Nato a Pescara il 12 marzo 1863, dopo aver pubblicato una prima raccolta di versi (Primo vere) nel 1879, si trasferì a Roma (1881) iniziando una intensissima attività artistica e mondana, permeata di estetismo e superomismo. Durante il suo soggiorno romano videro la luce romanzi (Il piacere, 1889; L'innocente, 1892; Il trionfo della morte, 1894; La vergine delle rocce, 1895; Il fuoco, 1900), tragedie (La città morta, 1898; La figlia di Iorio, 1904; La fiaccola sotto il moggio, 1905) e libri di poesie (Intermezzo di rime, 1883; La chimera, 1890; Il poema paradisiaco, 1894; Laudi, 1903-1904). Costretto nel 1910 a trasferirsi in Francia per sfuggire ai creditori, rientrò in Italia in tempo per partecipare alla battaglia interventista. Dopo aver preso parte eroicamente alla Prima guerra mondiale, nel 1919 si pose a capo di un irrequieto gruppo di reduci per occupare la città di Fiume assegnata alla Iugoslavia dal trattato di Versailles, ma l'impresa, avversata dal governo italiano, durò pochi mesi. Ritiratosi nel 1921 a Gardone, nella villa da lui chiamata Vittoriale, guardò con favore al fascismo e morì dopo un lungo periodo di splendido, ma in fondo patetico isolamento, tentando fino all'ultimo di realizzare quella fusione tra arte e vita che fu il sogno di tanti artisti decadenti.
Le poste italiane hanno ricordato la figura del Vate in cinque diverse occasioni, di ognuna delle quali abbiamo pubblicato l'immagine e una breve descrizione sopra.
GABRIELE D’ANNUNZIO nacque a Pescara il 12 marzo 1863 da famiglia borghese di modeste origini, che viveva di rendita grazie alla ricca eredità dello zio Antonio D’Annunzio (il padre, che dissipò tutto l’ingente patrimonio, si chiamava in realtà Francesco Paolo Rapagnetta, ma aveva assunto il cognome D’Annunzio per essere stato adottato dal suddetto zio). A undici anni Gabriele fu inviato al Collegio Cicognini di Prato, dove compì gli studi brillantemente (ma con una condotta indisciplinata, non rispettosa delle severe norme del collegio) fino alla licenza liceale, conseguita nel 1881. Rivelò una precoce passione per la letteratura e insieme una incontenibile smania di imporsi, di primeggiare, di mostrare le proprie doti, e già negli anni di collegio pubblicò a spese del padre, sotto il nome di Floro Bruzio, la sua prima raccolta poetica,Primo vere (1879), che ebbe un buon successo e gli aprì la strada alla collaborazione ai giornali letterari del tempo. All’ultimo anno di collegio risale l’amore per la fiorentina Giselda Zucconi, che diede luogo a una fitta corrispondenza. Dopo aver trascorso l’estate 1881 in Abruzzo (stringendo un’amicizia per lui molto importante con il pittore Francesco Paolo Michetti, 1851-1929, di cui fu ospite a Francavilla), il giovane Gabriele, ambizioso e brillante, elegante e curato nella persona, si trasferì a Roma, iscrivendosi alla facoltà di lettere (ma non portò mai a termine gli studi universitari) e soprattutto gettandosi nel vortice della vita letteraria, giornalistica e mondana: collaborò allora al «Capitan Fracassa», alla «Cronaca bizantina», al «Fanfulla della Domenica», alla «Tribuna», con testi poetici, narrativi, critici, polemici, con maliziose cronache di vita mondana (pubblicate sotto vari pseudonimi). In brevissimo tempo si conquistò un ruolo di protagonista nella vita culturale romana, sfruttando nel modo più intelligente il mercato librario e giornalistico: in quella dimensione frivola e avventurosa, tra amori e frequentazioni di salotti aristocratici, tra avventure e vagabondaggi, egli utilizzò la propria abilità e raffinatezza di poeta come strumento di successo mondano, trovandosi a sovrapporre immediatamente vita e letteratura; animato dalla brama di affermarsi, dal desiderio di immergersi in esperienze di ogni tipo, costruì molto presto intorno a sé il mito di una vita intesa come opera d’arte, di un’esistenza all’insegna della bellezza.
Dopo il buon esito di due libri pubblicati nel 1882 dal Sommaruga, Canto novo e Terra vergine, l’autore entrò in un vortice di eventi clamorosi, che trovarono un primo coronamento erotico-mondano nella fuga e nel matrimonio (28 luglio 1883) con la duchessina Maria di Gallese (nonostante l’opposizione dei parenti di lei): ne nasceranno tre figli, ma l’unione resisterà, fra tradimenti e sempre nuovi innamoramenti del poeta, solo fino al 1890. Attentissimo ad assimilare le maggiori novità poetiche, artistiche e musicali europee, soprattutto quelle di impronta estetizzante e decadente, D’Annunzio seppe orchestrare attorno alle opere che veniva producendo tutta una serie di iniziative pubblicitarie e spettacolari, che spingevano il mondo giornalistico a parlare comunque del giovane scrittore, a tener desta su di lui l’attenzione del pubblico (cosi il volume Intermezzo di rime, scatenò un’accesa polemica per la sua «inverecondia»). Questa giovinezza romana, dedicata al piacere e alla conquista del successo, trascorse tra una varia produzione poetica, novellistica, giornalistica, avventure erotiche, vacanze in Abruzzo e altri viaggi (come una crociera nell’Adriatico compiuta nell’estate 1888), polemiche e duelli, a cui fu data conveniente risonanza. Al vertice di questa fase c’è il romanzo «romano», pieno di risvolti autobiografici, Il Piacere (1889). A Roma lo scrittore prestò anche servizio militare, in condizioni però privilegiate, presso la caserma Macao, tra il novembre ’89 e il novembre ’90: intanto le energie erotico-mondane di D’Annunzio trovavano modo di scatenarsi in una relazione – fatta di travolgente passione, di contrasti, di fughe e di vacanze a due – con Barbara Leoni, incontrata nell’aprile 1887; ma nel contempo crescevano pericolosamente i suoi debiti, dovuti alla vita brillante e dissipata.
L’assedio dei creditori lo convinse nel 1891 ad allontanarsi prudentemente da Roma: dopo un lungo soggiorno a Francavilla, si trasferì con l’amico Michetti a Napoli, dove restò un paio d’anni, vivendo un periodo che egli definì di «splendida miseria»: collaborò allora ai giornali locali (in primo luogo al «Mattino » di Scarfoglio) e avviò una nuova relazione con la principessa Maria Cruyllas, sposata a un ufficiale dell’esercito (la donna abbandonò il marito, andando a vivere col poeta, da cui ebbe una figlia; e nel 1893 i due subirono una leggera condanna per adulterio). Per le difficoltà economiche, aggravate dai debiti lasciati dal padre, morto nel giugno 1893, alla fine dell’anno D’Annunzio dovette abbandonare anche Napoli: ritiratosi in Abruzzo, ancora presso Michetti, portò a termine nell’aprile del 1894 il Trionfo.della morte, che segna il punto più alto del suo nuovo impegno nel genere del romanzo dopo Il Piacere (anche nel campo della poesia quegli anni avevano dato nuovi risultati, culminati nel Poema paradisiaco, 1893). Intanto il suo nome e i suoi testi cominciavano a circolare anche fuori d’Italia, grazie soprattutto all’attività del traduttore francese Georges Hérelle (1848-1935), con cui egli aveva intrecciato una fitta corrispondenza fin dal ’91.
Inizia ora per lo scrittore un «periodo abruzzese», trascorso in un villino a Francavilla, con la Gravina e la figlioletta, ma interrotto da viaggi e nuove esperienze: nell’estate 1895 egli partecipa a una crociera in Grecia sullo yacht dello Scarfoglio; nel novembre a Venezia tiene un discorso per la chiusura dell’Esposizione Internazionale d’Arte, Allegoria dell’autunno, e inizia una relazione con la grande attrice Eleonora Duse, già incontrata a Venezia l’anno prima. Le sue ambizioni vanno ora molto al di là dell’orizzonte mondano, mirano a un’arte suprema, capace di esprimere energie profonde ed assolute, e comportano una polemica sdegnosa contro la mediocrità del mondo contemporaneo, tesa a suscitare un’umanità eroica e conquistatrice (D’Annunzio si fa banditore della teoria del superuomo, ricavata da Nietzsche, e del teatro musicale di Wagner). Dopo il romanzo Le vergini delle rocce (1895), egli cerca la strada di una grande tragedia moderna con La città morta, ispirata dalla Duse e terminata nel novembre’ 96, cui fanno seguito una fittissima produzione teatrale e il progetto, mai portato avanti, di realizzare un grande teatro ad Albano, versione «latina» del teatro edificato a Bayreuth da Wagner. Si apre allora una fase di estrema creatività: opere teatrali, rifacimenti di opere precedenti, primi svolgimenti della poesia delle Laudi, lavoro al romanzo «veneziano» Il Fuoco, che apparirà nel marzo 1900; a ciò si aggiunge un certo impegno politico, che nel ’97 assicurerà al poeta l’elezione a deputato per il collegio di Ortona, con il sostegno della Destra.
La relazione di D’Annunzio con la Duse è resa difficile dal legame con la Gravina, dalla quale nel ’97 ebbe un altro figlio; ma nel ’98 lo scrittore mette fine alla sua vita familiare abruzzese, stabilendosi a Settignano, presso Firenze, in una villa detta La Capponcina (perché appartenuta ai Capponi), dove vive fastosamente, dedicandosi interamente al suo gusto estetico e alla sua passione per i cani e per i cavalli: la Duse abita in una villetta attigua, detta, con parola francescana, La Porziuncola (i due fanno un uso estetizzante e misticheggiante di temi e motivi francescani, e amano visitare Assisi) . Tra la fine del ’98 e l’inizio del ’99 D’Annunzio segue la Duse in tournée in Egitto e in Grecia; intanto definisce più chiaramente il progetto delle Laudi e pubblica alcuni componimenti che in esse confluiranno. Il 24 marzo 1900, in una delle sue non frequenti presenze alle sedute parlamentari, D’Annunzio lascia clamorosamente la maggioranza e si unisce alla Sinistra che attua l’ostruzionismo contro le leggi reazionarie del governo Pelloux. Dopo un viaggio in Svizzera, Germania e Austria con la Duse, si ripresenta alle nuove elezioni come candidato della Sinistra nel collegio di Firenze, ma non viene eletto. I primi anni del secolo, tra splendide vacanze estive passate nella Versilia e nel Casentino, vedono il trionfo del D’Annunzio poeta: la conclusione dei tre libri delle Laudi, pubblicati nel 1903, e la stesura della più fortunata delle sue tragedie, La figlia di Iorio, dello stesso anno. Ma il rapporto con la Duse entra nel frattempo in crisi e già nell’ottobre 1903 D’Annunzio avvia una nuova relazione con la nobile Alessandra di Rudinì che, partita la Duse, si installa alla Capponcina, menandovi una vita lussuosa. Nel 1905 la donna è gravemente malata; il poeta l’assiste, ma poi si allontana da lei per nuovi amori, tra cui quello per la contessa Giuseppina Mancini.
Tra la stesura di nuove opere teatrali e del romanzo Forse che sì forse che no (1910), il poeta trova modo di distinguersi, da vero e proprio pioniere, anche come pilota dei nuovi moderni mezzi di trasporto, dall’automobile all’aeroplano; ma gli amori e i debiti incalzano di nuovo e, convinto da una nuova amante, la russa Nathalie de Goloubeff, Gabriele si rifugia in Francia nel marzo 1910: vive allora tra Parigi e una villa ad Arcachon, nelle Lande (Gironda), e partecipa alla mondana vita della belle époque internazionale, a contatto con il vivace ambiente letterario e artistico parigino; compone opere in francese, cercando in tutti i modi di mettersi in evidenza, e nello stesso tempo di mantenere quel rapporto con il pubblico italiano che rischiava di venir meno (d’altra parte egli si sente quasi tagliato fuori dalle tendenze più recenti della cultura italiana ed europea). Tra il 1911 e il 1914, dalla Francia, fa pervenire al «Corriere della Sera» (il cui direttore Luigi Albertini cerca di sistemare la sua difficile situazione finanziaria) le prose delle Faville del maglio; l’occasione di fare buoni guadagni lo induce poi a scrivere sceneggiature cinematografiche, come quella per il film Cabiria (1914).
Ma venne la guerra mondiale a ridargli nuova vitalità e un ruolo di protagonista: il suo estetismo e il suo superomismo si convertirono in fiammante oratoria nazionalistica, in esaltazione del coraggio e della lotta, in abile sfruttamento politico e militare delle masse, che fino allora egli aveva considerato soprattutto come consumatrici dei suoi prodotti culturali: preceduto da una campagna giornalistica sapientemente orchestrata e finanziato da gruppi industriali, nel maggio 1915 tornò in Italia e qui tenne violenti discorsi interventistici (a partire da quello celebre del 5 maggio, sullo scoglio di Quarto, per l’inaugurazione di un monumento ai Mille). Entrata anche l’Italia in guerra il 24 maggio, si arruolò come tenente dei Lancieri di Novara e si comportò con coraggio, compiendo numerose e audaci azioni belliche, soprattutto in mare e in cielo; ferito all’occhio destro il 23 febbraio 1916, passò una lunga convalescenza a Venezia senza poter far uso della vista (e al buio nacque la singolare prosa del Notturno, pubblicato nel 1921); nonostante la perdita dell’occhio, riprese l’attività militare, impegnandosi in imprese spettacolari che gli dettero la fama di eroe nazionale (celebri la beffa di Buccari con una compagnia di Mas, 10-11 febbraio 1918, e il volo su Vienna del 9 agosto dello stesso anno).
Alla fine della guerra, emergevano in Italia istanze nazionalistiche e reazionarie, vaghe aspirazioni a un cambiamento radicale della situazione, impulsi verso un nuovo spirito comunitario e collettivo; e D’Annunzio, avvalendosi del prestigio conquistato in guerra e del fascino che esercitava sulle folle, divenne protagonista politico nei primi confusi anni del dopoguerra: condusse una violenta battaglia per l’annessione all’Italia dell’Istria e della Dalmazia e guidò l’impresa di Fiume alla testa di bande armate di «legionari », che occuparono la città il 12 settembre 1919, instaurandovi una singolare repubblica da lui presieduta, la «Reggenza italiana del Carnaro», che fu fatta cadere dal governo Giolitti il 21 dicembre 1920 (il celebre «Natale di sangue»). Fatalmente la logica nazionalistica e imperialistica dell’impresa fiumana avvicinava D’Annunzio al nuovo partito fascista; nei momenti nevralgici della crisi che portò il fascismo al potere, D’Annunzio si trovò preso tra propositi diversi: aspirava a un nuovo protagonismo personale, ma nutriva riserve e dubbi verso alcuni aspetti del programma fascista e diffidenze verso il personaggio Mussolini.
Ma fu tagliato fuori dal corso degli eventi e preferì ritirarsi nella villa di Cargnacco, presso Gardone, sul lago di Garda, esaltato come artista supremo e come precursore politico del regime fascista, come eroe e nume nazionale. Nel 1924 fu nominato principe di Montenevoso, e nel ’26 sorse un istituto per l’edizione completa delle sue opere, che fu affidata all’editore Arnoldo Mondadori; il regime trovò varie forme di finanziamento per rendere agevole la sua vita dispendiosa e per permettergli di trasformare la villa di Cargnacco in un vero e proprio museo, dove trovarono collocazione le testimonianze dei suoi gusti, delle sue manie, del suo estetismo, delle sue imprese.
Era inevitabile che, in uno splendido isolamento (ma non mancarono penose sortite ufficiali, come quelle per la guerra d’Etiopia del 1936), il vecchio esteta guardasse alla propria vita, che aveva amato definire «inimitabile», con un’ombra di egoistica malinconia, come a qualcosa di perduto e di non più afferrabile (e di questo sentimento troviamo traccia in alcuni dei suoi ultimi scritti); ma, nella sua piccola figura che sembrava sempre più rattrappirsi, egli continuava a recitare la sua parte, a presentarsi a borghesi e piccolo borghesi come laico sacerdote di una bellezza da consumare, di una sensualità preziosa e invereconda, nobilitata dagli splendori del linguaggio e dall’eroico patriottismo. Tra malumori, risentimenti e nostalgie, lo scrittore riempiva di preziosi oggetti di cattivo gusto la sua villa-museo, dove continuava a ricevere visite di donne, a evocare gli amori passati e a coltivare ogni fuggevole amore senile. Pareva abbarbicato, come un pezzo da museo del regime, tra gli altri cimeli della villa, che egli lasciò in eredità allo Stato e che fu trasformata in un’apposita istituzione, il «Vittoriale degli Italiani»: D’Annunzio morì il 1° marzo 1938, osannato da rumorose celebrazioni ufficiali.
Se desiderate approfondire vita e opere del grande poeta che fu, insieme a Giovanni Pascoli, la massima espressione del decadentismo italiano potete farlo sfogliando le pagine del terzo volume di Giulio Ferroni della Storia della letteratura italiana – Dall’Ottocento al Novecento nella biblioteca dell’Antica Frontiera.