Scomparso a Milano il 6 novembre 2007 Enzo Biagi è considerato uno dei giornalisti italiani più popolari del XX secolo. Fu anche scrittore e conduttore televisivo.
Dato che le poste italiane non hanno ancora commemorato la figura del grande giornalista bolognese lo facciamo noi con un francobollo di nostra ideazione, nella speranza di poterne vedere fra qualche anno uno ufficiale.
Era un piccolo albergo dal nome fiabesco: «La casa azzurra». Il colonnello vi alloggiava dalla fine della guerra. Suppongo, anche per i modi confidenziali della cameriera e, considerando le sue rendite di pensionato, che godesse di un trattamento amichevole. Ma dava in qualche modo decoro al locale.
Il colonnello conosceva le buone, vecchie famiglie di Monaco, era abbonato ai concerti e invitato ai ricevimenti, accoglieva ogni tanto qualche riservato gentiluomo che aveva avuto una certa parte nella Berlino di Hitler o addirittura in quella dell’imperatore.
Aveva fatto carriera per caso e, ironia, addirittura nelle SS. Si trovava a Roma dove studiava la storia della Chiesa quando arrivò Himmler: all’ambasciata tedesca si accorsero, all’ultimo momento, che mancava l’interprete. Chiesero il suo aiuto.
Non finì mai al fronte ma, anche con qualche divertimento, si mosse nei salotti aristocratici e nei comandi, tra generali, nobildonne, monsignori e gerarchi. Era un vaso di coccio e si proteggeva con il cinismo. Del resto aveva capito per tempo la fine dell’avventura.
Piaceva ai superiori, e lo si vedeva dal ritmo delle promozioni e dagli incarichi: doveva tradurre addirittura le conversazioni del Duce e del Führer. Li trovava drammatici e buffi: con gli intimi li chiamava «i promessi sposi».
Gli era simpatico invece il grosso Hermann Göring, il capo della Luftwaffe, che indossava divise strampalate, colore dominante il bianco, sfoggiava più decorazioni di un domatore; era furbo e spregiudicato: una specie di satrapo, molle e invadente che, dopo un banchetto con tripudi di cacciagione e di boccali di birra, apriva una cassetta e se la spassava a dividere i brillanti dai rubini e dagli smeraldi. «Un Marcantonio,» diceva il colonnello «ma senza Cleopatra.»
Alle pareti della sua stanza pendeva qualche riproduzione del Canaletto: scene di una Venezia lontana, maschere, gondole, dame in crinolina, popolane, bambini; c’è sempre in quelle tele, mi pare, un cagnetto che corre alla ricerca di un angolo. Nostalgia, forse.
Sul comodino, in una cornice d’argento, c’era la fotografia di un giovane e un po’ torvo attore del cinema, discinto e muscoloso come gli eroi delle pièces mitologiche. Si accorse che la osservavo con curiosità. «Un nipote» spiegò con disagio.
– Ha rimpianti, colonnello? Verrà ancora in Italia? – chiesi.
«Non bisogna mai ritornare dove si è stati felici» sospirò.
Ci ho ripensato, qualche volta.
Ho una spiccata propensione per i ricordi, e condivido quello che mi disse, durante una intervista, un famoso scrittore: «Invecchiare è quello che ho fatto di più importante nella vita».
La mia è passata in fretta: ieri ero un ragazzo, ma non posso recitare neppure le orazioni che mi ha insegnato mia madre e che ripetevo ogni sera. «Mio Dio, mi pento»: ma di che? Non mi sento colpevole di niente.
Un’ora non è la stessa cosa per tutti. Appartengo a una generazione che è stata segnata, purtroppo, dagli eventi: e mi incanta invece la gente normale, quella che festeggia gli anniversari, crede nei proverbi, nel risparmio, nelle vacanze e sa che nessuno è perfetto e che, prima o poi, si deve morire.
Sono stato testimone di alcune vicende che hanno cambiato le carte geografiche e il destino del mondo. Ero giornalista; e la cronaca ha scelto per me incontri e itinerari.
Ho girato in lungo e in largo l’America, ad esempio, ma non ho mai visto le cascate del Niagara.
Ho ascoltato Joséphine Baker, ormai al tramonto – era assurda, un po’ oscena, solo le cosce, lucide di sudore, suscitavano ancora maliziosi pensieri; forse lo capiva e invocava uno spettatore munito di binocolo: «Signore, conservi le sue illusioni» -, ma non sono mai entrato alle «Folies Bergère».
Ho conosciuto briganti e geni, santi e impostori, ma forse capita anche ai baristi, ai commessi viaggiatori o ai portieri d’albergo. Tutti hanno bisogno di parlare, di confidarsi: «Per favore,» disse l’uomo dalla faccia lentigginosa, una domenica, in un giardinetto «mi tocchi, mi faccia capire che sono vivo».
Quando finisce la stagione delle speranze si apre lo spazio per le memorie. Non sono il protagonista di un romanzo, e non tento bilanci; come quel nobile francese scampato alla rivoluzione, potrei dire: «Eccomi qui. Ho vissuto».
Una volta, sono disordinati i pensieri, mi mandarono a trovare un santone indiano che, sfuggito alle leggi della California, si era rifugiato, con un corteo di devoti, soprattutto giovani donne, a Katmandu.
Aveva una grande barba bianca e occhi spiritati. La tunica era ornata di gioielli e scintillava. Predicava il libero amore e, nei suoi limiti, lo praticava. Era contro le religioni, non credeva ai miracoli di Gesù, e il fatto che Cristo trasformò, alle nozze di Cana, i boccali d’acqua in vino dimostra che non era il figlio di Dio, ma un sofisticatore.
I fedeli lo ascoltavano con reverenza, le ragazze si offrivano alle sue carezze, riceveva doni e assegni: non se li è goduti. Mi sembrò un simpatico tipo di farabutto, ma non bisognerebbe mai giudicare. Sul marmo della tomba ha voluto che fosse scolpita una frase che, in fondo, rivela la sua distaccata saggezza: «Mai nato mai morto. Ha soltanto visitato il pianeta Terra».
Solo gli innocenti sentono il rumore dell’ erba che cresce. Ho mai visto qualcuno felice? Il ragazzino che mi disse: «Dio viene col vento», e il bambino cieco che rabbrividiva nel freddo e nella nebbia di novembre, su un argine del Po, durante un’alluvione. Piangeva: «Ho dimenticato il mio pallone», e un pompiere tornò indietro, nella casa invasa dall’acqua, e glielo portò. Il bambino lo accarezzava, inseguiva il rimbalzo della palla e rideva sgangheratamente.
Arrivai a Picunda che stava calando la sera. La spiaggia era sporca di sterpi anneriti, su un costone pascolavano vitelle magre. Ansimando, un camion si fermò vicino a una barca capovolta. Scesero le contadine russe e saltarono nell’acqua alzando le gonne: urlavano allegre.
Più lontano, c’erano una bellissima ragazza, alta e bruna, e un giovanotto forte: si tuffavano fra le onde schiumose, si spruzzavano, si baciavano, si sentivano soli e felici, la loro purezza era commovente. Sembrava davvero l’ultimo Eden; le api sui tigli, i gridi delle cicogne, fra i cespugli maturava l’uva spina. Mi sentivo leggero e lieto, lontano da tutto.
Istanti. I giorni che passai in Sudafrica, al Krüger Park. Mai le stelle, nelle lunghissime notti, mi sono apparse tanto vicine. E il mondo, attorno a me, così semplice e incontaminato, faceva pensare al paradiso terrestre.
I leoni, richiamati dall’odore della carne arrostita sulla brace, arrivavano a branchi e strisciavano contro le porte dei bungalow: sembravano grossi gatti che chiedono una carezza.
Gli impala annusavano l’aria, estatici e dolcissimi come gli animali dei cartoni animati; poi correvano tra gli arbusti, nell’erba secca della savana.
Vidi un imponente elefante che si era ubriacato con una scorpacciata di bacche rosse eccitanti; dondolava goffamente, era buffo, non minaccioso. Alcuni uccelli azzurri, verdi, bianchi si posavano sul collo delle giraffe. All’alba, le zebre, gli ippopotami, le scimmie si davano appuntamento al ruscello per l’abbeverata.
Navigai sul Mississippi, nelle grigie giornate d’autunno, quando le sponde scompaiono, dice un antico viaggiatore, «cancellate dal velo della lenta pioggia».
Il fiume era fermo e silenzioso nella nebbia, gonfio d’acqua gialla. I rimorchiatori trascinavano le chiatte cariche di grano, di rottami, di fusti di benzina. Li accompagnava, con il battito dei motori, il volo degli aironi e dei martin pescatore, il ronzio delle zanzare, il rumore lontano delle fabbriche o le urla dei ragazzi che giocano davanti alle fattorie.
Io ero solo, inseguivo il passato; quello dei battelli a vapore con la grande ruota che imbarcavano cercatori d’oro, cacciatori di pellicce, bari, biondine che esibivano le giarrettiere, domatori di cavalli, gentiluomini falliti, trafficanti d’anni, giocolieri e musicanti, pellegrini che sfuggivano alle persecuzioni.
Il piccolo palcoscenico, sui piroscafi, era illuminato dalle lampade a petrolio. Nei libri ricordano ancora le esibizioni della «bellissima Magnolia Revenol».
Chissà com’era? Che cosa ne sarà stato? Amante di un biscazziere, onesta sposa di un coltivatore di cotone?
Un pomeriggio di domenica a Varsavia, nel cadente Hotel Bristol; sentivo solo il cigolio del vecchio ascensore.
Sul comodino una Bibbia e l’elenco del telefono: quanti Walewski. C’era anche una Walewska Kunegonda e una Walewska Krystyna e addirittura una Walewska Lodovica Colonna.
Mi chiesi: «Questa è nobile; ma cosa fa oggi una contessa in Polonia?».
Composi il numero; rispose una voce gentile di donna.
– Parente? – chiesi.
Pensavo al volto bianco di Greta Garbo, a Maria Walewska e al Napoleone un po’ obeso del cinema, a slitte che corrono sulla neve verso castelli illuminati dalle fiaccole mentre i campanelli dei cavalli scuotono l’aria.
«Sì» disse. «Signore, che cosa vuole da me?»
Parlava il francese di chi ha fatto buoni studi.
– Mi piacerebbe vederla, incontrarla – dissi.
«Sente queste voci? Abito in un caseggiato popolare. Giocano a pallone, giù nel cortile. Niente nella mia casa suggerisce il passato.»
Un attimo di silenzio, di imbarazzo. Un orologio batté le ore: «Di allora è rimasta solo questa pendola, ha quasi due secoli. È inutile fermare le lancette».
Mi appassiona inseguire i fantasmi. Una piccola ricerca. Il 12 gennaio 1807, Napoleone Bonaparte inviava questo messaggio alla contessa Walewska: «Venite, vi prego, venite! Tutti i vostri desideri saranno esauditi. La vostra Patria mi sarà cara se avrete pietà del mio povero cuore. N.».
I personaggi della storia, quando scrivono alla diletta, sono impudichi come gli autori di canzonette. La signora, forse anche per servire il suo Paese, aderisce; e due giorni dopo l’imperatore soddisfatto replica con ulteriori invocazioni: «Maria, mia dolce Maria, il mio peno siero è per te, il mio primo desiderio è di rivederti. Ma tu ritornerai, non è vero? Me lo hai promesso. Sennò l’aquila volerà verso di te. N.».
Gli amanti, si sa, non hanno il senso del ridicolo: ecco un rapace che, indossato il camicione da notte, con stemmi e corone, volteggia per una stanza e piomba su un canapè. Giuseppina, Maria Walewska, Maria Luigia: ritornano le loro immagini nel vento e nella desolazione di Sant’Elena. Nessun cenno a una certa signorina Patterson che pure fu amica dell’ esule. La storia l’ha trascurata.
Donne: la più intollerabile crudeltà è dimenticarle.
Quello che avete letto è l’incipit del libro di Enzo Biagi L’albero dai fiori bianchi. Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.