Augusto ancora oggi puoi incontrarlo nelle vie di Roma, nelle mura, negli archi, nelle statue. E anche nell’ormai smorto spirito imperiale che alla città aveva conferito un regime politico, quello del ventennio mussoliniano, in cui si era data al popolo l’illusione di poter rivivere le sepolte glorie diCaput mundi. Già il grande storico Arnaldo Momigliano, nella fatale estate del 1939 foriera di immani disastri, aveva tragicamente paragonato al colpo di Stato di Mussolini la conquista del potere di Augusto. E si poteva andare oltre confrontando la marcia su Roma dell’uno con quella dell’altro, essendo entrambi arrivati a primeggiare attraverso l’illegalità e la violenza.
Sulla tenue altura del Palatino, il luogo dove Romolo tracciò il solco, si erge tuttora intra pomoerium la sobria dimora di Augusto. A essa corrisposero le pompose residenze mussoliniane di palazzo Venezia e di villa Torlonia. L’abitazione di Augusto sorgeva accanto al tempio di Apollo, a dimostrazione della parentela che faceva del giovane principe il favorito del dio purificatore nell’abbattimento degli assassini di Cesare, suo prozio. Il legame s’innestava in una leggenda secondo la quale la madre Azia lo aveva messo al mondo fecondata da Apollo.
Nella spianata sottostante, al cospetto dell’antico Foro a lui intitolato, sorge una sua statua bronzea. Fu eretta da Mussolini nell’atto di tracciare la via dell’impero, da lui aperta con uno sventramento per collegare piazza Venezia al Colosseo e farne “la nuova via Sacra della nazione fascista” in quello spazio angusto ma sublime racchiuso fra il Palatino e l’Esquilino. Come Augusto, abbellendola, aveva adeguato Roma alla realtà dell’impero, così Mussolini cercava di fare afferrando il piccone dell’urbanista. Aveva preannunciato un suo programma di rinnovamento fin dai primi mesi del regime, proprio con un esplicito richiamo ad Augusto e alle tradizioni imperiali della città. Aveva detto che l’Urbe sarebbe nuovamente apparsa meravigliosa a tutte le genti del mondo: “Vasta, ordinata, potente, come era stata ai tempi del primo impero di Augusto”. E quindi, ad abbellimento avvenuto, l’Inno a Roma di Puccini esaltava i romani del ventennio come il Carmen saeculare di Orazio aveva frastornato i romani dell’età augustea. Alfine, dopo tanto tambureggiare, l’impero era effettivamente riapparso sui colli fatali di Roma. Le differenze erano enormi, ma bastava non andare per il sottile. E poi, diceva Mussolini, il fascismo aveva perfino battuto l’impero di Augusto prosciugando il lago Fucino e bonificando l’Agro Pontino: due imprese che al grande principe non erano riuscite.
Più oltre, verso altri luoghi più intimi della città, svetta un obelisco. Lo addusse Augusto a Roma da Eliopoli, e per il duce del fascismo fu verosimilmente l’ispirazione a innalzarne uno in marmo a sua gloria imperitura nel Foro a lui intitolato. In Campo Marzio si erge il gigantesco mausoleo che l’antico Dux Italiae fece costruire per se stesso, appena trentenne e ancor prima della vittoriosa battaglia navale di Azio, e poi diventato, con l’isolamento che lo rese visibile, il fulcro dell’urbanistica mussoliniana protesa a esaltare il mito di Roma e della romanità. Porre sotto i riflettori tali vestigia doveva indurre il popolo del ventennio a onorare come sacro il ricordo dell’impero romano risorgente in un nuovo assetto mondiale che si ricomponeva in una più vasta intesa con la Germania hitleriana. Non aveva ravvisato Max Weber in Augusto un princeps-Führer avanti lettera?
Non solo il grande sociologo, ma anche Mussolini aveva fatto ricorso a quel paragone. Lo aveva tuttavia fatto polemicamente, negli anni del dissidio, quando Hitler si accingeva a fagocitare l’Austria, e non trovava l’appoggio del fascismo. Il dittatore italiano contrapponeva la civiltà latina al nazismo. “Roma aveva Cesare, Virgilio, Augusto” diceva “quando le tribù germaniche erano in piena barbarie.” Poiché Hitler accusava Mussolini di non stare ai patti, il duce rispondeva che i germani di tutto potevano parlare, meno che di tradimenti. “I tedeschi” diceva ancora “hanno sempre tradito, da Arminio a Federico di Prussia.” Lo stesso titolo di Führer, che il piccolo caporale austriaco si era attribuito, appariva a Mussolini come un richiamo al condottiero, al princeps degli antichi e feroci germani di cui parlava anche Tacito, cioè ad Arminio. Il condottiero dei cherusci aveva tradito il legato romano Quintilio Varo presso la selva di Teutoburgo, sicché, come Augusto esclamava “Varo, rendimi le mie legioni”, così il Führer andava dicendo: “Mussolini, rendimi il mio Arminio!”. Sembrava che il clima si fosse rasserenato in coincidenza con il viaggio a Roma di Hitler nel ’38, ma in realtà quella visita non era che l’inizio di una sudditanza. Roma mostrava all’ospite abbellimenti e scenari di cartone verniciato a mo’ di bronzo, sicché Trilussa, ispirato profeta, commentò in versi la caduca trasformazione: “Roma de travertino, / rifatta de cartone, / saluta l’imbianchino, / suo prossimo padrone”.
Il duce del fascismo pensava all’estrema eventualità di trasformare il poderoso mausoleo di Augusto, ormai rudere, in un’austera tomba per se stesso e per i mussolinidi, ripudiando la Rocca delle Caminate come il princeps aveva ripudiato Velletri. E ne avrebbe voluto fare una tomba in cui accogliere le ceneri dei grandi, da se stesso a Starace.
Il freddo e scostante marmo dell’Ara Pacis, nella sua più che brutale solitudine voluta dal fascismo, offre nelle sculture un’idea immaginaria del principe che sovrasta chi gli si fa intorno, mentre in realtà la statura di Augusto era al di sotto della media. Ciò gli creava imbarazzo, e almeno in questo Mussolini gli somigliava. Il princeps è preceduto da littori, e le verghe dei fasces non potevano non diventare il simbolo dei fascisti che scomodavano Vico, la teoria dei corsi e ricorsi a sostegno della continuità di due regimi che si ritrovavano simili a distanza di duemila anni. E nel settembre del 1938 aveva solennemente celebrato il bimillenario della nascita del primo uomo della Provvidenza, fondatore del primo impero romano. Insomma Augusto veniva considerato un precursore di Mussolini, e proprio a cagione di ciò il bimillenario, per la salvaguardia dell’immagine storica dell’antico principe, non poteva cadere in un momento peggiore.
Molti sono i fanciulli ritratti nelle sculture dell’Ara Pacis, e anche questo era un elemento che avvicinava la politica demografica fascista a quella augustea. Mussolini si accaniva contro i celibi, e Augusto imponeva che la gente in età fertile – per i maschi il limite erano i sessant’anni – contraesse matrimonio. Mussolini diceva che il destino delle nazioni è legato alla loro “potenza demografica”, e osservava come l’impero romano fosse caduto a causa del calo della popolazione.
L’Ara Pacis rappresenta nei marmi una solenne processione inscenata per glorificare un Cesare, un secondo Cesare, e la storia doveva produrre in tutti i tempi e ovunque un numero infinito di Cesari, da cui l’espressione di “cesarismo”. Si sarebbero susseguiti Cesari veri e falsi, fino a un César de Carneval, come una volta un diplomatico si era spinto a definire quello fascista.
Come se Augusto stesso scrutasse nei secoli il trascorrere del cesarismo, ecco che appare nel Museo Capitolino un busto dell’imperatore dai tratti di sconvolgente bellezza. Possiamo credere al suo fascino, se glielo riconosce persino Svetonio, scrivendo che “forma fuit eximia et per omnes aetatis gradus venustissima”, fu di bello e avvenente aspetto in ogni periodo della vita. Un maggiorente della Gallia, che aveva in animo di sospingerlo in un burrone nel passaggio delle Alpi, rinunciò all’attentato placato al solo vederne da vicino il viso tranquillo e sereno. Lo sguardo era magnetico. Come Mussolini imponeva che si dicesse del proprio. Il duce romano e il duce del fascismo amavano credere che nei loro occhi ci fosse qualcosa di magico, anzi di divino.
Se poi il lettore scorrerà le pagine che seguono, potrà vedere quanto il fascismo abbia preso dall’antica Roma di Augusto, nella struttura dello Stato assolutista, nelle guerre di conquista, nell’organizzazione della gioventù, nella limitazione del potere elettorale dei cittadini. Su quest’ultimo punto uno dei massimi esponenti del regime mussoliniano, Giuseppe Bottai, esprime grande soddisfazione nel giustificare e nell’accogliere come saggia tale limitazione. La riduzione del potere elettorale decisa da Augusto, scrive il gerarca, era necessaria e logica: non era possibile che uno Stato, esteso su gran parte del Mediterraneo, venisse governato “con criteri democratici ed elettorali”. Ma se l’impero fondato da Augusto si protrasse per tre secoli, quello fascista non durò che un quinquennio. Tutto crollava troppo presto, e gli italiani, mentre perdevano la guerra, dovevano, affamati, tirare la cinghia fino all’ultimo buco, che con sarcastica pena chiamavano “Foro Mussolini”.
Se volete approfondire la vita del primo imperatore romano potete farlo sfogliando le pagine dell’interessante biografia scritta da Antonio Spinosa Augusto – Il grande baro nella biblioteca dell’Antica Frontiera.