Scrittore russo, dopo aver studiato a Mosca e a Marburgo, esordì con alcune raccolte di liriche (Il gemello tra le nuvole, 1914; Mia sorella la vita, 1917) e poemi (L'anno 1905, 1926, Il luogotenente Schmidt, 1927) che si segnalano per il sapiente uso della lingua e la musicalità del verso. Dopo alcuni racconti, ottenne un riconoscimento internazionale con il romanzo Il dottor Živago (1946-55), pubblicato per la prima volta in Italia nel 1957, sofferta e critica rievocazione del periodo rivoluzionario attraverso la figura del medico protagonista. Fortemente osteggiato in URSS, gli fu impedito di ritirare il premio Nobel (1958). Fu anche apprezzato traduttore di W. Shakespeare, J. W. Goethe, R.M. Rilke, ecc.
Per rendere omaggio al grande scrittore moscovita abbiamo scelto proprio il francobollo che l'Unione Sovietica, un tempo sua grande nemica, gli dedicò nel 1990 in occasione del centenario della sua nascita. L'esemplare bluastro da 15 kopechi fa parte della prima serie dedicata ai vincitori russi del premio Nobel per la letteratura.
PARTE PRIMA.
IL DIRETTO DELLE CINQUE.
1.
Andavano e sempre camminando cantavano “eterna memoria”, e a ogni pausa era come se lo scalpiccìo, i cavalli, le folate di vento seguitassero quel canto.
I passanti facevano largo al corteo, contavano le corone, si segnavano. I curiosi, mescolandosi alla fila, chiedevano: «Chi è il morto?» La risposta era: «Zivago.» «Ah! allora si capisce.» «Ma non lui. La moglie.» «E’ lo stesso. Dio l’abbia in gloria. Gran bel funerale.»
Scoccarono gli ultimi minuti, scanditi, irrevocabili. «La terra del Signore e la sua creazione, l’universo e ogni cosa vivente.»
Il prete nel gesto della benedizione gettò un pugno di terra su Màrija Nikolàevna. Fu intonato «Con gli spiriti giusti». Poi tutto prese un ritmo spaventoso. La bara fu chiusa, inchiodata, calata nella fossa. Tambureggiò la pioggia delle palate di terra, rovesciata in fretta, con quattro vanghe, sulla cassa, finché non si formò un piccolo tumulo. Sopra vi salì un ragazzo di dieci anni.
Soltanto quello stato d’inebetito torpore, che di solito prende alla fine d’ogni imponente funerale, poté creare l’impressione che il bambino volesse tenere un discorso sulla tomba della madre.
Lui sollevò la testa e dal tumulo abbracciò con sguardo assente i deserti spiazzi autunnali e le guglie del monastero. Il suo volto camuso si contrasse. Il collo si protese. Fosse stato un lupacchiotto a levare il capo in quell’atto, c’era da credere che avrebbe preso a ululare. Il ragazzo si coprì la faccia con le mani e scoppiò in singhiozzi. Muovendo verso di lui, una nube cominciò a colpirlo sulle mani e sul viso con le umide sferze di un gelido scroscio. Alla tomba si avvicinò un uomo, in nero, con le maniche strette che tiravano ai gomiti. Era il fratello della morta e zio del fanciullo che piangeva, il sacerdote Nikolàj Nikolàevich Vedenjapin, ridotto allo stato laicale a propria richiesta. Si accostò al ragazzo e lo condusse via.
2.
Trascorsero la notte al monastero, in una cella che era stata riservata allo zio, come a
persona lì ben nota da tempo. Era la vigilia dell’Intercessione della Vergine.
L’indomani sarebbero dovuti partire per un lungo viaggio verso il sud, fino a un capoluogo di provincia del Volga, dove padre Nikolàj era impiegato presso una casa editrice, che pubblicava il giornale progressista della zona. Avevano già acquistato i biglietti per il treno e riunito nella cella il loro bagaglio. Nelle vicinanze, dalla stazione il vento portava i fischi lamentosi delle locomotive che facevano manovra lontano.
Verso sera vi fu un brusco sbalzo di temperatura. Due finestre a livello del suolo davano su uno squallido angolo d’orto, circondato da gialli arbusti d’acacia, sulle pozzanghere gelate della strada e su quel lembo di cimitero dove la mattina avevano seppellito Màrija Nikolàevna. Tranne alcune aiuole, marezzate di cavoli illividiti dal freddo, l’orto era spoglio. Quando irrompeva il vento, i rami nudi delle acacie si dimenavano come ossessi, piegandosi fin sulla strada.
Un colpo alla finestra destò Jurij durante la notte. L’oscura cella era magicamente illuminata da una guizzante luce bianca. Jura corse in camicia alla finestra e appoggiò il viso al vetro gelido.
Fuori non c’era più la strada, né il cimitero, né l’orto: solo la tormenta che infuriava, l’aria fumigante di neve. Quasi che la tormenta si fosse accorta del ragazzo e, consapevole del proprio terrificante potere, godesse dell’impressione che gl’incuteva.
E fischiava e ululava, tutta affannata a richiamare la sua attenzione. Dal cielo, sdipanandosi giro su giro da matasse senza fine, un bianco ordito cadeva sulla terra avvolgendola in un sudario. Non era rimasta che la tormenta al mondo, sola e incontrastata.
Il primo impulso di Jura, scendendo dal davanzale, fu di vestirsi e di correre in istrada: occorreva fare qualcosa. Ora lo angosciava l’idea che la neve seppellisse i cavoli del monastero prima che non si potessero più raccogliere; ora il pensiero della madre, là, in quel campo, ricoperta dalla neve, senza più forze per resisterle, mentre sprofondava sotto terra, sempre più giù, ancora più lontano da lui.
Ruppe nuovamente in lacrime. Lo zio si svegliò, gli parlò di Cristo e lo consolò, poi sbadigliando si accostò alla finestra e rimase a guardar fuori pensieroso.
Cominciarono a vestirsi. Era quasi l’alba.
3.
Finché fu viva la mamma, Jura ignorava che il babbo li aveva da tempo abbandonati, che viaggiava per le città della Siberia e all’estero, conducendo una vita dissoluta e che aveva finito con lo sperperare un patrimonio di milioni. A Jura avevano sempre detto che si trovava a Pietroburgo, o a qualche fiera, quasi sempre la fiera di Irbìtsk.
Poi, alla mamma, che non era mai stata in buona salute, si manifestò la tisi. Per curarsi prese allora a viaggiare nel sud della Francia e nell’Italia settentrionale, dove Jura l’accompagnò per due volte. Così era trascorsa la sua infanzia, disordinatamente e in mezzo a continui misteri, spesso affidato a gente estranea, sempre diversa. Ma si era abituato ai cambiamenti e, in quella situazione di perenne provvisorietà, l’assenza di suo padre non lo stupiva.
Bambino, aveva potuto ancora conoscere i tempi in cui col nome che portava, si designavano un’infinità di cose, le più disparate.
C’era la manifattura Zivago, la banca Zivago, le case Zivago, il nodo alla cravatta e con la spilla appuntata alla Zivago, c’era persino un dolce di forma rotonda, una specie di babà al rhum, che si chiamava anch’esso Zivago; e per un certo tempo a Mosca gridare a un vetturino: «da Zivago!» equivaleva né più né meno che a dirgli: «a casa del diavolo!»; e infatti il vetturino vi avrebbe trasportato con la sua slitta in capo al mondo, nel regno di Oga e Magoga. Lì vi accoglieva un parco silenzioso. Sui rami pendenti degli abeti si posavano i corvi, facendone piovere la brina. Si udiva all’intorno il loro gracchiare, echeggiante come lo schianto ligneo d’un ramo. Cani di razza accorrevano dalla dimora di recente costruita, traversando la strada che tagliava il bosco. Laggiù si accendevano luci, scendeva la sera.
D’improvviso, tutto questo svanì. Erano diventati poveri.
4.
Nell’estate del ‘103, Jura e lo zio si recavano attraverso i campi, su un “tarantàs” a due cavalli, a Dupljanka, la tenuta di Kologrivov, fabbricante di seta e protettore delle arti, per far visita a Ivàn Ivànovich Voskobòjnikov, cultore di pedagogia e autore di opere divulgative.
Era il giorno della Madonna di Kazàn’, nel pieno della mietitura. Poiché era l’ora del pranzo o forse perché giorno festivo, nei campi non s’incontrava anima viva. Il sole ardeva sulle strisce non ancora mietute, come nuche, rasate in mezzo, di detenuti. Sui campi volteggiavano gli uccelli. A spighe ripiegate il grano s’irrigidiva in file serrate, nella più assoluta fissità, o laggiù, lontano dalla strada, si drizzava in covoni, che a guardarli per un po’ finivano col dare la sensazione di figure in movimento, quasi agrimensori che camminassero sulla linea dell’orizzonte annotando qualcosa.
«E quelli?» domandò Nikolàj Nikolàevich a Pavel, uomo di fatica e custode della casa editrice, il quale sedeva a cassetta di traverso, curvo, con le gambe accavallate, come a dimostrare che lui non era proprio un cocchiere e che, se guidava, non era certo per vocazione. «Di chi sono, dei signori o dei contadini?»
«Quelli, dei signori,» rispose Pavel accendendo per fumare, «mentre invece questi,» e, dopo una lunga pausa, il tempo per accendere e fare una tirata, indicò nell’altra direzione con l’estremità della frusta, «questi sono nostri. Ehi, dormite?!» gridò, come faceva di tanto in tanto, ai cavalli, di cui durante tutto il tempo continuava a sorvegliare con la coda dell’occhio le groppe, come un macchinista i manometri.
Ma i cavalli tiravano come tutti i cavalli del mondo, e cioè quello di stanga correva con l’innata onestà di una natura semplice, mentre l’altro, il bilancino, poteva apparire a un profano un lavativo di tre cotte che, inarcando il collo a cigno, sembrava non sapesse far altro che ballare su e giù al tintinnio delle sonagliere scosse dai suoi stessi balzi.
Nikolàj Nikolàevich portava a Voskobòjnikov le bozze di un suo libro sulla questione agraria, che la casa editrice, di fronte all’accresciuta pressione della censura, gli aveva
chiesto di rivedere.
«Qua il popolo fa dei brutti scherzi, eh?» disse Nikolàj Nikolàevich. «Nel “volost” di Pan’kov hanno sgozzato un mercante, al capo dello “zemstvo” hanno incendiato la scuderia. Tu che ne pensi? Che si dice da voi in campagna?»
Ma scoprì che per Pavel le cose erano ancora più nere di quanto non le vedesse il censore incaricato di moderare i bollori agrari di Voskobòjnikov.
«Cosa dicono? Che si sono allentate le briglie al popolo. Dicono che lo hanno viziato troppo. Credete che si può far così con noialtri? Da’ la libertà ai contadini e quelli, qui, si ammazzano tra loro, com’è vero Dio. Ehi, dormite?»
Era la seconda volta che zio e nipote si recavano a Dupljanka. Jura credeva di ricordare la strada e ogni volta che i campi si allargavano e i boschi li abbracciavano, con un sottile orlo, gli sembrava di riconoscere il posto ove la strada doveva poi svoltare a destra, mostrarsi alla curva, e, dopo un minuto, apparire il panorama della tenuta di Kologrìvov, di una decina di “verste”, col fiume che scintillava lontano e la linea ferroviaria che lo costeggiava lungo l’altra riva. Ma ogni volta si sbagliava. I campi si succedevano ai campi, e di nuovo i boschi che li abbracciavano. L’anima s’accordava al largo ritmo di quel susseguirsi di vaste distese. Si provava il desiderio di sognare, di perdersi nell’avvenire.
Nessuno dei libri che in seguito avrebbero reso celebre Nikolàj Nikolàevich era stato ancora scritto. Ma le sue idee erano già definite. Egli non sapeva quanto fosse vicina la sua ora.
Presto fra gli esponenti della letteratura d’allora, i professori d’università e i filosofi della rivoluzione, doveva emergere quest’uomo, che meditava i loro medesimi problemi e pure, eccezion fatta per la terminologia, non aveva nulla in comune con loro. Tutti gli altri, nel loro dogmatismo, si contentavano di frasi e di apparenze: padre Nikolàj era un prete che, passato attraverso il tolstoismo e la rivoluzione, si spingeva sempre più oltre. Mirava a un pensiero elevato e, insieme, concreto, capace di tracciare una strada precisa e inequivocabile nel suo procedere, che migliorasse il mondo e fosse chiaro anche ai fanciulli e agli sciocchi, come sono evidenti il balenare di un lampo o il rimbombo del tuono che s’allontana. Era un uomo che anelava a un mutamento delle cose.
Jura si sentiva a suo agio con lo zio, così simile alla mamma, come lei libero, spoglio di prevenzioni contro quanto non è abituale. E come lei, anche lo zio capiva tutto al primo sguardo, e sapeva esprimere i pensieri nella stessa forma in cui salgono alla mente, quando sono ancora vivi e non hanno perduto il loro senso.
Jura era contento che lo zio lo avesse portato a Dupljanka. Tutto era bello laggiù e anche la pittoresca bellezza del paesaggio ricordava la mamma, che amava la natura e spesso lo conduceva con sé nelle sue passeggiate. Inoltre, a Jura faceva piacere incontrare nuovamente Nika Dudorov, un ginnasiale che abitava da Voskobòjnikov, il quale però aveva due anni più di lui, e certo lo disprezzava: salutando, abbassava con forza la mano che stringeva e piegava la testa in modo che i capelli gli cadevano sulla fronte a nascondergli metà viso.
Quelli che avete letto sono i primi quattro capitoli del romanzo di Boris Pasternak Il dottor Živago, pubblicato in anteprima mondiale in Italia nel 1957 dalla Casa Editrice Feltrinelli.
Vi si narra la vita di un medico e poeta, Jùrij Andrèevič Živàgo, diviso dall’amore per due donne e coinvolto nel turbine della rivoluzione di ottobre.
Il romanzo fu pubblicato in Russia solo nel 1988 perché a lungo osteggiato dal regime comunista e fu l’unico scritto da Pasternak. Grazie al suo unico romanzo, Pasternak meritò il premio Nobel per la letteratura pochi anni prima della sua morte, che però non poté mai ritirare per l’opposizione del governo di Chruščёv.
Nel 1965 dal romanzo fu tratto il film omonimo.
Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.