1982. Scrittori e musicisti irlandesi. James Joyce. | 2000. Fine del millennio. IV emissione. James Joyce. |
Il 16 giugno è una festa laica in Irlanda. Il nome "Bloomsday" deriva dal cognome del protagonista del romanzo, Leopold Bloom. Inoltre, il 16 giugno è il giorno in cui Joyce e quella che sarà la sua compagna per tutta la vita, Nora Barnacle, si dettero il primo appuntamento, una passeggiata verso il villaggio di Ringsend.
I due francobolli da 48 c e da 65 c rappresentano rispettivamente una caricatura realizzata da Tullio Pericoli e una fotografia di Constantine Curran.
Scrittore irlandese nato a Dublino nel 1882, fu tra i massimi autori del Novecento, interprete fondamentale della corrente modernista. Dopo una prima fase in cui la sua scrittura evolse in stretta aderenza ai canoni espressivi tradizionali della prosa narrativa, animata - come magistralmente attesta la raccolta di racconti Dubliners (1914; trad. it. Gente di Dublino, 1933) - dai temi della stagnazione e dell'inettitudine umana al vivere, si allontanò da ogni convenzione formale e logica con Ulysses (trad. it. 1960), il romanzo che forse più ha inciso sulla storia della letteratura europea contemporanea. In quest'opera, lasciate liberamente fluire le costellazioni interiori del pensiero prima che esso si faccia parola - in ciò valendosi anche dei primi portati teorici della nascente psicanalisi - , Joyce rifondò il genere del romanzo facendovi assurgere a imprescindibile presenza l'individualità dell'orizzonte psichico umano colto all'interno della estraniante realtà del quotidiano; tale prospettiva troverà una sua quasi fisiologica estremizzazione in Finnegans wake (1939; trad. it. di Frammenti scelti nel 3º volume di Tutte le opere di James Joyce, 1961; dei primi quattro capitoli, 1982), opera in cui echeggia, atomizzata, tutta la cultura occidentale, e che sfugge a ogni possibile classificazione critica.
Dopo l'uscita di Finnegans Wake, sia per le dure critiche al romanzo che per l'invasione nazista di Parigi, la depressione di cui già soffriva Joyce si accentuò. Alla fine del 1940 si trasferì a Zurigo, dove l'11 gennaio 1941 venne operato per un'ulcera duodenale. Il giorno successivo entrò in coma e morì alle due di mattina del 13 gennaio 1941.
Per rendere omaggio al grande scrittore irlandese abbiamo scelto le tre emissioni che la sua madrepatria gli ha dedicato nel corso degli anni. Di ognuna di esse abbiamo indicato una breve descrizione sopra.
Questa volta per lui non c’era speranza: era il terzo attacco. Una sera dopo l’altra ero passato davanti alla casa (eravamo in vacanza), avevo studiato il riquadro illuminato della finestra e lo avevo sempre
visto illuminato nella stessa maniera, debolmente e uniformemente. Se fosse morto, pensavo, vedrei il riflesso delle candele sulla persiana abbassata, perché sapevo che si devono mettere due ceri al capezzale di un morto. Mi aveva detto spesso: “Non ne ho per molto in questo mondo”, e io, che avevo pensato che le sue parole fossero soltanto oziose, ora sapevo quanto fossero vere. Ogni sera, alzando gli occhi alla finestra, mi ripetevo sottovoce la parola “paralisi”. Era sempre suonata strana alle mie orecchie, come la parola “gnomone” in Euclide e la parola “simonìa” nel catechismo. Ma adesso mi sembrava come il nome di un essere malefico e peccaminoso, che mi riempiva di paura, ma che nello stesso tempo avrei voluto seguire da vicino per essere spettatore della sua opera mortale.
Il vecchio Cotter fumava, seduto vicino al fuoco, quando scesi per la cena e, mentre la zia mi metteva la minestra nel piatto, disse, come ritornando su una sua precedente osservazione:
“No, non direi che fosse proprio… ma c’era qualcosa di strano… qualcosa di misterioso in lui. Vi dirò la mia opinione…”
E cominciò a tirare boccate dalla pipa, senza dubbio rimuginando la sua opinione tra sé e sé. Vecchio sciocco noioso! All’inizio quando lo avevamo conosciuto, aveva suscitato in noi un certo interesse parlando di scarti di distillazione e di alambicchi, ma ben presto mi ero stancato di lui e delle sue storie senza fine sulle distillerie.
“Ho una mia teoria al riguardo,” riprese. “Penso sia stato uno di quei… particolari casi. Ma è difficile dire…”
Ricominciò a fumare la pipa senza dirci la sua teoria. Lo zio si accorse del mio sguardo fisso e mi disse:
“Be’, così il tuo vecchio amico se ne è andato; ti dispiacerà.”
“Chi?” chiesi.
“Padre Flynn.”
“E’ morto?”
“Il signor Cotter me l’ha appena detto. E’ passato di là.”
Sapevo di essere osservato, così continuai a mangiare come se la notizia non avesse suscitato in me nessun interesse. Lo zio spiegò al vecchio Cotter:
“Lui e il ragazzo erano grandi amici. Il vecchio gli insegnava tante cose, sapete. Sembra che lo avesse in gran simpatia.”
“Dio accolga la sua anima,” fece la zia, pietosa.
Il vecchio Cotter mi osservava. Sentivo su di me lo guardo acuto di quegli occhietti scuri e pungenti, ma non gli diedi la soddisfazione di alzare i miei dal piatto. Tornò alla sua pipa e infine sputò con disprezzo nel fuoco, dichiarando:
“Non mi piacerebbe che i miei ragazzi avessero troppo a che fare con un tipo simile.”
“Che cosa volete dire, Cotter?” chiese la zia.
“Voglio dire,” precisò il vecchio Cotter, “che sarebbe un male per loro. Sono dell’idea che un giovane deve andare a spasso e giocare con quelli della sua età e non diventare… Ho ragione, Jack?”
“Condivido il tuo principio,” convenne lo zio.
“Che impari a cavarsela. Glielo ripeto sempre a questo Rosacroce: fa’ del movimento. Quando ero ragazzo, tutti i santi giorni facevo un bagno freddo, inverno ed estate. E è per questo che sono ancora in gamba. L’istruzione sarà… una bella cosa, ma… Forse il signor Cotter ne prenderebbe volentieri un pezzetto, di quel cosciotto di montone,” aggiunse, rivolto alla zia.
“No, no, non per me,” si schermì il vecchio Cotter.
La zia prese il piatto di portata dalla credenza e lo mise in tavola.
“Ma perché pensate che non sarebbe bene per i ragazzi, signor Cotter?” chiese.
“E’ un male per loro,” disse il vecchio Cotter, “perché hanno delle menti molto impressionabili. Il vedere cose di questo tipo, voi mi capite, ha sui ragazzi un effetto…”
Mi riempii la bocca di minestra per paura di dare sfogo alla mia collera. Vecchio imbecille noioso dal naso rosso!
Era tardi quando mi addormentai. Nonostante ce l’avessi con il vecchio Cotter per avermi trattato da bambino, mi scervellai per riuscire a capire quelle sue frasi lasciate a metà…. Nel buio della mia stanza immaginai di rivedere il viso pesante e grigiastro del paralitico. Mi tirai le coperte sulla testa e provai a pensare a Natale. Ma il volto grigio mi seguiva ancora bisbigliando, e capii che voleva confessare qualcosa. Sentii la mia anima rifugiarsi in una contrada piacevole e viziosa e là ritrovavo la sua faccia ad aspettarmi. Cominciò a confessarsi a me sussurrando e, mentre parlava, mi chiedevo perché sorridesse continuamente e perché le sue labbra fossero umide di saliva. Ma poi mi ricordai che era morto di paralisi e mi accorsi che anch’io stavo sorridendo impercettibilmente, come per assolvere il simoniaco dal suo peccato.
La mattina seguente, dopo colazione, andai a dare un’occhiata alla casetta, in Great Britain Street. Era un negozio senza pretese, registrato sotto la vaga denominazione di “Merceria”. Le merci erano soprattutto calzature per bambini e ombrelli, e in genere in vetrina era appeso un cartello su cui era scritto: “Si ricoprono ombrelli”. Ma ora non si vedeva nessun avviso perché le imposte erano chiuse. Un mazzolino di fiori guarnito di crespo era legato al battacchio della porta con un nastro. Due donnette e un fattorino del telegrafo stavano leggendo il biglietto appuntato sul crespo. Mi avvicinai anch’io e lessi:
“Primo Luglio 1895, Reverendo James Flynn (già della chiesa di Santa Caterina in Meath Street), di anni 65. R.I.P.”.
La lettura del biglietto mi convinse che era morto, e mi sentii turbato per averlo constatato io stesso. Se non fosse morto avrei potuto andare nella cameretta buia nel retrobottega e lo avrei trovato seduto nella sua poltrona vicino al fuoco, quasi soffocato nella pesante palandrana. Forse la zia mi avrebbe dato un pacchetto di “High Toast” per lui, e questo omaggio lo avrebbe smosso dal suo torpore.
Ero sempre io a vuotargli il pacchetto nella tabacchiera nera, perché le mani gli tremavano troppo per permettergli di farlo da sé senza spargere una metà del tabacco sul pavimento. Anche quando avvicinava al naso la grossa mano tremante, nuvolette di polvere gli scivolavano tra le dita sul davanti della tonaca. Probabilmente erano proprio stati questi regolari spruzzi di tabacco a conferire ai suoi vecchi abiti sacerdotali quell’aspetto verdognolo sbiadito, dato che il fazzoletto rosso col quale provava a spazzolarsi via i grani caduti, pieno com’era sempre delle macchie di tabacco di un’intera settimana, era totalmente inefficace.
Sentivo il desiderio di entrare e di guardarlo, ma non avevo il coraggio di bussare. Perciò mi allontanai lentamente dalla parte assolata, leggendo, mentre passavo, gli avvisi teatrali nelle vetrine dei negozi. Pensavo che era strano che né io né la giornata sembrassimo in lutto, e ero perfino infastidito scoprendo in me un senso di liberazione, come se la sua morte mi avesse liberato da qualcosa. Questo mi stupiva perché, come aveva detto lo zio la sera prima, avevo imparato molte cose da lui. Aveva studiato presso il collegio irlandese a Roma e mi aveva insegnato a pronunciare il latino con proprietà. Mi aveva raccontato episodi sulle catacombe e su Napoleone Bonaparte, e mi aveva spiegato il significato dei diversi momenti della Messa, e anche dei diversi paramenti indossati dal sacerdote. A volte si divertiva a farmi delle domande difficili, chiedendomi che cosa si dovesse fare in certe particolari circostanze e se questo o quel peccato erano mortali, veniali o solo delle imperfezioni. Le sue domande mi dimostravano quanto complesse e misteriose fossero certe istituzioni della Chiesa che avevo sempre creduto che fossero dei semplici gesti. I doveri del sacerdote verso l’Eucarestia e verso il segreto della confessione mi parevano tanto gravi da meravigliarmi di come qualcuno avesse mai potuto trovare il coraggio di portarne il peso; e non rimasi sorpreso quando mi raccontò che i Padri della Chiesa avevano scritto volumi della mole dell’Annuario delle Poste, stampati poi a caratteri così piccoli quanto il notiziario legale sui giornali, per chiarire queste complicate questioni. Spesso, pensandoci, non riuscivo a trovare risposta o ne trovavo una molto sciocca e incerta, della quale lui sorrideva scuotendo la testa due o tre volte. Oppure mi faceva ripetere le risposte della Messa, che mi aveva fatto imparare a memoria; e, mentre le biascicavo meccanicamente, abbozzava un sorrisetto pensoso e faceva cenni con la testa, fiutando ogni tanto delle grandi prese di tabacco ora dall’una ora dall’altra narice. Nel sorridere mostrava una fila di grossi denti giallastri e lasciava pendere la lingua sul labbro inferiore, un’abitudine che mi aveva fatto sentire a disagio nei nostri primi incontri, quando non lo conoscevo ancora bene.
Mentre camminavo sotto il sole mi tornarono alla mente le parole del vecchio Cotter e mi sforzai di ricordare che cosa era accaduto dopo nel sogno. Rammentavo di aver notato delle lunghe cortine di velluto e una lampada di stile antico che oscillava. Sentivo di essere stato molto lontano, in un paese dalle strane abitudini, in Persia, pensai… Ma non mi veniva in mente la fine del sogno.
Quella sera la zia mi portò con sé per una visita alla casa del defunto. Era dopo il tramonto, ma i vetri delle finestre che davano verso ponente riflettevano l’oro bruno di un grande banco di nuvole.
Nannie ci ricevette in anticamera e, poiché sarebbe stato sconveniente parlare forte, la zia si limitò a darle una calorosa stretta di mano.
La vecchia indicò con sguardo interrogativo il piano superiore e, a un cenno della zia, cominciò a salire faticosamente la stretta scala davanti a noi, con la testa china che superava a malapena il corrimano. Sul primo pianerottolo si fermò e ci fece un gesto come per incoraggiarci ad avanzare verso la porta aperta della camera ardente.
La zia entrò e la vecchia, vedendomi esitare, riprese a farmi ripetuti gesti con la mano.
Entrai in punta di piedi. Attraverso l’orlo di pizzo della tendina si era diffusa per la stanza una cupa luce dorata in cui le candele sembravano pallide fiammelle. Era stato posto nella cassa. Nannie diede l’esempio, e tutti e tre ci inginocchiammo ai piedi del letto.
Facevo finta di pregare, ma non riuscivo a concentrarmi perché il borbottio della vecchia mi distraeva. Notai come era agganciata male la sua gonna sulla schiena e come i tacchi delle sue pantofole erano tutti consumati da una parte. Ebbi l’impressione assurda che il vecchio prete sorridesse, mentre giaceva là nella bara.
Ma no. Quando ci alzammo e ci avvicinammo al capezzale vidi che non sorrideva. Giaceva là solenne e imponente, vestito come se stesse per andare all’altare, tenendo mollemente un calice tra le grosse mani. La sua faccia sembrava arcigna, grigia e massiccia, con le narici nere e cavernose cerchiate di una rada peluria bianca. C’era un odore pesante nella stanza: i fiori.
Ci facemmo il segno della croce e venimmo via. Nella stanzetta al piano di sotto trovammo Eliza seduta nella poltrona del vecchio prete con aria solenne. Cercai a tentoni di dirigermi verso la mia solita sedia nell’angolo, mentre Nannie si avvicinava alla credenza e ne toglieva una bottiglia di “sherry” e alcuni calici, che mise sulla tavola invitandoci a prendere un bicchierino. Poi, su suggerimento della sorella, versò lo “sherry” nei bicchieri e ce li porse.
Insistette perché io prendessi anche un po’ di biscottini alla crema, ma dissi di no pensando che avrei fatto troppo rumore nel mangiarli.
Parve restare un po’ delusa dal mio rifiuto e raggiunse silenziosamente il divano, dove sedette dietro la sorella. Nessuno parlava: tutti guardavamo fisso il focolare spento.
La zia aspettò che Eliza sospirasse e poi disse:
“Be’, se ne è andato in un mondo migliore.”
Eliza sospirò ancora e chinò la testa in segno di assenso. La zia giocherellò col bicchiere prima di sorseggiare un po’ di “sherry”.
“E’… serenamente?” chiese.
“Oh, proprio serenamente, signora,” disse Eliza. “Non ci siamo nemmeno accorte di quando ha esalato l’ultimo respiro. Ha fatto una bella morte, ringraziando Dio.”
“E quanto ai…”
“Padre O’ Rourke è venuto martedì a dargli l’Estrema Unzione e a prepararlo.”
“Dunque sapeva?”
“Era completamente rassegnato.”
“Infatti, si vede,” convenne la zia.
“Lo ha detto anche la donna che é venuta a lavarlo. Secondo lei sembrava che stesse dormendo, tanto pareva tranquillo e rassegnato.
Nessuno avrebbe pensato che da morto avrebbe assunto un aspetto cosi composto.”
“Già, è vero,” disse la zia.
Bevve un altro sorso e aggiunse:
“Be’, signorina Flynn, comunque deve essere un gran conforto per voi sapere che avete fatto tutto quello che potevate. Siete state entrambe tanto care verso di lui, bisogna riconoscerlo.”
Eliza si lisciò il vestito sopra le ginocchia.
“Ah, povero James!” esclamò, “Dio sa che abbiamo fatto il possibile, povere come siamo; non avremmo voluto che gli mancasse niente mentre era in vita.”
Nannie aveva appoggiato la testa sul cuscino del divano e sembrava sul punto di addormentarsi.
“C’è la povera Nannie,” disse Eliza guardandola, “che è esaurita.
Tutto il lavoro che abbiamo avuto, lei e io, per trovare la donna che venisse a lavarlo, e poi vestirlo, la bara, e infine far dire la Messa in cappella. Se non ci fosse stato Padre O’ Rourke non so proprio come avremmo fatto. E’ stato lui a portarci tutti quei fiori e quei due candelieri dalla cappella, a scrivere l’annuncio per il “Freeman’s General” e a prendersi cura di tutte le formalità per il cimitero e per la riscossione dell’assicurazione del povero James.”
“Come è stato buono!” commentò la zia.
Eliza chiuse gli occhi e scosse lentamente la testa.
“Non c’è niente come i vecchi amici” dichiarò; “se non fosse per loro, nel momento del bisogno non troveresti nessuno di cui fidarti.”
“Proprio così,” disse la zia. “E sono certa che ora che è andato a
ricevere l’eterna ricompensa non si dimenticherà né di voi né delle vostre premure.”
“Ah, povero James!” fece Eliza. “Non ci dava gran disturbo. Non lo avreste sentito nella casa più di quanto non lo sentiate adesso.
Tuttavia so che se ne è andato e che tutto…”
“Quando tutto sarà finito, allora sì che sentirete la sua mancanza,” disse la zia.
“Lo so,” ammise Eliza. “Non gli porterò più il brodo nella sua tazza né voi, signora, gli manderete il tabacco. Povero James!”
Si interruppe, come se stesse parlando con il defunto, e poi aggiunse con aria accorta:
“Sapete, avevo notato che stava capitandogli qualcosa, ultimamente. Ogni volta che gli portavo la zuppa, lo trovavo riverso sulla sedia con la bocca aperta e il breviario per terra.”
Si mise un dito sul naso e corrugò le sopracciglia; poi continuò: “Nonostante questo, continuava a ripetere che prima che fosse finita l’estate sarebbe uscito in una bella giornata per fare una passeggiata in carrozza. Voleva rivedere la vecchia casa di Irishtown dove siamo nati tutti noi, e diceva che avrebbe portato con s‚ me e Nannie. Se avessimo solo potuto trovare qui di fronte, da John Rush, una di quelle nuove vetture imbottite che non fanno rumore, di cui Padre O’Rourke gli aveva parlato, quelle con le ruote gommate, da noleggiare per un giorno, avremmo potuto andarci tutti e tre una domenica sera.
Era proprio una fissazione… Povero James!”
“Dio abbia misericordia della sua anima!” commentò la zia.
Eliza tirò fuori il fazzoletto e si asciugò gli occhi. Poi lo rimise in tasca e fissò il fuoco spento per qualche istante senza parlare.
“E’ sempre stato troppo scrupoloso,” riprese. “I doveri del sacerdozio erano troppo pesanti per lui. E poi la sua vita fu, come dire, contrastata.”
“Sì,” confermo la zia. “Era un uomo deluso. Lo si vedeva.”
Un silenzio cadde nella stanzetta e, approfittandone, mi avvicinai alla tavola per assaggiare il mio “sherry”; poi ritornai tranquillamente alla mia sedia nell’angolo. Eliza sembrava assorta in un profondo fantasticare. Aspettammo rispettosamente che fosse lei a rompere il silenzio: infatti, dopo una lunga pausa, disse lentamente: “Fu per quel calice che ruppe… Tutto iniziò da lì. In effetti dissero che era una cosa senza conseguenze, che il calice non conteneva niente, voglio dire. Eppure… Diedero la colpa al chierichetto. Ma il povero James era così nervoso, Dio abbia pietà… di lui!”
“E dipese da ciò?” domandò la zia. “Avevo sentito dire qualcosa…”
Eliza fece un cenno affermativo col capo.
“Diventò un’idea fissa per lui,” aggiunse. “Da allora iniziò a chiudersi in se stesso, a non parlare con nessuno e ad andare in giro da solo. Finché una sera vennero a cercarlo per una chiamata e non riuscirono a trovarlo in nessun posto. Guardarono da tutte le parti, ma non ne trovarono traccia. Poi il sagrestano suggerì di provare nella cappella e lui, Padre O’ Rourke e un altro prete che si trovava lì portarono una lampada per cercarlo. E dove pensate che fosse, se non là, solo nel buio del confessionale, perfettamente sveglio e ridacchiando tra sé e sé?”
Si fermò improvvisamente come per ascoltare. Ascoltai anch’io, ma nessun suono si sentiva nella casa. E sapevo che il vecchio prete giaceva ancora là… nella sua bara nella posizione in cui lo avevamo visto noi, solenne e arcigno nella morte, con un inerte calice posato sul petto.
Eliza riprese:
“Perfettamente sveglio e ridacchiando da solo. E allora, logicamente, quando videro questo, loro capirono che c’era qualcosa in lui che non andava…”
Quello che avete letto è il primo racconto, intitolato Le sorelle, del libro di James JoyceGente di Dublino. Questa raccolta fu pubblicata originariamente da Grant Richards nel 1914, dopo essere stata rifiutata da molte case editrici. La maggior parte dei racconti viene scritta da Joyce fra il 1904 e il 1905, nel 1906 vengono aggiunti I due galanti e Una piccola nube, mentre il racconto più famoso, I morti, è del 1907. I protagonisti del libro sono persone di Dublino, di cui vengono narrate le loro storie di vita quotidiana. A dispetto della banalità del soggetto, il libro vuole focalizzare la propria attenzione su due aspetti, comuni a tutti i racconti: la paralisi e la fuga. La prima è principalmente una paralisi morale, causata dalla politica e dalla religione dell’epoca. La fuga è conseguenza della paralisi, nel momento in cui i protagonisti comprendono la propria condizione. La fuga, tuttavia, è destinata a fallire sempre. Le storie inoltre seguono una sequenza tematica e possono essere suddivise in quattro sezioni, una per ogni fase della vita: l’infanzia (Le sorelle, Un incontro, Arabia); l’adolescenza (Eveline, Dopo la corsa, I due galanti, Pensione di famiglia); la maturità (Una piccola nube, Rivalsa, Polvere, Un caso pietoso); la vita pubblica (Il giorno dell’Edera, Una madre, La grazia). Alla fine è presente un epilogo, I morti, dal quale è stato tratto un film per la regia di John Huston nel 1987.
Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.