cole). Tra le cose che Marx non inserì c’era sicuramente uno dei pilastri teorici di tutto il suo sistema di pensiero: il ruolo dominante dell’evoluzione delle forze produttive, concetto indefinito ma suggestivo, nella determinazione dei rapporti sociali. Su questo tema il movimento operaio, che assumerà il pensiero di Marx come un faro, si dividerà in due tronconi sempre più netti: il Socialismo riformista e il Socialismo rivoluzionario che, dopo la Rivoluzione russa, darà vita al movimento dei Partiti Comunisti.

Se volete approfondire il programma rivoluzionario di Karl Marx e Friedrich Engels potete farlo sfogliando il volume Atlante della storia – Il comunismo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.

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