La cosiddetta "barriera di protezione antifascista", come veniva chiamata dalle autorità della Germania Est, venne innalzata nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 e di fatto divise in due la città di Berlino per 28 anni, fino al 9 novembre 1989, giorno in cui il governo tedesco-orientale decretò l'apertura delle frontiere con la repubblica federale.
Per ricordare il più famigerato simbolo della Guerra Fredda abbiamo scelto quattro emissioni, due della Germania Est e altre due della Germania Federale riunificata.
La prima serie composta di due esemplari vide la luce in occasione del 10° anniversario del Muro: il primo francobollo da 20 pfennig raffigura due militari - un soldato della NVA, l'Armata Popolare Nazionale, e un membro dei Kampfgruppen, i riservisti dei Gruppi di Combattimento della Classe Operaia - davanti alla Porta di Brandeburgo; il secondo francobollo da 35 pfennig mostra in primo piano la Porta di Brandeburgo con i grattacieli e la torre della televisione di Berlino.
La seconda emissione è del 1986 e raffigura un'appartenente della Libera Gioventù Tedesca mentre dona fiori a tre miliziani dei Kampfgruppen. Completano la vignetta la consueta Porta di Brandeburgo, lo stemma della DDR e la scritta "25° anniversario della barriera di protezione antifascista".
Nel 1990 la Germania riunificata emise un bel foglietto per celebrare il primo anniversario della caduta del Muro: i due valori da 50 e da 100 pfennig, entrambi attraversati da un arcobaleno formato dai colori della bandiera tedesca, rappresentano una breccia nel Muro e una folla festante davanti alla Porta di Brandeburgo. Nel foglietto si vedono svariati ponti, atti a simboleggiare l'incontro fra le due Germanie per quarant'anni divise.
L'ultimo francobollo è del 1995 e commemora le tante vittime del Muro del Berlino, sull'esatto numero delle quali non si è tuttora concordi.
“Il Muro era mio figlio. Un figlio non si ripudia, anche se sbaglia. Io l’ho messo al mondo, l’ho amato e non sopporto l’idea che sia stato fatto a pezzi. Perciò dedico il mio tempo alla sua memoria“. Forse nessun altro può avere un approccio simile con die Mauer, il Muro per eccellenza, quello che per 28 anni divise la capitale tedesca in due settori, uno comunista e uno filo-occidentale: l’unica persona che può parlare così è Hagen Koch, 68 anni, ex agente della Stasi, il servizio segreto della Ddr, la scomparsa Germania comunista.
Progettista. Se Koch considera il Muro un figlio, un motivo c’è: nel lontano 1961 fu lui, allora militare di leva e cartografo dell’esercito tedesco-orientale, a tracciare sulle mappe la linea che doveva servire a geometri e muratori per erigere il simbolo numero uno della guerra fredda in Europa. Ed è stato ancora lui, dal 1994 in poi, a creare nella capitale tedesca un Archivio del Muro che raccoglie documenti, fotografie e cimeli su quel “figlio” di cemento che la Storia dell’ultimo ventennio ha spazzato via e poi fatto letteralmente a pezzi.
Oggi Koch vive in un modesto bilocale di Lichtenberg, quartiere popolare alla periferia Est di Berlino. Un ex Stasi non ha vita facile, ai nostri giorni: lo Stato che gli doveva la pensione non c’è più, la nuova Germania lo guarda di traverso e gli ex colleghi sono spariti, mimetizzandosi in vari modi. Koch invece ha fatto autocritica, ma non nega il suo passato. Parlare del Muro con lui, relitto vivente della guerra fredda, vuol dire rileggere tutto in chiave insolita, con gli occhi (fatalmente non neutrali) di chi stava dietro, o meglio “dentro” il confine.
I numeri. Die Mauer era lungo 155 km, alto tre metri e mezzo e profondo da 30 cm a oltre due metri, secondo i tratti. Quasi ovunque era doppio, con una fascia intermedia, spianata dalle ruspe, dove non entrava nessuno. Altrove invece era solo virtuale, fatto di innocue boe e di meno innocue mine, perché il confine tagliava un lago (il Wannsee) e intersecava un fiume (la Spree). Il tutto corredato da 20 bunker, 302 torrette, infiniti grovigli di fili spinati e migliaia di vopos, le guardie di confine. Precisiamo: le cifre si riferiscono all’ultima versione del complesso, perché in realtà i muri costruiti a Berlino furono quattro. La prima barriera del 1961 fu ampliata, modificata e rinforzata nel 1962, 1965 e 1975, fino a diventare una sorta di insuperabile Grande Muraglia tedesca. A cambiare però non fu il tracciato deciso da Koch, ma gli impianti di controllo e i materiali di costruzione: dai mattoni e dalle fragili transenne delle origini si passò al cemento armato, per far fronte a ripetuti tentativi di sfondamento.
Cercando di superare quella fortezza serpentiforme morirono in molti: da 133 a 239 persone (le stime non concordano). Infatti 20 anni fa per andare da Mitte a Kreuzberg, quartieri adiacenti dell’Est e dell’Ovest, ci voleva il passaporto; ma a Est non l’aveva quasi nessuno. E contro chi tentava di passare lo stesso, i vopos sparavano. E’ storia nota. Meno noto è che, dopo ogni “incidente”, le guardie dovevano compilare un modulo in cui si chiedeva loro se pensavano corretto l’aver sparato. Di solito ogni tre risposte c’erano due sì e un no.
Ex amici. Berlino non era stata sempre così. Nell’immediato dopoguerra, quando Koch andava alle elementari, la città era un esempio di buon vicinato tra l’Urss e l’Occidente, reduci dalla comune vittoria sul nazismo. Gli occidentali avevano da poco lasciato al controllo di Mosca una vasta area della Germania sud-orientale, dove le truppe alleate avevano anticipato l’Armata Rossa. E i sovietici, che avevano conquistato Berlino da soli, per ricambiare avevano ceduto agli anglo-franco-americani tre settori della capitale. Il risultato fu un’acrobazia geopolitica, che però all’inizio funzionò: la Germania era divisa in quattro “fette”, una per vincitore; ma Berlino, situata nell’area sovietica, era a sua volta sub-divisa in quattro.
Comunque la spartizione della città a quel tempo era solo formale: da un settore all’altro si passava liberamente, sia pure tra frequenti controlli militari. Altrettanto liberi erano i trasporti ferroviari e stradali tra la capitale e i länder occidentali, che dovevano attraversare per forza regioni a controllo sovietico, come Turingia, Brandeburgo e Sassonia-Anhalt.
Tutto cambiò quando gli occidentali decisero di reintrodurre nei loro settori il marco, storica moneta tedesca, al posto del “military payment certificate”, la valuta transitoria di occupazione. La svolta preludeva al riconoscimento unilaterale di una Germania indipendente, ipotesi che Mosca vedeva come fumo negli occhi. Perciò Stalin, allora “zar” indiscusso del Cremlino, reagì con una provocazione: chiese i danni di guerra allo Stato nascituro. Washington rifiutò e l’Urss, per ritorsione, bloccò gli accessi a Berlino.
Isolati. Era il 24 giugno 1948 e iniziava la guerra fredda. L’obiettivo di Stalin era chiaro: se gli occidentali volevano una “loro” Germania a ovest, lui ne avrebbe tenuto a battesimo un’altra a est. Ma per centrare l’obiettivo doveva riprendersi tutta la capitale: sia per non avere in casa un’enclave altrui; sia perché ricordava bene un monito di Lenin, secondo cui “chi ha Berlino controlla la Germania e chi controlla la Germania ha l’Europa“. Di qui il blocco: un vero assedio, che tagliava i rifornimenti all’enclave, nel tentativo di piegarla per fame.
Il presidente Usa Harry Truman, che già nel 1947 aveva indicato l’Urss come avversario strategico, prese la palla al balzo e raccolse la sfida: “Dobbiamo intervenire dove la libertà è in pericolo” era la sua dottrina. In concreto: la città tedesca, isolata via terra, andava rifornita dal cielo. Anche perché Stalin tentava di allettare i berlinesi offrendo loro cibo in cambio di una firma pro-Urss. Sulle prime solo il 5% degli interessati accettò, ma Truman pensò di affrettare il ponte aereo prima che il contagio si estendesse. L’operazione durò circa un anno, con 278.228 voli, a un ritmo standard di 330 aerei al giorno (ma con punte di 1.394, uno ogni 62 secondi). All’aeroporto berlinese di Tempelhof, terminale del “ponte”, furono scaricate 2.326.406 tonnellate di merci, partite da 4 scali diversi (Francoforte, Lubecca, Celle e Fassberg). Tanta frenesia provocò ben 120 incidenti aerei, con 70 morti; ma nonostante tutto die Luftbrücke (il ponte aereo in tedesco) riuscì. E il suo coordinatore, Albert Wedemeyer, generale dell’Us Air Force, diventò un eroe, almeno per i tedeschi adulti.
Gioie e paure. Per i bambini di Berlino Ovest, invece, l’eroe era un altro: Gail Halvorsen, detto Candy Bomber (“Bombardiere di caramelle”) o Schokoladen Flieger (“Uomo volante della cioccolata”), un pilota dello Utah che lanciava sulla città dolcetti legati a mini-paracadute. L’arrivo del suo aereo, dipinto di arancione, era attesissimo. Dettaglio curioso: in Germania la popolarità di Halvorsen ha resistito agli anni, e alle Olimpiadi di Salt Lake City (Usa) nel 2002 l’ex pilota è stato portabandiera per i tedeschi.
Tra i bimbi dell’altra Germania il ponte aereo innescò invece strane paure. “Allora vivevo a Dessau” ricorda Koch. “A volte andavo ad aiutare mio padre nei campi di patate e li trovavo infestati da certi insetti gialli e neri, le dorifore. “Vengono dall’America” mi dicevano. Era vero, ma nessuno precisava che i parassiti erano dovuti a falle nei controlli fito-sanitari. E poiché su Dessau passava una rotta degli americani diretti a Berlino, io vedevo gli aerei e credevo che venissero per buttare dorifore sui campi. Così iniziai a odiare l’America”. Le dorifore non lo sapranno mai, ma influirono sulla storia tedesca. Koch, cresciuto odiando gli Usa per colpa loro, alla lunga finì nelle braccia di Erich Mielke, fondatore della Stasi e ministro Ddr della Sicurezza, un uomo gelido, che raccomandava ai vopos: “Se sparate, cercate in ogni modo che il bersaglio resti fra noi” dove “fra noi” non voleva dire “vivo”, ma “a Est”. Precisa Koch: “Il tracciato del Muro lo disegnai io non solo perché ero di leva: Mielke mi aveva preso in simpatia e dal 1960 mi aveva arruolato nella Stasi”.
Escalation. Tra il bambino delle dorifore e lo 007 della Ddr era passato più di un decennio. Nel frattempo i sovietici si erano rassegnati e avevano tolto il blocco a Berlino (11 maggio 1949); gli anglo-franco-americani avevano creato, come previsto, la Repubblica federale tedesca (23 maggio); infine i sovietici avevano risposto fondando la Repubblica democratica tedesca o Ddr (7 ottobre). In questo assetto, i settori occidentali di Berlino non avevano trovato una collocazione chiara: di fatto dipendevano dalla Germania federale, che però distava 200 km in linea d’aria. Berlino Ovest divenne così il posto più strano del mondo. La città usava come moneta il marco occidentale, ma affrancava le lettere con francobolli propri. I suoi abitanti non votavano per il Bundestag (Parlamento), erano esenti dal servizio militare e costavano all’erario federale un mare di sussidi, perché i posti di lavoro in città erano pochi.
Crocevia. Negli aeroporti berlinesi, poi, atterravano aerei della triade Pan American-British Airways-Air France, ma non quelli della Lufthansa, compagnia di bandiera di uno stato che la Ddr considerava ostile. Per tutti gli Anni ’50, comunque, di muri non si parlò. E Berlino Ovest divenne un crocevia di migrazioni: da occidente affluivano molti giovani, felici di sfuggire alla naja, mentre altrettanti adulti partivano per cercare altrove prospettive che l’ex capitale non offriva più. Ma quei flussi erano inezie in confronto all’immigrazione da est: fino al 1961 oltre due milioni di tedeschi orientali passarono a ovest, in parte via Berlino. Per l’Occidente erano tutti profughi politici, che sceglievano la libertà contro il comunismo staliniano. Visto da oriente, invece, l’esodo aveva tutt’altra chiave di lettura. “A passare a Ovest era soprattutto gente di livello professionale medio-alto, che aveva studiato nelle scuole gratuite della Ddr” dice Koch. “Poi, siccome i nostri titoli di studio erano riconosciuti anche a Ovest, decideva di passare dall’altra parte, dove gli stipendi erano più alti. In pratica la Germania Est era diventata un vivaio di cervelli, che creava a sue spese una classe dirigente di cui poi usufruiva la Repubblica federale. Fermare il salasso era una necessità vitale”.
Così, per “necessità vitale”, il confine tra Berlino Ovest e la Ddr, che dal 1952 in poi si era sempre più rinchiuso, nel 1961 diventò die Mauer. La divisione della città richiese una sola notte (12-13 agosto): di colpo quasi 200 strade urbane diventarono vicoli ciechi; 11 linee di metrò e 32 di tram furono interrotte; 65 mila pendolari dell’Est che lavoravano a Ovest, o viceversa, persero il posto. Eppure due mesi prima Walter Ulbricht, presidente della Ddr, aveva giurato: “A Berlino non vogliamo certamente costruire un muro”.
In fuga. La storia dei 28 anni che seguirono quella bugia è nota. A Ovest artisti famosi e semplici graffitari decorarono die Mauer con murales di protesta. A Est molti cercarono di sfondarlo con camion, sorvolarlo con ultraleggeri, sottopassarlo con tunnel. In fondo, la barriera voluta da Ulbricht non era insuperabile: se i tedeschi che fallirono il tentativo e persero la vita furono (forse) 239, ben 5 mila riuscirono a passare. La fuga più spettacolare, nell’ottobre 1964, coinvolse 57 persone, a bordo di silenti mongolfiere notturne.
Intanto, mentre il Muro altalenava fra tragedie e cilecche, suo “padre” Koch entrò in crisi: “Accadde quando la Stasi mi impose di divorziare da mia moglie Elke, che aveva contatti di lavoro con l’Occidente e quindi era ritenuta pericolosa” ricorda. “Obbedii, ma poi nel 1985 mi dimisi, trovai un posto come magazziniere e mi risposai: ancora con Elke, è ovvio”. Si badi: nel 1985 la Stasi non era più onnipotente; quell’anno ai vertici dell’Urss saliva Gorbaciov e il vento nuovo si sentiva fino a Berlino. Poi la Storia imboccò una scorciatoia e il 9 novembre 1989 Günther Schabowski, portavoce del governo Ddr, annunciò l’apertura delle frontiere. Una folla festante prese d’assalto il Muro e cominciò a farlo a pezzi: la guerra fredda era finita.
Il checkpoint Charlie, principale varco fra le due Berlino, restò formalmente in esercizio fino al 30 giugno 1990; e appena prima di mezzanotte Koch passò dai vopos che smontavano, facendosi timbrare per ultimo il passaporto. “Perché” spiega “un figlio che sbaglia resta figlio sino alla fine”.
Se volete approfondire le tappe che portarono alla costruzione del Muro di Berlino potete farlo sfogliando le pagine 18-24 del numero speciale di Focus Storia dedicato alla Guerra Fredda nella biblioteca dell’Antica Frontiera.