Concetta si ritirò nella sua stanza; non provava assolutamente alcuna sensazione: le sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo che già avesse ceduto tutti gli impulsi che poteva dare e che consistesse ormai di pure forme. Il ritratto del padre non era che alcuni centimetri quadrati di tela, le casse verdi alcuni metri cubi di legno. Dopo un po’ le portarono una lettera. La busta era listata a nero con una grossa corona in rilievo: “Carissima Concetta, ho saputo della visita di Sua Eminenza e sono lieta che alcune reliquie si siano potute salvare. Spero di ottenere che Monsignor Vicario venga a celebrare la prima messa nella cappella riconsacrata. Il senatore Tassoni parte domani e si raccomanda al tuo bon souvenir. Io verrò presto a vederti e intanto ti abbraccio con affetto insieme a Carolina e Caterina. Tua Angelica.” Continuò a non sentir niente: il vuoto interiore era completo; soltanto dal mucchietto di pelliccia esalava una nebbia di malessere. Questa era la pena di oggi: financo il povero Bendicò insinuava ricordi amari. Suonò il campanello. “Annetta” disse “questo cane è diventato veramente troppo tarlato e polveroso. Portatelo via, buttatelo.”
Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida.
Questo è l’explicit de Il Gattopardo, il famoso romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa pubblicato un anno dopo la sua morte e diventato, dopo aver ricevuto il Premio Strega nel 1959, il primo best-seller italiano con oltre 100.000 copie vendute. Chi volesse continuare a leggerlo può trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.