Combattuta il 26 gennaio 1943, fu uno degli scontri più importanti durante il caotico ripiegamento delle residue forze dell'Asse nella parte meridionale del fronte orientale durante la seconda guerra mondiale, a seguito del crollo del fronte sul Don dopo la grande offensiva dell'Armata Rossa iniziata il 12 gennaio 1943 (offensiva Ostrogorsk-Rossosc).
Le forze italo-tedesche, provate dal gelido inverno russo, ripiegarono disordinatamente e dopo 9 giorni di marcia e 25 battaglie di sfondamento e retroguardia, gli Alpini giunsero all’appuntamento finale, lo sbarramento russo di Nikolajewka. I 13.420 uomini rimasti del Corpo d’Armata Alpino – erano più di 60.000 dieci giorni prima – espugnarono, a colpi di fucile e bombe a mano, il piccolo villaggio russo. Le forze sovietiche vennero sopraffatte dagli Alpini della Tridentina, comandati dal loro eroico comandante, il generale Reverberi, che li trascinò all’attacco delle postazioni russe al grido di “Tridentina avanti!”. Come una valanga, gli Alpini travolsero la resistenza sovietica, ma il prezzo pagato fu enorme: migliaia di soldati italiani restarono sul campo di battaglia.
Per commemorare questa terribile battaglia che fu raccontata anche da Mario Rigoni Stern nel suo romanzo autobiografico Il sergente nella neve abbiamo scelto il francobollo da 600 lire che le poste italiane emisero nel 1993. La vignetta riproduce un gruppo di tre figure che rappresentano un soldato dell'Armata rossa ed un alpino, in uniforme di guerra, che si
danno la mano ed una donna sovietica che assiste all'atto di pace, mentre in primo piano è rappresentata una composizione floreale stilizzata e sullo sfondo la vista invernale della città di Nikolajewka.
“Dortmund” era la parola d’ordine che dava inizio all’operazione. Venne trasmessa alle 19, ora di Berlino, del 21 giugno 1941, un sabato sera: il giorno dopo la Germania di Hitler invadeva l’Unione Sovietica. Ma più che di un’operazione militare si trattò del coronamento di un sogno condensato nella parola tedesca lebensraum, “spazio vitale”, quello cioè che andava conquistato per il popolo tedesco: assoggettare l’immenso territorio russo e i suoi Stati satellite per farne un grande magazzino alimentare, industriale, petrolifero e umano al servizio del Terzo Reich.
L’offensiva scattò su un fronte di 1.600 chilometri, dal Baltico al Mar Nero, cogliendo Stalin impreparato. L’attacco inizialmente ebbe effetti devastanti lungo le tre direttrici di marcia principali: a nord su Leningrado (oggi San Pietroburgo); al centro su Mosca; a sud verso Kiev, le steppe della Russia meridionale e i lontani campi petroliferi sul Volga. I tedeschi disponevano in Russia di 170 divisioni, per un totale di 3 milioni di uomini e circa 3 mila mezzi corazzati; da parte loro i sovietici schierarono 150 divisioni per un totale di 4.700.000 uomini. Due giganti a confronto. Ma Hitler era in netto vantaggio.
GENERALE INVERNO. L’avanzata tedesca proseguì inarrestabile e l’esercito russo continuava ad arretrare. Mosca era sempre più vicina e la guerra sembrava ormai vinta. Ma qualcosa accadde. L’Italia di Mussolini si trovava in difficoltà nei Balcani e la Germania fu costretta a correre in suo aiuto, ritardando di alcune preziose settimane l’assalto a Mosca. Quando la Germania, nell’ottobre 1941, sferrò l’attacco decisivo alla capitale sovietica, era troppo tardi. Ai russi bastò bloccare l’esercito tedesco a 40 chilometri dalla città, rafforzare la resistenza e lasciare che l’incipiente, terribile inverno russo facesse la sua parte. Quella che doveva essere una guerra lampo si trasformò in una guerra di usura e la Germania perse il suo vantaggio tecnico e strategico di fronte alla neve, alla scarsità di viveri e alla mancanza di equipaggiamenti invernali adeguati per le truppe.
GUERRA DI MUSCOLI. Facciamo un passo indietro e immaginiamoci Mussolini svegliato nel cuore della notte da una telefonata che gli comunicava l’invasione della Russia da parte della Germania. Senza prima consultare il suo principale alleato, Hitler aveva rotto gli indugi e a Mussolini non restava che entrare in guerra al suo fianco. A nulla valsero raccomandazioni del führer di concentrare le forze italiane nel Nord Africa, lasciando perdere la Russia: Mussolini insisteva. «Si comportò da vero “furbetto del quartierino” che vuole incassare senza spendere: non voleva lasciarsi sfuggire l’occasione di partecipare poi alla spartizione del bottino» commenta Giorgio Scotoni, docente di Storia all’Università di Voronezh (Russia). Così, nell’estate del’ 41, il duce inviò in Urss lo Csir, il Corpo di spedizione italiano in Russia, formato da tre piccole divisioni (circa 62 mila uomini) abbastanza ben equipaggiate. Lo scopo era unicamente quello di mostrare la bandiera, facendo bella figura con pochi uomini e le migliori attrezzature disponibili.
LA CHIAMATA DI HITLER. Passato l’inverno, in primavera la situazione ancora non si era sbloccata. Questa volta fu Hitler a chiedere un rafforzamento della presenza italiana in Russia. Prontamente Mussolini inviò al fronte un nuovo corpo di spedizione che inglobò lo Csir sotto un unico nome: Armir (Armata italiana in Russia). Arrivarono così altre 7 divisioni, di cui tre alpine (“Tridentina”, “Julia” e “Cuneense”), che fecero salire il numero dei soldati italiani a 230 mila. Per dare un’idea dell’imponenza dello sforzo bellico basti pensare che l’esercito italiano contava in tutto 65 divisioni, di cui la metà era nei Balcani e una decina in Africa. Destinare al fronte russo dieci divisioni della ventina che rimanevano a disposizione sul suolo italiano non era certo una decisione di poco conto.
Viene però da chiedersi: perché inviare truppe alpine nella steppa russa? È difficile immaginare un terreno meno adatto per le divisioni di montagna. Queste infatti erano state inizialmente destinate al teatro di guerra del Caucaso ma poi, ai primi di agosto del’ 42, furono dirottate con il resto delle divisioni italiane sulla linea del Don, per coprire l’avanzata della 6ª Armata tedesca su Stalingrado. Tante parole sono state spese sull’inadeguatezza dell’equipaggiamento di queste truppe per quello scenario di guerra che prometteva un inverno glaciale: divise non sufficientemente calde, scarponi dentro i quali i piedi gelavano, fucili che si inceppavano col freddo e automezzi inutilizzabili per la mancanza di liquido antigelo. Se all’esercito tedesco il primo inverno sulle nevi russe, nel 1941, era servito per meglio equipaggiarsi all’arrivo del secondo, lo stesso non poteva dirsi per le truppe italiane.
SATURNO CONTRO. Nel novembre 1942 i contrattacchi sovietici sui fiumi Don e Volga chiusero in una sacca le forze tedesche che assediavano Stalingrado. I tedeschi si organizzarono per rompere l’accerchiamento, ma i russi si mossero con altrettanta rapidità e misero a punto l’Operazione Piccolo Saturno, che prevedeva la definitiva rottura della linea difensiva nemica schierata sul Don. Le forze italiane, rumene, ungheresi e tedesche lì attestate non erano sufficienti da sole a reggere l’impatto, senza un’adeguata retroguardia. Ma tutte le rimanenti forze tedesche erano impegnate a Stalingrado, e dietro le linee dell’Armir non si vedeva altro che la sconfinata steppa russa.
Tra l’11 e il 15 dicembre 1942 l’esercito russo sferrò una serie di attacchi contro le fanterie schierate sul Don allo scopo di sondare le difese nemiche. Ma fu il 16 dicembre che scattò la grande offensiva che investì le divisioni italiane di fanteria e il gruppo rumeno “Hollidt”, schierati sul Medio Don, risparmiando più a nord il Corpo d’armata alpino che, oltre alle tre divisioni alpine, comprendeva quella di fanteria “Vicenza”. Sebbene le forze russe fossero decisamente più consistenti del previsto, l’Armir inizialmente riuscì, pur con notevoli perdite, a contenerle. Al nuovo attacco del 17 dicembre, in cui i russi misero in campo le forze corazzate (un migliaio di carri armati), la fanteria italiana oppose una strenua resistenza. Con le spalle scoperte, però, alla fine non poté che cedere. La scelta fu di piegare più a sud e, nell’attesa (vana) di rinforzi tedeschi, tentare di ricostituire una linea difensiva. Ma il fronte era ormai rotto e l’obiettivo di Stalin raggiunto: i tedeschi non avevano più le forze per organizzare una controffensiva su Stalingrado. «I fanti italiani non erano per nulla pronti a una guerra di movimento» aggiunge Scotoni. «La prima colonna di quelli che stavano ripiegando fu spazzata via in una delle più sanguinose battaglie nella conca di Arbusovka (la cosiddetta “Valle della morte”), dove sono ancora sepolti 15 mila nostri connazionali, mentre il resto resistette accerchiato a Chertkovo fino al 15 gennaio» .
STRETTA MORTALE. A gennaio anche il Corpo d’armata alpino, che era rimasto sull’Alto Don, venne accerchiato dalle truppe sovietiche del fronte di Voronezh, La 40ª Armata corazzata russa mise in rotta la 2ª Armata ungherese, schierata a nord degli alpini. Intanto i carri russi della 3ª Armata corazzata avanzavano a sud, dove lo schieramento era tenuto dal 24° Corpo corazzato tedesco e dalla “Julia”. I russi raggiunsero anche Rossosch, sede del comando alpino: furono respinti solo inizialmente, poi il 16 gennaio riuscirono a prendere la cittadina. Le truppe alpine erano dunque ormai chiuse in una tenaglia, che andava stringendosi da nord e da sud.
La sera del 17 i comandi italiani ordinarono il ripiegamento. Fu una decisione dettata dalla disperazione: gli uomini e le armi a disposizione non potevano nulla contro il dispiegamento di forze russe. Seppure l’idea di una ritirata a piedi nella steppa aperta, senza alcun riparo e senza poter sperare nell’arrivo di rinforzi, sembrasse folle, proseguire in una difesa a oltranza sarebbe stato un suicidio. Cominciò così la lunga marcia di ripiegamento degli alpini. I battaglioni avanzarono per dieci lunghi giorni nella neve: nessuna indicazione da parte dei comandi, nessuna possibilità di collegamento radio, niente viveri, nessun mezzo tranne poche slitte stracariche di feriti e qualche stanco mulo per trainarle. A un certo punto, l’ordine di deviare in direzione di una cittadina che oggi non esiste nemmeno più sulle carte: Nikolajevka.
ULTIMO CAPITOLO. Il 26 gennaio 1943 si riversò alle porte della città un’enorme massa di sbandati, ma solo la “Tridentina”, l’unica divisione che aveva fortunosamente ricevuto via radio informazioni sulle posizioni di sbarramento nemiche, riuscì ad aprirsi un varco. I resti delle divisioni “Vicenza”, “Julia” e “Cuneense”, a cui gli ordini non erano mai arrivati, finirono nelle mani della cavalleria cosacca.
Le cifre parlano chiaro: si calcola che durante la campagna di Russia i morti siano stati circa 85 mila e i feriti o congelati 27 mila. Ma a chi imputare la colpa di questa disfatta? In primo luogo al clamoroso ritardo nell’autorizzazione tedesca al ripiegamento, in una logica di sacrificio delle truppe. I comandi italiani, dal canto loro, ebbero la responsabilità di non aver saputo organizzare la ritirata, nonostante l’eventualità di un ripiegamento fosse già stata prevista da tempo.
RESISTENZE. L’Operazione Barbarossa, il nome in codice per l’invasione nazista dell’Unione Sovietica, fu senz’ombra di dubbio una disfatta. E fin da subito i tedeschi addossarono sugli italiani – accusandoli di lassismo e impreparazione – le colpe della sconfitta. «Gli studi italiani sulla campagna di Russia sono sempre stati di tipo memorialistico: si è sopperito alla scarsità di documentazione disponibile con la testimonianza dei reduci, per lo più alpini sopravvissuti alla ritirata» precisa però Scotoni. «Si è così consolidata in Italia una visione asimmetrica, che ha lasciato in secondo piano il tracollo delle fanterie dell’Asse sotto l’offensiva russa del dicembre 1942, vero punto di svolta della campagna, mentre ha valorizzato l’annientamento del Corpo d’armata alpino nel gennaio 1943, che ne ha rappresentato solo il tragico epilogo» .
RIABILITATI. A corto di documenti, gli storici nostrani sembra abbiano trascurato il confronto con le altre storiografie nazionali, in particolare quella russa. L’apertura in anni recenti degli archivi ha riacceso il dibattito, grazie a rapporti e carteggi di parte sovietica, che gettano nuova luce sulla vicenda dell’Armir e conferiscono il giusto valore all’azione e alla resistenza dell’esercito italiano. «Emerge anche un giudizio positivo sui generali e sulla difesa disperata delle fanterie dell’Armir, tanto coraggiose da costringere i comandi sovietici ad anticipare l’ingresso delle truppe corazzate in battaglia. Queste valutazioni, se non cambiano il carattere di débacle complessiva, ribaltano le tradizionali accuse mosse dagli allora alleati tedeschi e l’immagine critica tratteggiata dai comandanti della Wehrmacht nelle loro memorie» conclude Scotoni.
Quello che avete appena letto è l’interessante articolo di Viola Calabrese sulla campagna di Russia e la valorosa ritirata dell’Armir durante la Seconda guerra mondiale. Se volete approfondire potete farlo sfogliando le pagine 44-51 del n. 26 di Focus Storianella biblioteca dell’Antica Frontiera.