Combattuta durante la prima guerra mondiale tra il Regio Esercito italiano e le forze austro-ungariche e tedesche, la battaglia di Caporetto, detta anche dodicesima battaglia dell'Isonzo, rappresenta la più grave disfatta nella storia dell'esercito italiano. Le truppe del generale Cadorna, che fu poi sostituito dal generale Diaz, furono costrette a ritirarsi fino al Piave, dove riorganizzarono una nuova linea difensiva che tennero fino alla fine del conflitto.
Per ricordare i difficili momenti della rotta di Caporetto abbiamo scelto la serie emessa dalle poste austriache nel 1918, successivamente alla completa occupazione del Friuli e di parte del Veneto. Si tratta di 19 valori della posta militare di Austria-Ungheria emessi l'anno precedente, con l'effigie di Carlo I e soprastampati con valore in lire. La serie fu emessa soltanto il 1° giugno 1918, circa sette mesi dopo lo sfondamento di Caporetto, perché il traffico postale civile restò a lungo interrotto: il servizio postale nelle zone occupate venne ripristinato dagli austriaci infatti solo nell'aprile 1918. Il servizio si basava sugli etappenpostamt (gli uffici postali di tappa), a gestione militare (anche per questo francobolli e cartoline postali sono quelli della posta militare austroungarica); ma gli uffici erano aperti anche per i civili. Le strane denominazioni di valore dei francobolli sono giustificate dal fatto che erano utilizzati i buoni della Cassa Veneta con un cambio di 95 heller per una lira.
Il 17 giugno del 1916, nel pieno della Grande guerra, il primo ministro italiano Antonio Salandra ricevette, senza forse badarci troppo, una missiva “riservatissima personale” dal capo di Stato maggiore Luigi Cadorna, un quasi settantenne che conduceva da mesi un violento botta e risposta con gli austriaci sul fiume Isonzo, le cui acque smeraldine attraversavano il fronte di guerra e trascinavano nel golfo di Trieste rivoli rosso sangue. Quanto alla missiva, vi era scritto: “Non è da escludersi che la necessità del ripiegamento dall’Isonzo si imponga [...] per avvenimenti a noi sfavorevoli, inaspettatamente incalzanti [...]. In simile frangente ritardare il ripiegamento potrebbe travolgere l’esercito in un rovescio irreparabile“. Cadorna aveva così profetizzato quel che sarebbe accaduto solo un anno, quattro mesi e diciassette giorni dopo: lo sfondamento austro-tedesco sull’Isonzo datato 24 ottobre 1917. Fu quello il giorno in cui iniziò la battaglia di Caporetto (Karfreit per gli austriaci, Kobarid per gli sloveni entro i cui confini si trova oggi), nella quale il nostro esercito si cimentò in una rocambolesca ritirata che in due settimane lo portò indietro di quasi 200 chilometri, fino alle sponde del Piave. “L’evento entrerà nel linguaggio come sinonimo di ‘disfatta’, ma l’epiteto è un po’ immeritato” precisa Tiziano Bertè, curatore dell’archivio fotografico del Museo storico della guerra di Rovereto e autore del saggio Caporetto: sconfitta o vittoria? (Rossato Editore). “In fondo, per quale motivo Cadorna si sarebbe dovuto far cogliere alla sprovvista da qualcosa che aveva previsto e di cui conosceva i rischi? La risposta sta nel fatto che forse, a Caporetto, non vi fu alcuna rotta dell’esercito, ma una ritirata strategica”. Per scoprire se andò così, partiamo da un conteggio numerico e da un documento d’archivio.
Tutto previsto? Tra il 1915 (anno dell’entrata italiana in guerra) e il 1916 Cadorna scatenò sull’Isonzo nove offensive che, pur non portando grossi cambiamenti del fronte, costarono la vita a quasi 100 mila soldati. Nella primavera-estate del 1917, il decimo e undicesimo scontro fecero rispettivamente 36 mila e 30 mila morti: per l’Italia fu però una quasi vittoria, poiché ne uscì con il possesso dell’Altopiano della Bainsizza. “Di contro, quella che è considerata la madre di tutte le sconfitte, Caporetto, conterà poco più di 10 mila caduti. Un numero modesto, se confrontato con quelli precedenti” chiosa Bertè.
Ma torniamo alla lettera con la quale abbiamo iniziato: Cadorna pensava realmente a un “ripiegamento dall’Isonzo” o si trattava di un’ipotesi buttata lì in un momento di sconforto? I documenti d’archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito dicono che, ancora sei mesi prima della battaglia, il generale incontrò nel quartier generale di Udine il collega francese Ferdinand Foch (Francia e Inghilterra erano i due principali alleati dell’Italia) e gli parlò dei possibili sviluppi di un attacco austro-tedesco sull’Isonzo. In tale occasione confermò che non escludeva affatto un prossimo ripiegamento e che meditava di “concentrare le forze italiane dietro il Piave“. Ecco dunque i primi elementi contrari alla “teoria della disfatta”: un epilogo che registra pochi morti (relativamente, s’intende) e un prologo che attesta come, già in tempi non sospetti, Cadorna pensasse a un arretramento del fronte.
Rinforzi tedeschi. Gli austriaci dal canto loro, dopo la batosta rimediata sulla Bainsizza, chiesero aiuto agli alleati tedeschi, il cui capo di Stato maggiore, Paul von Hindenburg, inviò il generale Krafft von Dellmensingen a ispezionare il medio fronte isontino. Questi individuò nell’area tra le località di Tolmino (Tolmin in sloveno) e Plezzo (Bovec) il tallone d’Achille del nostro esercito, che qui vedeva schierata la 2ª Armata guidata dal generale Luigi Capello. Più nello specifico, l’area antistante Tolmino era presidiata dal corpo d’armata diPietro Badoglio e a Plezzo agiva il corpo guidato da Alberto Cavaciocchi. Più a sud, verso il mare Adriatico, c’era invece la 3ª Armata del duca Emanuele Filiberto d’Aosta, e nella parte interna del fronte, in zona dolomitica (quindi lontano dall’Isonzo) si dava da fare la 4ª Armata di Mario Nicolis di Robilant: un nome da tenere a mente.
Da parte austro-germanica le truppe si organizzarono sotto la guida del generale tedesco Otto von Below, esercitandosi in particolare nella “tattica dell’infiltrazione”, che prevedeva l’uso di formazioni d’assalto (sturmpatrouilen) capaci di muoversi rapidamente tra le linee nemiche con compiti di incursione e sabotaggio, aprendo brecce per il passaggio dei fanti. “Di questa strategia Cadorna probabilmente non era a conoscenza, ma che l’offensiva si sarebbe svolta tra Plezzo e Tolmino lo sapeva eccome” aggiunge Bertè. “Le notizie di un’avanzata nemica proprio in quella zona circolavano da tempo grazie al lavoro svolto dai servizi segreti dell’esercito e alle voci riportate da Radio Scarpa” (il nome che i soldati avevano dato all’insieme di brusii e indiscrezioni che grazie al passaparola rimbalzava ogni giorno lungo il fronte). Alla fine dell’estate la “radio” diceva che erano in corso strane manovre nemiche, il cui scopo fu rivelato l’11 settembre da un disertore, che spifferò l’esistenza di un piano d’attacco austro-tedesco.
Sulla difensiva. La Russia, altra grande rivale degli imperi centrali che teneva impegnata gran parte dei loro soldati, si apprestava nel frattempo ad abbandonare il teatro di guerra a causa dei rivolgimenti interni che avevano portato alla deposizione dello zar: temendo un prossimo spostamento di forze avversarie dal fronte russo a quello italiano, il 18 settembre Cadorna ordinò alla 2ª e 3ª Armata di stabilirsi quanto prima su “posizioni difensive“. Inoltre, nella relazione ufficiale dello stesso giorno riferirà che “le forze nemiche allontanano la possibilità di successo. Bisognerebbe ritirarsi su posizioni retrostanti che soddisfino due requisiti essenziali: minima estensione e massima resistenza“.
“E’ chiaro che per soddisfare i suddetti requisiti c’era un solo modo: accorciare il fronte. Per esempio stringendolo lungo il Piave” suggerisce Bertè. L’ordine difensivo di Cadorna fu preso in considerazione dal solo duca d’Aosta, mentre Capello agì di testa sua e schierò la 2ª Armata su un assetto controffensivo. Il 4 ottobre Cadorna si recò a Vicenza per effettuare sopralluoghi lungo il fronte trentino. “Inoltre trasferì ospedali da campo e feriti oltre il fiume Mincio (nella Pianura Padana), ben lontano dal fronte: manovra anomala prima di una battaglia, ma ovvia se ci si voglia invece ritirare” spiega lo studioso. Il 2 ottobre un prigioniero polacco aveva intanto indicato Tolmino quale luogo scelto dagli austro-tedeschi per attaccare, e il giorno 20 un soldato boemo fornì ai comandi italiani nuovi dettagli sul piano nemico. Ventiquattro ore dopo, due disertori rumeni confermarono che l’attacco era imminente.
Sfondamento. Il 23 ottobre Cadorna scrisse al ministro della Guerra che “l’offensiva si dovrebbe sviluppare [...] con preponderanza di sforzo tra la conca di Plezzo e la testa di ponte di Tolmino“. “Mai una battaglia fu prevista con tanta precisione. Di Caporetto si può dire tutto, ma non che ci colse di sorpresa” è il commento di Bertè. Alle 2:30 di notte del 24 ottobre le artiglierie austro-tedesche diedero inizio all’offensiva con una lunga pioggia di granate e gas: le linee telegrafiche (non interrate) smisero di funzionare impedendo le comunicazioni, mentre la nebbia, accompagnata da pioggia e neve in quota, ostacolò l’uso di segnalatori luminosi. Le fanterie nemiche si incunearono nel fondovalle e, sfondata l’area tra Plezzo e Tolmino, già dall’ora di pranzo giunsero nei pressi di Karfreit-Caporetto. Da qui sarebbero poi dilagate nella pianura travolgendo tutto. “Ahi quanta gente venir giù / lasciare il tetto poi che il nemico irruppe a Caporetto“: è con queste parole che l’anno seguente la canzone La leggenda del Piave ricorderà quei momenti.
Dopo il tracollo isontino, il 26 ottobre Cadorna diede l’ordine di ritirata sul fiume Tagliamento. “Ma il vero obiettivo era il Piave, dove non a caso fece inviare le artiglierie di medio e grosso calibro e oltre il quale trasferì il Comando supremo (che da Udine passò a Treviso)” aggiunge Bertè.
Ripiegare! La disposizione generale data da Cadorna ai soldati fu quella di “salvare il maggior numero di artiglieria, interrompere strade e ponti [...] incendiare magazzini e baraccamenti“. “L’intenzione era quella di accorciare il fronte in maniera sistematica; se poi la ritirata risultò caotica, la colpa va forse cercata altrove” riprende lo studioso. Per esempio nel comportamento della 4ª Armata di Mario Nicolis di Robilant, al quale il 27 ottobre Cadorna aveva ordinato di lasciare l’area dolomitica e ripiegare verso il Piave per assestarsi sul monte Grappa. Ma questi, sicuro di resistere all’urto nemico, impiegò quasi una settimana per schiodare dalle sue posizioni. “Così la 2ª e la 3ª Armata dovettero ritardare il ripiegamento per coprire la discesa degli uomini del Robilant e sostarono più del dovuto sul Tagliamento. Questo tergiversare risultò fatale e causò la perdita inutile di migliaia di soldati” spiega Bertè. Infine, il 3 novembre gli austro-tedeschi oltrepassarono il fiume e sei giorni più tardi la coda della ritardataria 4ª Armata fu agganciata a Longarone (Bl) dalle avanguardie tedesche guidate dalla futura “volpe del deserto” Erwin Rommel. Ma, giunta sulle pianure davanti al Piave, l’avanzata nemica si affievolì grazie al graduale ricompattamento del nostro esercito, che il 12 novembre era ormai schierato al completo sul nuovo fronte. I requisiti della “minima estensione” e della “massima resistenza” erano soddisfatti; ma ciò non valse a salvare Cadorna.
Destituito. Il generale pagò a caro prezzo la ritirata, che assunse gli aspetti di una disfatta in quanto coinvolse la popolazione civile (si contarono centinaia di migliaia di profughi) e toccò territori inviolati fino a quel momento. In ogni caso, il 9 novembre, per volere del neo premier Vittorio Emanuele Orlando, Cadorna venne sostituito dal generale Armando Diaz. “A conti fatti, però, quella di Cadorna non era stata una vera sconfitta” suggerisce Bertè. “Uno spostamento di oltre un milione di uomini, con i nemici alle calcagna, che costi la vita a un numero limitatissimo di individui è, anzi, un fatto quasi straordinario”. Eppure qualche errore vi fu, come per esempio quello di Badoglio, che mancò ingenuamente di proteggere la riva destra dell’Isonzo e offrì il fianco agli austriaci (qualcuno insinuò persino che fosse in combutta con loro). Ma, più in generale, fu tutta la 2ª Armata di Capello a tenere un assetto squilibrato. Non meno grave fu l’errore del Robilant, la cui ritrosia a muoversi mise a rischio i suoi uomini e quelli delle altre armate. Non a caso la commissione d’inchiesta allestita nel 1918 lo inserì nella “lista dei cattivi” con Cadorna, graziando però Badoglio (la diceria è che quest’ultimo si fosse accordato con il presidente Orlando, che avrebbe fatto sparire le carte che attestavano le sue responsabilità).
Misteri a parte, una certezza c’è: il fronte italiano si ritrovò d’improvviso più compatto e solido. E quando nel giugno 1918 giunse l’ultima grande offensiva austriaca (la battaglia “del solstizio”) la nuova disposizione permise di annientare quei nemici che pochi mesi prima parevano invincibili. “A prescindere dagli errori commessi, si può affermare che se l’Italia uscì vincente dal conflitto ciò fu forse dovuto proprio alla “ritirata” di Caporetto, con la quale perdemmo sì una battaglia, ma ci mettemmo in condizione di vincere la guerra” sostiene Bertè. Come a dire che, senza Caporetto, la Leggenda del Piave non si sarebbe potuta concludere con la celebre strofa “sul patrio suolo vinti i torvi Imperi / la Pace non trovò né oppressi né stranieri!“.
Se volete approfondire le fasi della battaglia che è divenuta sinonimo di disfatta, ma che forse fu solo una ritirata strategica, potete farlo sfogliando le pagine 6-12 del n. 3 di Focus Storia Wars nella biblioteca dell’Antica Frontiera.