Con questa espressione, che prende il nome del colle sul quale – secondo la storia romana – si ritiravano i plebei nei periodi di acuto conflitto con i patrizi, ci si riferisce alla manifestazione di protesta contro il fascismo, in seguito al rapimento del deputato socialista Giaocomo Matteotti, degli esponenti delle opposizioni i quali, guidati da Giovanni Amendola, abbandonarono il parlamento. Ebbe carattere morale e furono bocciate proposte comuniste di azione diretta e di appello alle masse. Non ebbe successo: il re confermò la fiducia a Mussolini e al fascismo.
Per ricordare il delitto Matteotti e la secessione aventiniana abbiamo scelto il francobollo rosso da 25 lire emesso dalle Poste italiane nel 1955, in occasione del 70º anniversario della nascita del parlamentare socialista brutalmente assassinato il 10 giugno 1924.
Verso sinistra Mussolini avrebbe potuto compiere una operazione di aggancio (impeditagli nel 1922 dagli intransigenti e dai nazionalisti) attraverso un accordo con i confederali, l’unità sindacale e la partecipazione, a titolo non politico ma tecnico-personale, di qualche esponente della CGL al governo; operazione che, in un sol colpo, avrebbe rilanciato il sindacalismo fascista, rafforzato la posizione del governo di fronte al mondo economico e messo in crisi i partiti di sinistra.
In effetti, subito dopo le elezioni del 1924, Mussolini prese in seria considerazione una ipotesi del genere, sfruttando le tendenze collaborazioniste emerse da tempo all’interno del Partito socialista e della CGL.
Contro tali tendenze si batté decisamente Matteotti, sino al suo ultimo discorso alla Camera, il 30 maggio 1924; una battaglia tragicamente troncata dal suo rapimento, il 10 giugno, nei pressi della sua abitazione romana, a opera di sicari guidati da Amerigo Dumini. Sul luogo sorge oggi un monumento alla memoria di Matteotti; il traffico intenso del nostro tempo contrasta con l’aspetto periferico che aveva questo quartiere negli anni Venti, così come lo evoca un film che ricostruisce il Caso Matteotti.
L’impressione destata dalla scomparsa del deputato socialista fu vivissima, a livello politico e di opinione pubblica, e il sospetto che Mussolini vi fosse in qualche modo implicato fu pressoché generale; né a stornarlo – per i contemporanei come per i posteri – valsero le sue assicurazioni sulla volontà del governo di far luce sull’avvenimento e di consegnare alla giustizia i colpevoli (Dumini fu arrestato la sera del 12 giugno alla stazione Termini, in procinto di partire per Milano).
Né Mussolini risultò più convincente nel pomeriggio del 13 giugno alla Camera, quando sostenne:
Se c’è qualcuno in quest’aula che abbia diritto più di tutti di esser addolorato e aggiungerei esasperato, sono io. Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione.
Quelle affermazioni risuonavano in una Camera abbandonata dalle opposizioni; la decisione, prodromo della “secessione dell’Aventino” (che rievoca il ritiro su quel colle della plebe romana in lotta contro il patriziato), era stata presa il giorno precedente e per certi versi risultò utile a Mussolini, che poté affrontare la crisi montante senza almeno doversi guardare da possibili intralci parlamentari, dal momento che il presidente della Camera, Alfredo Rocco, ne aggiornò i lavori sine die.
Indubbio vantaggio concesso dalle opposizioni al governo, come riconobbe subito lo stesso Turati (poi peraltro segnalatosi tra i più decisi aventiniani) scrivendo il 14 giugno alla Kuliscioff:
Non ti dico come sono pentito del nostro gesto … il ministero, più furbo di noi, ne profittò subito per liberarsi della Camera per sette mesi. E la Camera voleva dire la sola tribuna possibile, la sola trincea, il solo controllo.
In realtà quell’analisi di Turati evidenziava soltanto un aspetto del problema dell’Aventino, innegabile ma non decisivo. In linea di principio la decisione assunta il 12 e 13 giugno dalle opposizioni di astenersi dai lavori parlamentari, oltre che moralmente ineccepibile, rappresentò al momento un chiaro sintomo di come lo sdegno antifascista fosse generalizzato; un atto che all’interno del Paese e all’estero suscitò indubbiamente una grande impressione, a livello politico non meno che a quello dell’opinione pubblica. Non a caso lo stesso Togliatti, qualche mese più tardi, avrebbe ammesso che se i comunisti non avessero in quel momento aderito all’iniziativa delle opposizioni, avrebbero rischiato di rimanere isolati dalle masse.
L’errore di fondo delle opposizioni non fu quello di aver consentito a Mussolini di aggiornaresine die i lavori della Camera, quanto di essersi isterilite nella “protesta morale”, di aver “istituzionalizzato” l’Aventino senza comprendere la necessità di passare a una seconda fase, più propriamente politica, l’unica attraverso la quale si sarebbero potute creare le condizioni per l’abbattimento del governo Mussolini e l’eliminazione del fascismo. Una fase che presupponeva il raggiungimento di un accordo politico il più vasto possibile, tale da coinvolgere anche forze che fossero fino a quel momento (più o meno obtorto collo) scese a compromesso con il fascismo; si trattasse di esponenti politici liberali come Giolitti, Salandra, Orlando, Tittoni, oppure dei nazionalisti e della stessa monarchia.
Se volete approfondire il delitto Matteotti e la secessione aventiniana potete farlo sfogliando il libro di Renzo De Felice Breve storia del fascismo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.