alla raccolta di poesie di Stevenson "Un giardino di versi".
L’autore de L'isola del tesoro e Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde nacque infatti il 13 novembre 1850 a Edimburgo, in Scozia.
Di salute sempre molto cagionevole, dopo un lungo viaggio nei vari arcipelaghi oceanici, a seguito del quale le sue condizioni sembrarono migliorare sensibilmente, nel 1890 decise di stabilirsi a Upolu, la principale delle isole Samoa, dove visse fino alla morte avvenuta nel 1894 per un’emorragia cerebrale. Gli indigeni, che avevano un grande rispetto per lo scrittore scozzese, lo chiamavano Tusitala ("narratore di storie"), ed è proprio in omaggio alla sua seconda patria che abbiamo scelto di riunire in questo articolo tutti i francobolli di Samoa dedicati a lui.
I. IL VECCHIO LUPO DI MARE ALL'”AMMIRAGLIO BENBOW”
Il signor Trelawney, il dottor Livesey e gli altri gentiluomini mi hanno chiesto di mettere per iscritto tutti i dettagli riguardanti l’Isola del Tesoro, dal primo all’ultimo, senza omettere nulla salvo la posizione dell’isola, e questo solo perché una parte del tesoro non è stata ancora portata alla luce. Perciò nell’anno di grazia 17.. prendo in mano la penna e torno al tempo in cui mio padre teneva una locanda all’insegna dell'”Ammiraglio Benbow” e al giorno in cui il vecchio uomo di mare, abbronzato e sfregiato da una sciabolata, prese per la prima volta alloggio sotto il nostro tetto.
Ricordo come se fosse ieri quando arrivò arrancando alla porta della locanda, con dietro la sua cassa da marinaio caricata su una carriola: era alto, forte e imponente, il viso cotto dal sole, e un codino incatramato gli cadeva sulle spalle della sudicia giubba blu; le mani erano rovinate e coperte di cicatrici, le unghie annerite, spezzate, e la guancia era attraversata dalla livida cicatrice color bianco sporco di una sciabolata. Ricordo che si volse ad esaminare l’insenatura fischiettando tra sé, poi, d’un tratto, proruppe in quella vecchia canzone di mare che in seguito avrebbe cantato così spesso:
Quindici uomini sulla cassa del morto
Yo-ho-ho, e una fiasca di rum!
La sua voce era da vecchio, acuta e tremula, e sembrava essersi formata imitando il cigolio dell’argano. Picchiò poi alla porta con un corto bastone che portava con sé, simile ad un palanchino, e quando mio padre si affacciò chiese in tono sgarbato un bicchiere di rum. Lo bevve lentamente, da intenditore, assaporandone il gusto, e intanto si guardava intorno, passando di continuo con gli occhi dalle scogliere all’insegna della nostra locanda.
“È un’insenatura molto congeniale”, disse infine; “e la bettola è in ottima posizione. Senti, compare: ci viene molta gente, qui?”.
Mio padre gli disse che no, disgraziatamente non ci venivano in molti.
“Be'”, disse, “allora questo è il posto che ci vuole per me. Ehi, tu, compare”, gridò all’uomo che spingeva la carriola, “accosta e aiutami a portare su la cassa. Mi fermerò qui per un po'”, aggiunse. “Sono un uomo semplice; mi servono solo del rum, uova col bacon e quel promontorio lassù per guardare le navi che passano. Il mio nome? Potete chiamarmi capitano. Ah, so quello a cui state pensando – ecco qua”, e gettò in terra, sull’uscio, tre o quattro pezzi d’oro. “Quando ve ne dovrò degli altri” aggiunse “me lo direte voi”. E nel dire queste parole prese un’aria minacciosa, da vero comandante.
In effetti, per quanto logori fossero i suoi vestiti e sboccato il suo frasario, quell’uomo non aveva l’aria di un semplice marinaio; sembrava, piuttosto, un ufficiale o un capitano, abituato a essere obbedito incutendo timore. L’uomo che l’aveva accompagnato con la carriola ci disse che era stato lasciato dal corriere davanti al “George Inn”, che si era informato sulle locande della costa e, sentendo parlar bene della nostra e saputo quanto fosse isolata, l’aveva eletta a suo luogo di residenza. Questo fu tutto ciò che riuscimmo a sapere sul conto del nostro ospite.
Era per natura un uomo molto taciturno. Passava l’intera giornata bighellonando per l’insenatura o arrampicandosi fin sulle scogliere con un cannocchiale d’ottone. La sera se ne stava seduto in un angolo della sala, accanto al fuoco, a bere rum con pochissima acqua. Di norma, quando gli si rivolgeva la parola non rispondeva, ma alzava di colpo gli occhi, con aria minacciosa, e soffiava forte col naso come una sirena da nebbia, sicché sia noi che quelli che frequentavano il nostro locale imparammo a lasciarlo in pace. Ogni sera, di ritorno dalla sua passeggiata, chiedeva se fosse passata da quelle parti della gente di mare. Dapprima pensammo che facesse quella domanda perché sentiva la mancanza della compagnia dei suoi simili, ma in seguito capimmo che il suo intento era quello di evitarli. Quando un uomo di mare si fermava all'” Ammiraglio Benbow” (come poteva succedere, se qualcuno prendeva la strada costiera per Bristol), lui prima di entrare nella sala lo scrutava ben bene da dietro la tenda della porta; e rimaneva muto come un pesce finché non se n’erano andati. Almeno per me, il motivo di questo suo comportamento non era un mistero, visto che anch’io, a mio modo, condividevo le sue preoccupazioni. Un giorno mi aveva preso da parte e mi aveva promesso una moneta d’argento da quattro penny al primo di ogni mese solo per “stare bene attento a un uomo di mare con una gamba sola”, e farglielo sapere appena l’avessi visto. Spesso, quando arrivava il primo del mese e io andavo a chiedergli la mia paga, si limitava a soffiare col naso e fissarmi fino a farmi abbassare gli occhi; poi però ci ripensava e prima che passasse una settimana mi portava il pezzo da quattro penny rinnovando l’ordine di fare attenzione all'”uomo di mare con una gamba sola”.
Inutile dirvi quanta agitazione questo personaggio introducesse nei miei sogni. Nelle notti di burrasca, quando il vento faceva tremare la casa fino alle fondamenta e le onde mugghiavano nell’insenatura superando col loro impeto anche le scogliere, l’uomo senza gamba mi appariva in mille forme, con mille diaboliche espressioni dipinte sul volto. Ora la gamba era tagliata all’altezza del ginocchio, ora all’anca; ora l’individuo si presentava come una sorta di creatura mostruosa nata con una gamba sola al centro del corpo. Vederlo saltare e correre, inseguendomi per siepi e fossi era il peggiore degli incubi. Tutto sommato, con queste abominevoli fantasie, si può dire che il mio pezzo mensile da quattro penny me lo guadagnavo.
Per quanto terrorizzato all’idea dell’uomo con una gamba sola, tra tutti quelli che conoscevano il capitano io ero quello che aveva meno paura di lui. C’erano sere in cui beveva molto più rum allungato con acqua di quanto potesse reggere e attaccava allora a cantare le sue vecchie canzoni marinaresche, bieche e dissolute, senza curarsi di nessuno; altre volte, invece, pagava da bere a tutti e costringeva la compagnia tremebonda ad ascoltare le sue storie o a fare da coro alle sue canzoni. Ho spesso udito la casa rintronare per lo “Yo-ho-ho, e una fiasca di rum”, con gli altri avventori che, spaventati a morte, si univano anch’essi facendo a gara a chi cantava più forte per paura di contrariarlo. Quando lo prendeva questo stato d’animo, infatti, era il compagno di baldorie più prepotente che si fosse mai visto; batteva il pugno sul tavolo per avere silenzio; montava su tutte le furie se qualcuno gli rivolgeva una domanda, oppure se non gliene era stata fatta nessuna, segno evidente, secondo lui, che la compagnia non stava seguendo la sua storia. Nessuno, inoltre, poteva permettersi di lasciare la locanda fino a quando lui, ubriaco fino a non reggersi più in piedi, si trascinava verso la sua stanza.
Quello che più terrorizzava la gente erano le sue storie. Che storie orribili! Impiccagioni, passeggiate sull’asse, tempeste in mare, le isole Dry Tortugas, e mille imprese disperate lungo la costa dei Caraibi. A giudicare dalle sue storie, doveva aver trascorso la vita tra alcuni degli uomini più malvagi che Dio abbia mai fatto andare per mare; e il linguaggio con cui raccontava queste storie scandalizzava la nostra semplice gente di campagna quasi quanto i crimini che descriveva. Mio padre ripeteva in continuazione che avrebbe mandato in rovina la locanda, che la gente non poteva continuare a venire solo per il piacere di essere tiranneggiata, umiliata e spedita a letto tremante di paura. Io, però, sono convinto che la sua presenza fosse per noi un vantaggio. La gente a volte si spaventava, è vero, ma poi ripensandoci ci provava gusto: nella nostra piccola, tranquilla comunità quell’uomo era un eccellente diversivo. E non mancava un gruppo di giovani che si atteggiavano a suoi ammiratori, chiamandolo “vero lupo di mare”, “grande navigatore”, e nomi di questo genere, e sostenendo che erano uomini come questi a rendere l’Inghilterra temibile sui mari.
Il capitano, però, rischiava anche di diventare la nostra rovina, giacché continuava a rimanere, settimana dopo settimana, mese dopo mese, così che il denaro dato all’arrivo si era da un pezzo esaurito e mio padre non trovava il coraggio di insistere per averne ancora. Ogni volta che vi accennava, il capitano soffiava così forte col naso che sembrava ruggisse, e guardando fisso il mio povero padre lo faceva uscire dalla stanza. Dopo uno di questi rifiuti io l’ho visto torcersi le mani, e sono sicuro che la frustrazione e il terrore che doveva sopportare abbiano notevolmente affrettato la sua infelice e prematura morte.
Per tutto il tempo in cui visse con noi, il capitano non introdusse alcun cambiamento nel suo vestiario se si eccettuano le calze, che comprò da un venditore ambulante. Un giorno gli si afflosciò una delle punte del suo tricorno e da allora, per quanto fosse una gran seccatura quando tirava vento, lasciò che penzolasse. Ricordo l’aspetto della sua giubba, che si rattoppava da solo in camera e che da ultimo era tutta una toppa. Non scriveva né riceveva lettere, e non parlava con nessuno, se non a quelli che gli erano seduti vicino, e per lo più solo quando era ubriaco di rum. La sua grossa cassa da marinaio nessuno l’aveva mai vista aperta.
Solo una volta qualcuno gli tenne testa, e questo fu verso la fine, quando il mio povero padre era già deperito ed era ormai sul punto di andarsene. Il dottor Livesey venne nel tardo pomeriggio a visitare il malato, poi mangiò qualcosa che gli aveva preparato mia madre ed entrò in sala per fumarsi una pipa in attesa che gli fosse portato il cavallo dal villaggio, perché al vecchio “Benbow” non avevamo scuderie. Io gli andai dietro: ricordo ancora il contrasto tra la figura del dottore – brillante e curato, con la parrucca incipriata candida come neve, gli occhi neri e intelligenti e i modi affabili – e i ritrosi campagnoli, e specialmente quel sudicio e pesante spaventapasseri del nostro pirata, che se ne stava accasciato con le braccia sul tavolo, annebbiato per il troppo rum. All’improvviso quello – intendo il capitano – attaccò a cantare la sua eterna canzone:
Quindici uomini sulla cassa del morto
Yo-ho-ho, e una fiasca di rum!
Gli altri se li presero le sbronze e il diavolo
Yo-ho-ho, e una fiasca di rum!
In un primo momento avevo creduto che “la cassa del morto” fosse lo scatolone che teneva di sopra nella stanza sul davanti della locanda, tanto che nei miei incubi quest’idea si confondeva con quella dell’uomo con una gamba sola. Ma ormai da lungo tempo avevamo smesso di fare particolare attenzione a quella canzone; per nessuno, quella sera, era un novità, eccetto che per il dottor Livesey, e notai che su questi non produsse un effetto gradevole: infatti, prima di riprendere a parlare con il vecchio Taylor, il giardiniere, di una nuova cura per i reumatismi, alzò per un istante uno sguardo adirato. Nel frattempo, il capitano si era a poco a poco rianimato con la propria musica e si era messo a picchiare con la mano sul tavolo in un modo che, come noi tutti sapevamo, significava: silenzio! Tutte le voci cessarono di botto: tutte, tranne quella del dottor Livesey, il quale continuò a parlare come prima, con la stessa voce chiara e cortese, dando tra una parola e l’altra rapide tirate con la pipa. Il capitano lo fissò infuriato, batté di nuovo sul tavolo, il suo volto si fece ancor più infuriato finché, finalmente, proruppe in un’orribile e volgare imprecazione.
“Silenzio, laggiù, sottocoperta!” gridò.
“Stavate dicendo a me, signore?”, fece il dottore. E quando la canaglia, con un’altra imprecazione, gli disse che era proprio così, “Ho solo una cosa da dirvi, signore”, rispose: “che se continuerete a bere rum, il mondo si libererà presto di un lurido furfante!”.
La collera del vecchio fu terribile. Balzò in piedi, sguainò un coltello a serramanico da marinaio e, tenendolo aperto sul palmo della mano, minacciò di inchiodare il dottore al muro.
Ma il dottore non fece nemmeno una mossa. Continuò a parlargli tenendo la testa appena voltata, e con il medesimo tono di voce, forte quanto bastava perché tutta la stanza potesse sentire, ma calmo e fermo:
“Se non rimettete in tasca quel coltello in quest’istante, vi prometto, sul mio onore, che sarete impiccato alle prossime assise”.
Seguì poi tra i due un duello di sguardi; ma il capitano ben presto cedette, ripose la sua arma e tornò a sedersi, ringhiando come un cane bastonato.
“E ora, signore”, continuò il dottore, “ora che so che nel mio distretto esiste una persona come voi, potete star certo che vi terrò d’occhio giorno e notte. Non sono soltanto un dottore, sono un magistrato; e se mi arrivasse anche la più piccola denuncia contro di voi, fosse anche solo per un caso di villania come quello di stasera, adotterò le misure appropriate perché veniate rintracciato e cacciato da qui. Vi basti questo”.
Di lì a poco giunse alla porta il cavallo del dottor Livesey; questi montò in sella e partì. Ma il capitano se ne stette buono e tranquillo per il resto della serata e per molte sere a seguire.
Quello che avete letto è il primo capitolo del capolavoro di Robert Louis Stevenson L’isola del tesoro, uno dei più celebri romanzi per ragazzi di tutti i tempi. Fu pubblicato per la prima volta a puntate nella rivista per ragazzi Young Folks negli anni 1881-1882, con il titolo di Sea Cook, or Treasure Island (“Il cuoco del mare ovvero l’isola del tesoro”). Racconta una storia di “pirati e tesori”, e ha certamente contribuito in modo significativo all’immaginario popolare su questi argomenti (a partire dallo stereotipo del pirata nella forma classica in cui appare, per esempio, da Peter Pan a La maledizione della prima luna.Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.