Il grande monarca medievale - re di Sicilia, duca di Svevia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero - morì a Fiorentino di Puglia il 13 dicembre 1250.
Nato a Jesi il 26 dicembre 1194, apparteneva alla nobile famiglia sveva degli Hohenstaufen e discendeva per parte di madre dalla dinastia normanna degli Altavilla, regnanti di Sicilia. Era un uomo straordinariamente colto ed energico dotato di una personalità poliedrica e affascinante, parlava sei lingue (latino, siciliano, tedesco, francese, greco e arabo) e giocò un ruolo importante nel promuovere le lettere attraverso la poesia della Scuola siciliana.
Per ricordare lo Stupor Mundi ("meraviglia o stupore del mondo"), come veniva chiamato Federico nella sua epoca riprendendo un'antica tradizione romana riservata ai generali vittoriosi, abbiamo scelto il francobollo da 750 lire che le poste italiane gli dedicarono nel 1994 in occasione dell'ottavo centenario della sua nascita. Il francobollo riproduce la figura di Federico II tratta dal bassorilievo scolpito sul postergale dell'ambone della cattedrale di Bitonto, sec. XI-XII.
I sepolcri nel duomo di Palermo
I sarcofaghi di porfido rosso, nella navata laterale del Duomo di Palermo, testimoniano di un tempo in cui, per volere dei regnanti, la storia tedesca e quella siciliana furono intrecciate. Sotto i grevi baldacchini di pietra riposano il re normanno Ruggero II, sua figlia minore Costanza, il consorte di costei, Enrico VI del casato degli Hohenstaufen, e Federico II, loro figlio. Altri mausolei e altre nicchie sepolcrali ospitano la prima sposa di Federico, Costanza d’Aragona, come pure esponenti della dinastia aragonese. Originariamente posti accanto al coro, i sarcofaghi ebbero la loro collocazione attuale quando, ricostruita nel 1781 la cattedrale, essi furono aperti sotto la sorveglianza della regia sovrintendenza alle antichità. Secondo quanto riferiscono il principe Torremuzza e un altro testimone oculare, solo la salma di Federico era ben conservata; le ossa di Pietro d’Aragona e di una donna – presumibilmente sua moglie -, sistemate poi in un unico sepolcro, erano in avanzato stato di decomposizione. Federico, il quale giaceva sotto tutti gli altri, indossava un camice di lino ornato sugli orli da lettere cufiche dorate e, sopra il camice, una dalmatica di seta purpurea e un ampio manto rosso chiaro di seta spessa, pieno di decorazioni, adorno delle aquile imperiali, trattenuto da un fermaglio di ametista e smeraldi. I gambali degli stivali di seta erano ricoperti di ricami raffiguranti cervi. Un fodero saraceno custodiva la spada. Una corona incastonata di perle e pietre preziose cingeva il capo, accanto al quale, su un cuscino, posava il pomo imperiale, simbolo del globo, pieno di terra.
Basterebbe l’inconsueto abbigliamento mortuario di questo imperatore siculo-germanico, con i suoi elementi arabo-saraceni, per intendere che Federico ruppe le norme del Medioevo cristiano. È altresì accertato che egli stesso stabilì quali dovessero essere i suoi ultimi indumenti, così come nel testamento dispose che la sua salma fosse traslata a Palermo.
Eg1i aveva molto amato la Sicilia e la sua capitale Palermo. Qui era divenuto uomo, e i suoi anni siciliani, dopo il matrimonio con l’aragonese Costanza, erano stati forse i più felici della sua vita. Se cosi non fosse, non avrebbe fatto incidere nel 1222 sulla tomba della moglie una dicitura tanto affettuosa:
Sicanie Regina fui. Constancia conjunx
Augusta hic habitabo nunc Federice tua.
(Fui regina di Sicilia, Costanza, imperatrice
e sposa. Qui ora abiterò, Federico, tua.)
Federico non pronunciò mai più parole simili. E grande fu la sorpresa quando, all’apertura della bara nell’agosto del 1781, si rinvenne ai piedi della bionda Costanza riccamente vestita, una cassetta di legno contenente una corona, rivestita di stoffa d’oro con decorazioni di smalto e d oro, pietre preziose e ciondoli ai lati. Era la sua stessa corona che Federico aveva posto nella tomba della moglie. Oggi essa è custodita nella camera del tesoro della Cattedrale.
Federico mori il 13 dicembre 1250 a Castel Fiorentino, non lontano da Lucera. La sua guardia del corpo saracena lo trasportò attraverso le colline di Puglia fino al castello di Gioia del Colle e poi a Taranto. Un vascello traghettò la salma a Messina e da qui, per via di terra, il corteo funebre proseguì fino a Palermo. Federico voleva essere sepolto nella Cattedrale, in un sarcofago da lui stesso a ciò destinato, accanto, ai genitori normanno-tedeschi e alla prima moglie Costanza. Voleva tornare nel luoghi che gli erano più cari, là dove, trentotto anni innanzi, con la più grave decisione della sua vita, era partito per diventare imperatore tedesco.
In quei trentotto anni Federico divenne lo “stupor mundi et immutator mirabilis“, lo stupore del mondo e il miracoloso trasformatore come ebbe a scrivere Matteo da Parigi quando egli morì. Ma “stupor mundi” significa anche, secondo le concezioni medioevali, confusione e spavento provocati da colui che tenta di cambiare l’ordine costituito. A Palermo ebbe inizio ciò che per lo spazio di una generazione portò felicità e infelicità a Federico e al mondo, ciò che della figura di lui attrasse e inquietò, ciò che suscitò speranze che mossero il suo tempo e fallirono per insolubili contraddizioni.
Allorché sostai la prima volta dinanzi ai sarcofaghi di porfido nella Cattedrale di Palermo, ebbi a notare dei fiori davanti a quello di Federico II, un mazzo appassito di garofani e rose. A sette secoli di distanza, siciliani e pugliesi non lo hanno dimenticato. La sua memoria è rimasta viva: di lui ancora parlano i castelli da Catania a Bari, Melfi, Lucera e la dominante corona di pietra di Castel del Monte. La mia curiosità nacque agli inizi degli Anni Sessanta, mentre lavoravo alla stesura del mio libro sulla Sicilia. Questa curiosità non mi abbandonò: quanto più mi occupavo dell'”Imperatore di Sicilia”, tanto più restavo preso dalla figura, dalla universalità, dagli aspetti contrastanti della sua genialità.
I giudizi dei contemporanei su di lui recano prevalentemente l’impronta dei suoi avversari di parte papale e dei fautori di questi. D’altronde le stesse antinomie di Federico non facilitano la ricerca di una comprensione obiettiva della sua individualità, e anche gli storici moderni sono giunti a risultati discordanti, o col mettere in maggiore evidenza o col sopravvalutare l’uno o l’altro aspetto di lui, col darne un’interpretazione negativa. Per quanto mi riguarda, furono proprio i giudizi contrari espressi sull’unico genio tra i regnanti tedeschi a stimolarmi ancor più ad affrontare la biografia di quest’uomo. Ogniqualvolta la mia opinione si discosta da quella del biografi precedenti, io l’ho esposta senza pretendere di avere attinto la verità storica assoluta. Nessun’altra figura della storia europea consente una tale quantità e complessità di prospettive, di simpatie e antipatie.
Soprattutto mi stava a cuore scoprire le ragioni e i modi delle azioni di Federico, presentare lo svolgimento e l’arco vitale di un personaggio vissuto in una determinata epoca e in particolari condizioni. Ne emerge un ritratto e il tentativo di esaminarne lo sfondo nei punti di frattura: liberandolo dal pregiudizi mitizzati e storicizzati, si evidenziano modi di comportamento di singolare umanità, condizionati dal contesto storico, che nulla hanno perduto della loro attualità.
Di particolare importanza era, a mio avviso, la parte, piuttosto trascurata, riguardante l’origine materna e la formazione siculo-normanna di Federico. Il nipote del Barbarossa e del non meno significativo normanno Ruggero verrebbe assolutamente travisato se lo si considerasse soltanto erede degli Hohenstaufen o addirittura in un’ottica nazionale tedesca. Federico era siciliano e cittadino del mondo, se questo concetto si intende in rapporto alla immensa passione spirituale e politica del XIII secolo.
Ringrazio i molti amici e consiglieri che per vari anni hanno seguito e incoraggiato il mio lavoro: la loro assistenza mi ha fatto superare non poche difficoltà, fino alla conclusione del libro. Particolare gratitudine esprimo a mia moglie, che ha esaminato ogni pagina del manoscritto e condiviso il rischio di una lunga e spesso scomoda stesura. Dedico quest’opera a mio figlio Tito il cui interesse, crescendo con l’avanzare del lavoro, mi ha dimostrato che il temporaneo fastidio che la gioventù mostra per la storia è superabile o già superato. Narrata secondo un’ottica e una esperienza moderne, la storia non deve rammentare solo il passato. Fonte di ogni progresso è che nella nostra coscienza permanga ciò che un tempo fu azione e pensiero.
Quella che avete letto è l’introduzione del libro di Eberhard Horst Federico II di Svevia – L’imperatore filosofo e poeta, un vasto racconto biografico in cui lo scrittore tedesco analizza l’eccezionale, controversa e discussa personalità del re di Sicilia. Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.