La base navale statunitense nelle isole Hawaii venne attaccata dai giapponesi il 7 dicembre 1941 e l’episodio segnò l’ingresso ufficiale degli USA nella seconda guerra mondiale. L'operazione aeronavale nipponica fu concepita e guidata dall'ammiraglio Isoroku Yamamoto e attuata in assenza della dichiarazione di guerra. L'attacco fu un successo, limitato solo dal mancato affondamento delle portaerei, poiché in poco più di un'ora i 350 aerei partiti dalle portaerei giapponesi affondarono quattro delle otto corazzate statunitensi, mentre le altre furono fatte arenare o subirono gravi danni; solo le tre portaerei si salvarono, trovandosi in navigazione lontano dalla loro base.
Per commemorare quello che il presidente americano Franklin Delano Roosevelt chiamò Day of infamy (giorno dell'infamia) abbiamo scelto i tre francobolli emessi dalle poste nipponiche e statunitensi riguardanti questo importante evento storico, dei quali è possibile leggere una breve descrizione sopra.
7 Dicembre 1941 : Attacco a Pearl Harbor
La giornata del 7 Dicembre 1941 viene ancora oggi ricordata negli Stati Uniti come il “giorno dell’infamia”, così come lo definì Franklin Delano Roosevelt, il Presidente USA in carica all’epoca. Quel giorno infatti, era una domenica, alle ore 07.55 del mattino la Flotta Giapponese aveva attaccato in modo proditorio, in assenza di una preventiva e formale dichiarazione di guerra, la Flotta Americana di stanza nell’Oceano Pacifico, ancorata nella base di Pearl Harbor nelle Isole Hawaii. L’attacco, condotto da una forza di 353 Aeroplani imbarcati su portaerei, aveva potuto avvalersi di un totale effetto sorpresa, ed era stato eseguito in modo molto professionale dai piloti giapponesi, che avevano realizzato un piano minuziosamente studiato da lungo tempo. In tal modo, con perdite trascurabili, la Marina Imperiale Giapponese aveva inferto un colpo devastante a quello che era stato lucidamente individuato come il più temibile avversario che il Giappone si sarebbe trovato davanti nella sua politica espansionista nel Pacifico, e cioè gli Stati Uniti d’ America. La Flotta Americana del Pacifico aveva infatti subito danni ingentissimi, con ben diciotto navi messe più o meno a lungo fuori combattimento. Anche le perdite umane erano state assai elevate, 2403 morti e 1178 feriti. Quando la notizia dell’attacco si diffuse negli Stati Uniti nel primo pomeriggio, l’ intero paese fu scosso da una ondata di indignazione e di rabbia; l’opinione pubblica americana, fino a quel momento nella sua gran maggioranza isolazionista e scarsamente interessata al conflitto che già da due anni insanguinava l’Europa, di colpo divenne interventista, reclamando a gran voce vendetta contro l’Impero del Sol Levante. Di fatto, l’attacco a Pearl Harbor trasformò definitivamente quello che fino ad allora era stato un conflitto limitato alla sola Europa, in un conflitto del tutto mondiale che avrebbe coinvolto altre quindici Nazioni, portando a 43 il numero totale dei belligeranti.
Le Cause Storiche del Conflitto tra Giappone e Stati Uniti
La politica espansionista del Giappone in Asia, ispirata dagli ambienti militari, iniziata nel 1931 con la occupazione della Manciuria e culminata con la guerra di aggressione alla Cina scatenata nel 1937, aveva finito per condurre il paese ad una sempre più grave crisi interna. Si era evidenziato in tutta la sua crudezza quello che era il tallone di Achille dello sviluppo industriale, militare ed imperiale del paese del Sol Levante, e cioè la mancanza sul territorio nazionale delle materie prime indispensabili per sostenere la produzione industriale e di conseguenza lo sforzo bellico. Quattro anni di guerra di occupazione in Cina avevano finito per dissanguare il Giappone; l’ industria tessile, vero motore della economia del paese, lavorava al 40-50% delle proprie possibilità, parecchi prodotti di essenziale necessità erano ormai razionati, e la miseria si diffondeva sempre più. Nel Governo dell’Impero l’ala oltranzista rappresentata dai militari sosteneva la necessità di un immediato colpo di mano volto ad occupare il Sud Est asiatico ( Filippine, Malesia, Indonesia, Indie Orientali ), con le sue ricchissime risorse di riso, petrolio, stagno, zinco, bauxite, gomma, etc. Nel 1940, approfittando del collasso della Francia travolta dalla Germania nazista, il Giappone occupò l’ Indocina francese, che entrò così a far parte in modo integrale della sfera di influenza nipponica. La crescente aggressività del Giappone in Asia non poteva non impensierire seriamente l’ Amministrazione USA, a cominciare dal Presidente in carica Franklin Delano Roosevelt. Tanto più che fin dal 1934 la Marina Statunitense aveva messo a punto un sistema di decrittazione che consentiva di decifrare il codice di comunicazione segreto giapponese. Questo cifrario ( “ Sistema Magic “ ) sarebbe poi stato usato con ottimi risultati dagli americani per tutto il resto della guerra. Grazie a questo brillante successo dei Servizi di Intelligence, il Governo USA era in grado di conoscere quali fossero le vere intenzioni dei militaristi giapponesi, al di là delle rassicurazioni ufficiali della diplomazia del Mikado. Ci si potrebbe quindi chiedere se davvero l’ attacco a Pearl Harbor giunse così “ inaspettato “. Ma su questo torneremo.
Gli Stati Uniti infatti reagirono alla occupazione nipponica dell’Indocina con una serie di provvedimenti di crescente durezza : il 10 Luglio 1940 venne votato un nuovo incremento delle forze navali americane nel Pacifico; il 26 Luglio venne vietata la esportazione di petrolio verso il Giappone; il 10 Ottobre furono bloccate le forniture di acciaio a Tokyo; il 26 Maggio 1941 gli Stati Uniti assicurarono pubblicamente ogni appoggio alla Cina di Chang Khai Schek in guerra con il Giappone fin dal 1937, ed infine, il 26 Luglio, per decreto del Governo tutti i beni nipponici negli USA vennero congelati. Per l’ Impero del Sol Levante il colpo più duro fu rappresentato dall’embargo petrolifero; le riserve di carburante accantonate erano sufficienti appena per un anno. E così, alla fine di quella estate del 1941 in cui la Germania aveva ormai assoggettato tutta l’ Europa e si era rivolta ad Est con l’ aggressione all’Unione Sovietica, le tesi dei militaristi giapponesi finirono per trovare il consenso decisivo del Mikado stesso, l’ Imperatore Hirohito, sulla base della argomentazione che “ Poiché la guerra è ormai inevitabile, più tardi sarà, peggio sarà “. Il giorno 6 Settembre, sotto la presidenza dell’Imperatore, si riunirono a Tokyo tutti i capi civili e militari. Venne deciso di presentare agli Stati Uniti una serie di richieste, che andavano dal libero accesso alle materie prime alla non ingerenza americana guerra in Cina; se fossero state rifiutate, sarebbe stata la guerra. Ma gli oltranzisti premettero per affrettare i tempi, ed il 17 Ottobre il Ministro della Guerra e capo della fazione militarista, ilGenerale Hideki Tojo, venne nominato Primo Ministro del Governo Imperiale. Il dimissionario Principe Konoye confidò al suo segretario : “ E’ chiaro che la guerra è ormai questione di poche settimane al massimo “.
Il Generale Tojo, portatore di una ideologia spiccatamente fascista, ed a suo tempo fra i più convinti sostenitori del Patto Tripartito tra Giappone, Italia fascista e Germania nazista, avrebbe guidato la politica dell’Impero, esercitando poteri dittatoriali, fino al Luglio 1944, quando venne costretto alle dimissioni dopo la disastrosa sconfitta della Battaglia di Saipan. Al termine del conflitto, sopravvissuto ad un tentativo di suicidio, Tojo venne processato come criminale di guerra dal Tribunale Militare Internazionale per l’ Estremo Oriente, e condannato a morte il 12 Novembre 1948. La sentenza del Tribunale venne eseguita a Tokyo mediante impiccagione il giorno 23 Dicembre.
Ad ogni buon conto, la Imperiale Marina Giapponese, al momento la più potente del mondo, potendo contare su 10 Corazzate, 10 Portaerei, 35 Incrociatori, 111 Caccia e 64 Sommergibili, già da dieci mesi si preparava con ogni cura ad assestare, quando fosse il momento, il colpo mortale alla Marina Statunitense. Il piano di attacco era stato preparato in modo accurato e minuzioso dal più famoso e rispettato ammiraglio nipponico, il cinquantasettenne Isoroku Yamamoto.
Yamamoto, pur essendo il militare più famoso e popolare del suo paese, non era tuttavia un fautore della guerra; a differenza della stragrande maggioranza dei suoi compatrioti, conosceva personalmente gli Stati Uniti, avendovi soggiornato a lungo nello svolgimento di mansioni ufficiali, ed aveva avuto modo di vedere con i suoi occhi lo straordinario potenziale industriale degli USA, incomparabilmente più sviluppato di quello giapponese. Da uomo intelligente e pragmatico, non si faceva quindi illusioni su quello che sarebbe stato l’ inevitabile esito di un conflitto di lunga durata, nel quale il fattore che avrebbe fatto la differenza sarebbe stata la capacità di produzione bellica dei contendenti. L’ unica possibile speranza per il Giappone di vincere questa partita impari era quindi quella di assestare subito un colpo mortale all’avversario all’inizio delle ostilità, un colpo tale da impedirgli di risollevarsi ed indurlo a trattative. E’ probabile che Yamamoto per primo non ci credesse molto, ma una volta ricevuto l’ ordine di pianificare il piano di attacco, da buon militare, per di più giapponese, si accinse ad eseguire il suo compito nel migliore dei modi. Nella progettazione del piano, Yamamoto prese ad ispirazione e modello la “ Operation Judgement “, la operazione aeronavale con la quale la Royal Navy britannica, la notte dell’11 Novembre 1940, aveva inferto un colpo devastante alla Regia Marina Italiana ancorata nella base di Taranto. Con una differenza notevole : la Marina Britannica aveva ottenuto un successo superiore alle aspettative con l’ impiego di appena 17 aeroplani di modello decisamente antiquato, lanciati da una sola portaerei; il piano di attacco messo a punto da Yamamoto prevedeva invece di lanciare contro la Flotta Americana del Pacifico centinaia di aerei modernissimi, utilizzando allo scopo ben sei portaerei, supportate da una potente forza di appoggio. L’ obiettivo era Pearl Harbor nelle Hawaii. L’ attacco si sarebbe effettuato una domenica, per cogliere le navi in porto e gran parte del personale fuori servizio, tra la fine di Novembre e l’ inizio di Dicembre, quando l’ oceano è spesso tempestoso, ma si può contare sulla luce della luna.
Così, il 10 Novembre, le navi della Flotta Nipponica, isolatamente o in coppia e lungo diverse rotte per non allarmare lo spionaggio nemico, iniziarono a lasciare le basi abituali in Giappone per concentrasi a nord nell’arcipelago delle Isole Curili, già coperto di neve e spazzato dai venti artici. Il 22 Novembre, nella deserta baia di Hitokappu, la flotta giapponese completò il suo concentramento in vista della operazione. Essa era composta di quattro diverse sezioni : innanzitutto la Flotta di Attacco, al comando dell’Ammiraglio Chuichi Nagumo, con sei Portaerei ( Akagi, Kaga, Hiryu, Soryu, Shokaku, Zuikaku ), con a bordo 432 aeroplani, 353 destinati alla missione e 79 di riserva; la prima ondata di aerei, composta da 183 velivoli, sarebbe stata al comando del Capitano di Vascello Mitsuo Fuchida. Veniva poi la Flotta di Appoggio, al comando dell’Ammiraglio Mikawa, con due Corazzate e due Incrociatori pesanti; la Flotta Esplorante al comando dell’Ammiraglio Omori, con un Incrociatore, nove Cacciatorpediniere e ventotto Sommergibili; ed infine la Flotta di Rifornimento con Otto Petroliere. La mattina del 26 Novembre, la flotta levò le ancore e si diresse verso Est, puntando da nord sulle Hawaii. Il comandante Ammiraglio Nagumo aveva stabilito il suo quartier generale sulla portaereiAkagi, ed attendeva dalla radio il messaggio in codice “ Niitaka Yama Nobora “ (“Scalate il Monte Niitaka”), cioè l’ annuncio che le trattative diplomatiche con gli USA erano fallite e di conseguenza bisognava senza indugio passare all’azione.
Quello stesso giorno 26 Novembre, il Governo USA aveva infatti risposto alle proposte giapponesi di trattativa per un modus vivendi in Asia con il cosiddetto memorandum dei dieci punti, che in sostanza chiedeva al Giappone di ritirare le proprie truppe dalla Cina e dall’Indocina, nonché l’ impegno a recedere dal Patto Tripartito con la Germania e l’ Italia. Nei fatti, questo memorandum assomigliava molto ad un ultimatum, e come tale infatti il Governo Giapponese lo interpretò, dando immediatamente ordine alla flotta di salpare le ancore verso le Hawaii. Dal canto loro, gli americani non erano così ingenui da non rendersi conto di quali conseguenze la presentazione del Memorandum dei Dieci Punti avrebbe con ogni probabilità prodotto; il giorno 27 l’ Ammiraglio Stark, Capo di Stato Maggiore della Marina USA, diramava a tutti gli alti comandi navali, e quindi anche al Comando delle Hawaii di cui era responsabile l’ Ammiraglio Kimmel, il seguente telegramma : “ Avviso di guerra imminente. Le trattative col Giappone per stabilizzare la situazione nel Pacifico sono cessate, ed è da attendersi una mossa aggressiva da parte giapponese nei prossimi giorni “. Come mai allora la flotta statunitense si lasciò prendere del tutto di sorpresa la mattina del 7 Dicembre ? A quanto sembra, sebbene un attacco giapponese venisse dato per imminente a Washington, nessuno prese in seria considerazione l’ ipotesi che il primo colpo nipponico potesse essere sferrato contro le Hawaii. Le informazioni disponibili raccolte dai vari Servizi Informazioni americani sembravano indicare chiaramente che la imminente offensiva giapponese si sarebbe rivolta verso le Filippine, la Malesia e l’ Indonesia, il che era anche del tutto logico e strategicamente corretto, visto che era in queste nazioni che si trovavano le fonti di materie prime di cui l’ Impero del Sol Levante aveva vitale necessità. Tuttavia, era anche del tutto ovvio che se il Giappone avesse potuto conseguire un iniziale importante successo contro la Flotta USA del Pacifico, avrebbe poi potuto operare in questi teatri con molto maggiore tranquillità.
Ciò non ostante, nelle alte sfere militari americane un attacco contro Pearl Harbor veniva giudicato estremamente improbabile. Data la grande distanza delle basi giapponesi, un tale attacco avrebbe potuto essere effettuato solamente da aeroplani imbarcati su portaerei, e poiché questi avevano una limitata autonomia di volo, ne risultava che la flotta giapponese avrebbe dovuto portarsi ad almeno 200 miglia dalle Hawaii. Si riteneva praticamente impossibile che una grossa forza navale partita dal Giappone potesse attraversare l’ immensa distesa del Pacifico ( ci volevano circa dieci giorni di navigazione ) senza essere avvistata in tempo utile per poter dare l’ allarme. Sfortunatamente, per un complesso di circostanze che descriveremo, fu esattamente quello che accadde. E come spesso avviene in guerra, una delle ragioni del successo nipponico fu quella di avere audacemente scelto tra le diverse opzioni operative possibili, quella che il nemico riteneva come la più improbabile.
Di conseguenza, sulla base della errata convinzione che un attacco a Pearl Harbor non rientrasse nel novero delle eventualità possibili, i comandi americani non emanarono alcun ordine per un particolare stato di allarme alle Hawaii, e quindi i servizi di difesa dell’isola di Oahu continuarono a funzionare più o meno come in tempo di pace. Dimostrando una mancanza di previdenza analoga a quella evidenziata dalla Regia Marina Italiana in occasione del disastro di Taranto di undici mesi prima, ad opera della Aviazione di Marina Britannica, non solo era stato concentrato nella base di Pearl Harbor un numero davvero notevole di navi ( ce n’ erano infatti ben 88, di cui tre Portaerei, nove Corazzate, 21 Incrociatori tra leggeri pesanti, 28 Cacciatorpediniere e 27 Sommergibili ), ma ciò che è peggio le navi erano state ancorate in uno spazio ristretto, molto vicine tra loro ed allineate in bell’ordine come per una parata. I giapponesi dal canto loro conoscevano molto bene la disposizione delle navi americane in porto, grazie ad un efficiente e ramificato servizio di spionaggio in loco ( il 30% circa della popolazione delle Hawaii era infatti di origine giapponese ), ed avevano addirittura realizzato con meticolosità tipicamente nipponica un molto realistico plastico che riproduceva perfettamente in scala la base americana, in modo che i piloti destinati all’attacco potessero formarsi una idea il più possibile esatta del loro obiettivo e del posizionamento dei loro bersagli.
Come se non bastasse, mancava del tutto la classica protezione contro gli attacchi aerei, costituita da reti antisiluro e sbarramenti di palloni frenati, che a Taranto invece c’erano, anche se in misura insufficiente. Nella convinzione di nuovo del tutto errata che un attacco aerosilurante era altamente improbabile, data la poca profondità delle acque del porto ( 14 metri circa ), le reti erano state giudicate inutili ed ingombranti, dato che avrebbero ostacolato le manovre di ormeggio e disormeggio delle navi, nonché dei rimorchiatori e delle unità di appoggio adibite al rifornimento di nafta, acqua, viveri, etc.
Quanto ai palloni frenati, questi a loro volta avrebbero ostacolato i voli di addestramento degli aerei della base, e quindi si era spensieratamente deciso di fare a meno anche di questi. Per completare il quadro della impreparazione statunitense, va infine aggiunto che molte delle batterie contraeree di terra destinate alla difesa non erano ancora state installate, e molte di quelle che lo erano avevano il munizionamento chiuso nei depositi; a conferma che i misfatti della burocrazia non sono una esclusiva italiana o sovietica, al momento dell’attacco ci vollero ben sei ore per riuscire a sbrogliare le difficoltà burocratiche che si opponevano alla distribuzione delle munizioni alle postazioni. Cioè quando ormai era già successo tutto quel che doveva succedere. Nel frattempo, mentre a Pearl Harbor la vita procedeva placidamente come al solito, la flotta nipponica dell’Ammiraglio Nagumo procedeva faticosamente verso il suo obiettivo nell’oceano in tempesta, attraverso, piovaschi, venti gelidi e banchi di nebbia. Le portaerei avanzavano su due file di tre, precedute da sette cacciatorpediniere e seguite dalle navi cisterna, mentre le corazzate, gli incrociatori e i sommergibili le proteggevano ai fianchi.
Lunedì 1 Dicembre, alle ore 13.00, la radio della Akagi captò finalmente il messaggio in codice atteso : “ Scalate il monte Niitaka “. Significava che ormai la macchina bellica nipponica si era dovunque messa in moto; a migliaia di miglia di distanza dalla flotta di Nagumo, si stava avvicinando alla sua meta la flotta da sbarco diretta ad Hong Kong, e nel contempo si stavano imbarcando nei porti le truppe destinate all’invasione della Malesia e delle Filippine. Il giorno seguente, 2 Dicembre, Nagumo fece radunare gli equipaggi sul ponte delle navi, e rivelò loro via radio lo scopo della missione, portando alle stelle l’ entusiasmo di marinai ed aviatori. Alle prime luci dell’alba di Domenica 7 Dicembre, la flotta giapponese raggiunge finalmente la posizione prevista per l’ attacco, 275 miglia marine a nord dell’isola di Oahu, a 26 gradi di latitudine nord e 158 gradi di longitudine ovest. Le navi nipponiche avevano potuto portarsi alla distanza utile senza essere avvistate, ancora una volta grazie alla impreparazione americana. Nel Dicembre 1941 erano disponibili alle Hawaii circa 200 Aeroplani per la ricognizione a lungo raggio, 50 circa della Aviazione di Marina e 150 circa della Aviazione dell’Esercito ( all’epoca, le Forze Aeree Statunitensi non erano costituite come Arma autonoma ed indipendente ). La gran parte delle unità da ricognizione tuttavia era ancora in fase di addestramento, ed era in numero comunque insufficiente per organizzare una esplorazione sistematica per un raggio di 500 / 600 km, come sarebbe stato necessario per poter avvistare una forza ostile in tempo utile per dare un allarme efficace. Sta di fatto che la mattina del 7 Dicembre non era in volo nessun aereo da ricognizione a lungo raggio.
Ore 07.55 : “ Tora ! Tora ! Tora ! “
Gli aerei della prima ondata iniziarono a decollare dai ponti delle portaerei verso le sei del mattino, mentre sul mare sorgeva il sole, il simbolo stesso dell’Impero del Mikado, simbolo che, stilizzato in un disco rosso, era dipinto sulle loro fusoliere e sulle loro ali. Questa forza era composta come si è detto di 183 aeroplani, comandati dal Capitano di Vascello Mitsuo Fuchida, e comprendeva 40 aerosiluranti Nakajima B5N, 100 bombardieri Aichi D3, di cui 51 attrezzati per il bombardamento in picchiata e 49 per il bombardamento in quota, scortati da 43 modernissimi caccia Mitsubishi A6M Zero. Quando la formazione fosse giunta nel cielo di Pearl Harbor, il Comandante Fuchida avrebbe rotto il silenzio radio fino ad allora osservato, ed avrebbe trasmesso il segnale in codice stabilito per l’ inizio dell’attacco : la parola “ Tora “ ( tigre ) ripetuta per tre volte, ed ispirata ad un antico proverbio del Giappone che recita : “ La tigre va lontano duemila miglia, ed infallibilmente ritorna “. Come si è già detto, la sorpresa fu totale. Eppure, fin quasi all’ultimo momento, la sorte offrì agli americani alcune occasioni di rendersi conto di quello che stava per succedere, ma queste opportunità di dare l’ allarme vennero ancora una volta sottovalutate ed ignorate, vuoi per inesperienza, superficialità o negligenza. Infatti, alle ore 06,33, il posamine USS Condor aveva avvistato all’ingresso della rada un sommergibile “ tascabile “, che era stato prontamente affondato con i suoi due uomini di equipaggio dal cacciatorpediniere USS Ward , giunto prontamente sul posto.
Incredibilmente, questo episodio non risvegliò alcun sospetto nel Comando della base. Eppure era evidente che un sommergibile così piccolo non avrebbe mai potuto raggiungere le Hawaii dal Giappone senza il supporto di unità di maggiore tonnellaggio, e che c’ era quindi fondato motivo di sospettare la presenza di una forza ostile nelle vicinanze. Questo mini sommergibile faceva parte di una flottiglia di cinque unità che erano state trasportate in zona a bordo di sommergibili normali. Essi avevano il compito di forzare l’ entrata della base di Pearl Harbor in concomitanza con l’ attacco aereo, allo scopo di completare con i loro siluri la distruzione delle navi nemiche; ma non ebbero successo, e furono tutti e cinque affondati dalla difesa antisommergibili americana, con la perdita di tutti e dieci gli uomini di equipaggio.
Ma la vera e decisiva occasione perduta, per lanciare un allarme sia pure all’ultimo momento, venne dalla clamorosa sottovalutazione dell’avvistamento a mezzo radar della formazione aerea giapponese in avvicinamento. L’ Esercito americano aveva già da tempo progettato la installazione sull’isola di Oahu di sei stazioni radar fisse e di altrettante stazioni mobili, ma ai primi di dicembre solo cinque di queste ultime erano operative, e per di più con personale ancora scarsamente addestrato. Come se non bastasse, queste cinque stazioni di rilevamento venivano messe in funzione soltanto dalle 04.00 alle 07.00 del mattino. Alle ore 07.40 del 7 Dicembre (un quarto d’ora prima che si scatenasse l’ inferno), una queste stazioni, dislocata sulla Punta Kuhaku, rilevò sullo schermo una massa di aerei sconosciuti in rapido avvicinamento. Il soldato di seconda classe George Elliott, che zelantemente si era trattenuto all’apparecchio oltre il prescritto orario di servizio, rimase perplesso, ma giustamente allarmato riferì senza indugio la notizia al Centro Raccolta Informazioni del Comando. L’ ufficiale di guardia in servizio, il tenente Kermit Tyler, anch’egli un novellino senza pratica di servizio, rispose laconicamente con una frase destinata a diventare tragicamente celebre : “ Forget it “, ovvero “ dimenticatene “. Tyler era in buona fede convinto che gli aerei avvistati fossero un gruppo di bombardieri americani B17 Flying Fortress, il cui arrivo era atteso ad Oahu da un momento all’altro. Questi aerei effettivamente arrivarono, e proprio nel momento peggiore, perché giunsero nel cielo dell’isola proprio mentre si scatenava l’ attacco giapponese, e si trovarono grandemente a mal partito, perché oltretutto erano completamente disarmati di fronte ai caccia nipponici.
Fu in conseguenza di questo complesso di circostanze, in parte forse sfortunate, in parte sicuramente viziate se non da negligenza quantomeno da colpevole sottovalutazione, che l’ armata aerea ai comandi di Fuchida potè raggiungere la rada di Pearl Harbor del tutto inaspettata. Alle ore 07.55 gli aerei giapponesi erano nel cielo della base navale USA, nella posizione ideale per l’ attacco lungamente studiato e preparato in esercitazione. Sotto di loro, ancorate in bell’ordine in fila l’ una accanto all’altra, le corazzate americane si presentavano come dei bersagli ideali. Come prestabilito, Fuchida ruppe il silenzio radio, e trasmise ai suoi subordinati l’ ordine convenuto : “ Tora ! Tora ! Tora ! “, e gli aerei con il disco rosso del Sol Levante sulle ali si tuffarono all’attacco.
In pochi istanti, la quiete sonnolenta della domenica mattina si trasformò in un inferno, nello sbigottimento dei marinai americani colti completamente di sorpresa. I piloti degli aerosiluranti giapponesi si erano lungamente addestrati nella baia di Kagoshima, riuscendo a risolvere il problema dei bassi fondali del porto fissando alla coda dei siluri degli stabilizzatori di legno appositamente studiati. La prima nave ad essere colpita da ben cinque siluri ottimamente indirizzati fu la corazzata USS Oklahoma; la scafo venne squarciato in tre diversi punti, mentre l’ impianto elettrico generale veniva messo del tutto fuori uso. La nave affondò poco dopo, mentre i suoi marinai cercavano scampo gettandosi in acqua. Quasi contemporaneamente venne colpita in pieno anche la USS California, raggiunta da due siluri, e poi da una bomba da 250 Kg. che, infilandosi in un boccaporto, raggiunse la santa barbara provocando una esplosione terrificante. Appena dieci minuti dopo l’ inizio dell’attacco, alle ore 08.05, la nave sventrata si rovesciò sul fondo melmoso del porto. Miracolosamente, la gran maggioranza dei marinai riuscì a scampare; le vittime sullaCalifornia furono infatti soltanto 98. Ben più tragico il bilancio a bordo della USS Arizona, dapprima colpita da un siluro sotto poppa, e poi colpita da diverse bombe che devastarono la coperta demolendo due delle quattro torri dei cannoni. Si ripeté il caso particolarmente sfortunato della California; una bomba d’ aereo si infilò infatti nel fumaiolo della nave, raggiungendo le sentine ed esplodendo dilaniando la chiglia. Infine, una ultima bomba lanciata da bassa quota centrò il deposito munizioni di prua; la nave venne orrendamente squassata da una enorme palla di fuoco, che in un attimo annichilì centinaia di uomini, tra cui il Contrammiraglio Kidd sul ponte di comando. Sventrata e in fiamme, la nave colò a picco, trascinando con sé nella morte ben 1103 tra ufficiali e marinai, quasi la metà delle perdite totali americane al termine dell’attacco.
Alle ore 08.20, la rada di Pearl Harbor era ormai del tutto in preda ad un caos infernale, tra il sibilo delle bombe, le esplosioni dei siluri, il fischio lacerante degli aerei in picchiata, le acque del porto in fiamme per l’ incendio del carburante uscito a fiotti dai depositi e dai serbatoi squarciati delle navi, mentre la difesa stentava a riprendersi dallo sbalordimento e ad organizzare una reazione. Mentre una parte degli incursori concentrava la propria azione sul bersaglio principale, le navi ancorate in rada, altri aerei si lanciavano a mitragliare e spezzonare le basi aeree americane sull’isola, distruggendo al suolo decine e decine di aeroplani statunitensi, allineati in bell’ordine lungo le piste. In rapida successione, la USS West Virginia venne semidemolita da tre siluri che causarono 105 morti, la USSTennessee venne raggiunta da due bombe perforanti che fecero cinque vittime, e la USSPennsylvania, la nave ammiraglia della flotta, quantunque ricoverata in bacino di carenaggio e protetta da due cacciatorpediniere che andarono completamente distrutti ( USS Cassin e USS Downes ), fu a sua volta colpita da una bomba e devastata da un incendio che causò 18 morti. Ancora peggio andò alla USS Maryland, dove altre due bombe aprirono falle spaventose provocando la morte di ben 415 marinai. Infine la USS Nevada, che tentava di lasciare l’ ormeggio e prendere il mare, venne raggiunta da un siluro e tre bombe, con un bilancio di 50 morti, e rischiò di affondare all’imbocco della rada. Oltre alle corazzate, vennero colpiti e danneggiati in modo più o meno grave, in taluni casi irrimediabile, incrociatori, cacciatorpediniere ed altre navi ausiliarie.
Alle ore 08.40, il comandante Fuchida trasmise per radio alla Flotta il messaggio di missione compiuta, e diede l’ ordine per il rientro agli aerei della prima ondata. Grazie al totale effetto sorpresa, gli attaccanti avevano subito la perdita di soli sette aeroplani. I 171 velivoli della seconda ondata al comando del Capitano di Vascello Shimazaki, che giunsero sull’isola di Oahu alle 08.54 per completare l’ opera di distruzione, ebbero vita più dura, dato che la difesa era ormai pienamente allertata ed era ora in qualche modo capace di una risposta più efficiente. Infatti in questa seconda fase dell’attacco, che si protrasse fino alle ore 09.47, la difesa americana riuscì ad abbattere 22 incursori.
Alle ore 10.00 era tutto finito. L’ intera isola era coperta da enormi nuvole di fumo nero , che si alzavano dagli incendi delle navi, dei depositi di carburante, dei campi di aviazione. L’intera operazione, nella sua fase esecutiva, era durata in tutto due ore scarse. Il bilancio della mazzata inferta dai Giapponesi alla Flotta USA del Pacifico era davvero impressionante; delle 88 navi alla fonda a Pearl Harbor, ben 18 erano state messe del tutto fuori combattimento. Cinque erano state completamente distrutte (Corazzate USS Arizonae USS Oklahoma, Cacciatorpediniere USS Cassin e USS Downes, Nave Bersaglio USSUtah); quattro arenate o colate a picco, ed in seguito faticosamente recuperate ( Corazzate USS California, USS Nevada, USS West Virginia e Posamine USS Oglala ); nove gravemente danneggiate ( Corazzate USS Maryland, USS Pennsylvania e USS Tennessee, Incrociatori USS Helena, USS Honolulu e USS Raleigh, Cacciatorpediniere USS Shaw, Navi Ausiliarie USS Curtis e USS Vestal ).
Provvidenzialmente, dal disastro generale si era salvato quello che era l’ obiettivo strategicamente più importante di tutta l’ operazione, e cioè le tre Portaerei USSEnterprise, USS Lexington e USS Saratoga, che per motivi diversi si trovavano in mare a grande distanza da Pearl Harbor. Questo fortunoso mancato coinvolgimento delle portaerei nella disfatta, avrebbe avuto conseguenze importantissime sullo sviluppo delle successive operazioni belliche nel Pacifico, consentendo agli Stati Uniti, una volta ripresi dallo shock, di passare vittoriosamente alla controffensiva fin dalla primavera del 1942, con le battaglie navali del Mar dei Coralli e soprattutto di Midway. Per quanto riguarda la Aviazione dell’Esercito USA, il bilancio era altrettanto catastrofico : ben 188 aeroplani di tutti i tipi erano stati completamente distrutti sui campi di aviazione dell’isola di Oahu, e altri 159 più o meno gravemente danneggiati. Infine, cosa peggiore di tutte, erano state davvero ingenti le perdite umane, che ammontavano a 2403 morti ( 2008 della US Navy, di cui 1103 sulla sola USS Arizona, 218 dell’ Esercito, 109 dei Marines e 68 civili ). Si contavano inoltre 1178 feriti più o meno gravi. Dal canto loro, gli attaccanti avevano perduto 29 aeroplani ( 15 Bombardieri, nove Caccia e cinque Aerosiluranti, con la perdita di 55 Uomini di Equipaggio ), nonché cinque mini Sommergibili ( con un Equipaggio di due uomini ciascuno ), ed un grande Sommergibile, di cui non è noto il numero dei membri dell’Equipaggio.
Negli Stati Uniti, la notizia dell’aggressione a Pearl Harbor giunse nel primo pomeriggio. Alle ore 13.40, il Presidente Roosevelt era a colazione nella sala ovale della Casa Bianca, quando il Sottosegretario Knox gli annunciò di aver ricevuto da Honolulu un messaggio radio che annunciava un attacco aereo. Alle 14.26, ora di Washington, la radio interruppe la radiocronaca di un avvenimento sportivo per annunciare alla nazione la proditoria azione giapponese. Lo sdegno unanime si diffuse a macchia d’olio in tutto il paese, man mano che le stazioni radio aggiungevano nel pomeriggio sempre nuovi particolari. In Inghilterra, alle 21.00 il Primo Ministro Sir Winston Churchill era a cena con l’ inviato di Roosevelt Averell Harriman e l’ Ambasciatore americano in Gran Bretagna Wynant. Ascoltavano il bollettino militare alla radio ed appresero così la notizia. Churchill chiese ed ottenne nel giro di due minuti una comunicazione diretta con la Casa Bianca. Il dialogo tra Churchill e Roosevelt fu brevissimo : “ Signor Presidente, cos’è questa faccenda del Giappone ? “. “ E’ vera “ rispose Roosevelt “ Ci hanno attaccati a Pearl Harbor. Ora ci troviamo tutti sulla stessa barca “. Con il suo tipico pragmatismo, Churchill replicò “ Questo di certo semplifica le cose. Dio sia con voi “.
Le Polemiche su Pearl Harbor
Nel Giugno del 1944, il Congresso degli Stati Uniti, su proposta del Governo, nominò due commissioni di inchiesta, una per l’ Esercito e l’ altra per la Marina, incaricate di riferire sulle cause della impreparazione militare che era stata all’origine del disastro di Pearl Harbor. Le loro relazioni, molto particolareggiate, furono pubblicate integralmente nell’Agosto del 1945. Il nuovo Presidente USA Harry Truman ( Roosevelt era morto in Aprile dopo lunga malattia ) approvò le conclusioni delle commissioni, che sia pure concludendo per il non luogo a procedere, stabilivano che errori di giudizio erano stati commessi dal Generale Short, Comandante del Dipartimento dell’Esercito per le Hawaii, e che gli Ammiragli Stark e Kimmel, rispettivamente Capo di Stato Maggiore della Marina e Comandante della Flotta del Pacifico, si erano dimostrati inadeguati ai compiti loro assegnati. I suddetti alti ufficiali furono quindi rimossi dai loro incarichi.
Le conclusioni ufficiali tuttavia non misero in alcun modo fine al dibattito ed alla polemica sulle responsabilità del disastro, che anzi con l’ andare del tempo si sono sviluppate fino a trascendere dall’ambito strettamente militare, per arrivare a chiamare in causa più alte responsabilità di carattere politico, riconducibili all’amministrazione in carica a cominciare dal Presidente Franklin Delano Roosevelt. Secondo una tesi che potrebbe essere forse definita “ complottista “, il Governo Americano, favorevole a partire dal Presidente ad un coinvolgimento statunitense nel conflitto contro l’ Asse a fianco dell’Inghilterra, avrebbe di fatto tacitamente permesso che un attacco giapponese, del tutto prevedibile e previsto, spingesse su posizioni interventiste l’ opinione pubblica del paese, fino a quel momento nella sua maggioranza schierata su opinioni isolazioniste e neutraliste. Cosa che in effetti. dopo che la notizia dell’attacco si fu diffusa nel paese, avvenne puntualmente.
Lunedì 8 Dicembre, alle ore 12.29, Roosevelt pronunciò in Campidoglio davanti al Congresso il famoso discorso che iniziava in questo modo : “ Ieri, 7 Dicembre, data che resterà simbolo di infamia, gli Stati Uniti d’ America sono stati improvvisamente e deliberatamente attaccati da forze aeree e navali dell’Impero Giapponese … “. Subito dopo il Senato approvò all’unanimità la guerra al Giappone, ed alla Camera soltanto una anziana deputatessa del Montana, che già aveva votato contro l’ intervento americano nella Prima Guerra Mondiale nel 1917, fece mancare la propria approvazione. Tutto il resto del paese, fremente di sdegno e di furore per i lutti e l’ umiliazione subiti, reclamava ora a gran voce vendetta contro i “ musi gialli “. Si verificava puntualmente quello che lo stesso Yamamoto, che come si è detto non era personalmente entusiasta della prospettiva di un conflitto con gli USA, aveva lucidamente previsto; quando alcuni suoi ufficiali gli chiesero perché non si unisse alle rumorose manifestazioni di entusiasmo del suo Stato Maggiore per lo strepitoso successo del piano da lui ideato, pare che rispondesse : “ E’ come se avessimo ridestato un gigante addormentato, che ora è ben sveglio e bramoso di vendicarsi … “. Certo, non poteva però immaginare che un anno e mezzo dopo, il giorno 18 Aprile 1943, gli americani gli avrebbero presentato personalmente il conto nel cielo di Bougainville, nelle Isole Salomone.
La teoria che abbiamo definito “ complottista “ resta a tutt’oggi non dimostrata, e tale probabilmente resterà per sempre, a meno della comparsa decisamente improbabile di nuove evidenze documentali; tuttavia, sono tali e tanti gli elementi che inducono alla perplessità da lasciare sostanzialmente irrisolto il quesito di fondo : il disastro fu dovuto semplicemente ad una catena fortuita di circostanze sfortunate, di errori e negligenze, o forse il Governo USA ignorò deliberatamente tutte le segnalazioni relative al progettato attacco giapponese, consentendo così ai nipponici l’ opportunità di sferrare il primo colpo, ed in tal modo provocare uno shock nazionale che inducesse il Congresso e la Nazione ad appoggiare entusiasticamente come un sol uomo la decisione di entrare in guerra contro le Potenze dell’Asse? Per parte nostra, ci limiteremo ad evidenziare i fatti documentati, lasciando che il lettore arrivi per conto suo alla conclusione che gli sembra più ragionevole; in questa ottica, ci sembra opportuno tenere presenti per prima cosa quelle che sono state le conseguenze macro-strutturali, di carattere interno e di carattere internazionale, che sono derivate dalla decisione statunitense di intervenire nel Secondo Conflitto Mondiale, e poi dalla conclusione di quest’ultimo. Sul piano interno, è un dato di fatto oggettivo che fu lo spettacolare sviluppo dell’industria di guerra il fattore economico che permise agli Stati Uniti di uscire definitivamente dalle difficoltà che si erano originate dalla Grande Depressione del 1929 e che si erano trascinate per tutti gli anni Trenta, solo parzialmente alleviate dalle politiche rooseveltiane del New Deal. In un territorio del tutto immune ( con l’ unica eccezione iniziale di Pearl Harbor ) dalle devastazioni del conflitto, questo formidabile sviluppo produttivo pose definitivamente le basi per lo sviluppo di quella che conosciamo come “ Società dei Consumi “. Sul piano internazionale, è altrettanto oggettivo che la conclusione della Seconda Guerra Mondiale determinò un radicale cambiamento dell’assetto geo-strategico del mondo, con il definitivo tramonto della centralità dell’Europa, a vantaggio di un nuovo bipolarismo tra potenze extra-europee.
Questo almeno fino al 1989, alla caduta del Muro di Berlino ed alla successiva implosione della Unione Sovietica, che ha indotto molti analisti dell’epoca a dare ormai come definitiva ed irreversibile la affermazione globale dell’Impero Americano sul mondo. E’ altrettanto un dato di fatto che gli ambienti intellettuali, finanziari e industrial-militari che facevano capo alla Amministrazione di George W. Bush hanno apertamente teorizzato il XXI Secolo come il “ nuovo Secolo Americano “. Oggi, la realtà della globalizzazione mondiale ci dice in modo molto evidente che il progetto di universalizzazione, condotto in modo più o meno forzoso, del modello economico e culturale statunitense, è decisamente in fase di avanzata realizzazione. Appare pertanto verosimile che uno degli esponenti di punta della Amministrazione Bush e della cultura “ Neo-con “, Mr. Paul Wolfofitz, poi Presidente della Banca Mondiale, abbia avuto a dire che per la completa realizzazione del dominio imperiale americano sul mondo era necessario un pretesto che consentisse di passare all’azione “ manu militari “, serviva cioè una “ nuova Pearl Harbor “. Proprio quello che molti hanno visto, o hanno voluto vedere, nell’attacco alle Twin Towers di New York dell’ 11 Settembre 2001. A proposito del quale non a caso sono fiorite tante teorie ancora una volta più o meno “ complottiste “, alcune fantasiose, altre molto ben motivate ed argomentate, sulla base delle più che evidenti contraddizioni ed incongruenze della versione ufficiale. Non vogliamo ulteriormente approfondire questo aspetto, che ci porta a trattare un’ altra storia rispetto a quella che stiamo esaminando in questa sede; ci sembra però opportuno evidenziare che, come sempre avviene, la storia di oggi si origina dalla storia di ieri se non di ancor prima, e che fatti storici tra loro molto distanti nel tempo e nello spazio presentano a volte similitudini sorprendenti, talvolta inquietanti.
Torniamo quindi ai dubbi che tuttora circondano l’antefatto di Pearl Harbor. Sulla base delle considerazioni geo-politiche esposte in apertura, nonché delle informazioni fornite dai Servizi di Intelligence, risulta chiaro che l’ Amministrazione USA era perfettamente consapevole della imminenza di atti ostili da parte del Giappone. L’ offensiva nipponica era non solo prevedibile, ma prevista. Sir Basil Liddel Hart, uno dei più illustri storici britannici, è del parere che non ci fu alcuna sorpresa. Secondo la sua opinione, era unanimemente riconosciuto già dal 1931, che privare il Giappone delle indispensabili forniture di petrolio e acciaio avrebbe significato spingerlo ineluttabilmente alla guerra. Quel passo era stato compiuto con l’ embargo petrolifero decretato dal Presidente Roosevelt il 26 Luglio 1941; in un colpo, come scrisse Churchill, il Giappone era stato privato di tutte le forniture vitali. A quel punto, conclude Liddell Hart, l’ unica sorpresa è che il Giappone abbia aspettato ancora quattro mesi prima di attaccare. Oltre a ciò, l’ Impero del Sol Levante poteva vantare, si fa per dire, una lunga tradizione, risalente al Medio Evo, di attività belliche iniziate a tradimento, senza formale dichiarazione di guerra; per trovare l’ ultimo clamoroso esempio non occorreva risalire tanto indietro nel tempo; infatti nel 1904, allo scoppio della Guerra Russo-Giapponese, i nipponici avevano attaccato Port Arthur due giorni prima di una dichiarazione di guerra ufficiale. Ma anche questa recente lezione sulle abitudini giapponesi non aveva evidentemente insegnato nulla agli americani, oppure si era volutamente deciso di non tenerne conto.
Una volta dato per scontato un imminente attacco dei Giapponesi nel Pacifico, risultava abbastanza chiaro che l’ obiettivo per questi più logico era naturalmente rappresentato da quella che era la più importante base navale americana nel teatro, ovvero Pearl Harbor, nella quale per di più era concentrata la maggior parte della flotta. D’altra parte, è altresì vero che l’ azione giapponese, dal punto di vista strettamente militare, fu assolutamente rivoluzionaria. Fino a quel momento, la strategia di guerra navale universalmente condivisa a livello internazionale, e concepita essenzialmente sull’impiego di navi da battaglia corazzate, si basava sull’assunto strategico che era vantaggioso combattere in acque situate vicino alla madrepatria. Yamamoto letteralmente ribaltò questa impostazione strategica convenzionale, dimostrando per primo l’ importanza fondamentale che nella guerra navale moderna avrebbero assunto le porterei e le forze aeree imbarcate, ed altresì dimostrando nel modo più efficace la possibilità di operare con successo in aree lontanissime dalle acque di casa. La strategia innovativa di Yamamoto obbligò gli altri belligeranti a rivedere completamente le dottrine di guerra navale fino ad allora comunemente accettate. Ma sulla base di queste, risulterebbe abbastanza ragionevole la convinzione ampiamente diffusa nelle alte sfere americane, e cioè che un attacco contro le Hawaii fosse del tutto improbabile, e ci si dovesse piuttosto attendere una offensiva nipponica orientata verso le Filippine, la Malesia e l’ Indonesia. La strategia giapponese, inizialmente vincente, sorprese effettivamente l’ avversario, optando risolutamente per la soluzione più audace,quella di attaccare contemporaneamente su tutte le direttrici, compresa quella ritenuta più improbabile.
Eppure, con largo anticipo, non erano mancate opinioni più lungimiranti, che però vennero del tutto ignorate. Infatti il 24 Gennaio 1941, ben dieci mesi prima dell’attacco, il Ministro della Marina USA Ammiraglio Frank Knox aveva presentato al Governo un rapporto, redatto insieme al Generale Martin ed all’Ammiraglio Bellinger, nel quale si scriveva : “ E’ assai probabile che le ostilità con il Giappone si aprano con un attacco brusco contro la nostra flotta di Pearl Harbor, che precederà la dichiarazione di guerra. I precedenti dimostrano che le forze dell’Asse attaccano preferibilmente il sabato o la domenica … I pericoli in ordine di probabilità sono i seguenti : bombardamento aereo, attacco di aerosiluranti, sabotaggio, cannoneggiamento “. Come si vede, una previsione quasi profetica, formulata con largo anticipo, di quello che poi effettivamente successe, e che tuttavia rimase del tutto lettera morta. Ma anche in seguito, non mancarono altri campanelli d’ allarme, che per un qualche motivo non furono ascoltati.
Il giorno 3 Novembre, un mese circa prima dell’attacco, l’ Ambasciatore americano a TokyoJoseph Grew ricevette una visita dell’Ambasciatore del Perù, il quale lo informò di avere raccolto in ambienti ufficiali giapponesi la voce che la Marina Imperiale stava preparando un attacco contro Pearl Harbor. L’ambasciatore trasmise senza indugio la notizia a Washington, ma la risposta che ricevette dagli Stati Uniti lo lasciò basito; i suoi superiori si meravigliavano che un uomo avveduto quale egli era si prestasse a credere a simili bubbole. Ma la serie dei particolari sconcertanti non è ancora finita.
Il 27 Novembre, il giorno successivo alla rottura delle trattative tra USA e Giappone in seguito alla presentazione del Memorandum dei Dieci Punti, il Capo di Stato Maggiore della Marina Statunitense, Ammiraglio R Stark, diramò a tutti i comandi navali, e quindi anche a quello delle Hawaii, un telegramma di questo tenore : “ Avviso di guerra imminente. Le trattative col Giappone per stabilizzare la situazione nel Pacifico sono cessate ed è da attendersi una mossa aggressiva da parte dei Giapponesi nei prossimi giorni “. Il messaggio proseguiva indicando quelle che si riteneva fossero le probabili direttrici dell’ offensiva nipponica : le Filippine, la Thailandia, il Borneo. Nessun cenno alle Hawaii. L’Ammiraglio HE Kimmel, Comandante della base di Pearl Harbor, ritenne quindi di non dover prendere nessuna precauzione particolare oltre a quelle normalmente vigenti ( come abbiamo visto del tutto insufficienti ). L’ attacco giapponese lo troverà alle ore 07.55 in tenuta da golf, in attesa del collega dell’Esercito Generale Short per la abituale partita della domenica mattina.
Dal canto suo il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Generale George Marshall, lo stesso giorno telegrafava in questo modo al Generale WC Short, Comandante della piazza di Pearl Harbor : “ I negoziati con i Giapponesi sono praticamente finiti … Non è prevedibile quale sarà la futura azione giapponese, ma atti ostili sono possibili in qualsiasi momento. Qualora non si possano evitare le ostilità, gli Stati Uniti desiderano che sia il Giappone a commettere il primo atto di ostilità aperta … Prima che i Giapponesi inizino le ostilità, fate eseguire ricognizioni e tutto quello che ritenete opportuno, ma tali misure devono essere prese in modo da non allarmare la popolazione civile … “. Short per parte sua rispose semplicemente : “ Dipartimento in allarme contro sabotaggi. Collegamento con la Marina “. Non avendo ricevuto ulteriori istruzioni da Washington, ritenne come sufficiente ed approvato il blando provvedimento di un maggiore controllo dei movimenti della popolazione di origine giapponese da parte del controspionaggio.
Ma uno dei dettagli forse più sconcertanti è indubbiamente questa nota scritta nel suo diario dal Segretario alla Guerra Frank Stimson, la sera di quello stesso 27 Novembre : “ Il Presidente prevede che noi saremo attaccati probabilmente il prossimo lunedì … Il problema è di come noi potremmo manovrare per indurli a sparare il primo colpo “. E’ proprio questa frase, oggettivamente ambigua, quella che i sostenitori delle tesi “complottiste“ ritengono essere la prova decisiva della “ cospirazione “ ordita da Roosevelt ed al suo Gabinetto Ministeriale per trascinare in guerra gli Stati Uniti. Coloro che invece sostengono la buona fede della Amministrazione USA, pur dovendo ammettere che l’ uso del verbo “ manovrare “ da parte di Stimson è decisamente infelice, ritengono che l’annotazione non rappresenti altro che la chiara intenzione da parte degli Stati Uniti di voler evitare di provocare il Giappone con atti di aperta ostilità, preferendo senz’ altro che fossero i nipponici ad assumersene la responsabilità. Come del resto esplicitamente confermato dal sovracitato telegramma da Marshall a Short. Ma la catena delle coincidenze più o meno sfortunate, delle negligenze più o meno colpevoli è tutt’ altro che conclusa, come ora vedremo.
La sera del 6 Dicembre, i servizi di controspionaggio americani intercettano una lunga nota del Governo giapponese, dai toni durissimi, indirizzata all’ Ambasciatore nipponico a Washington, con l’ istruzione di consegnarla il giorno dopo al Segretario di Stato Cordell Hull. Il Presidente Roosevelt ne ha subito una copia, e dopo averla letta con attenzione, esclama : “ Questo significa la guerra “. Eppure, per quanto incredibile possa sembrare, di questa nota non vengono informati i Capi di Stato Maggiore dell’ Esercito e della Marina Marshall e Stark. Ma non basta ancora : alle 09.15, ora di Washington, che corrisponde alle 02.45 di Pearl Harbor, viene intercettato un nuovo importante messaggio giapponese, nel quale Tokyo ordina al suo ambasciatore di distruggere i cifrari ed i documenti più importanti, e poi di consegnare al Segretario di Stato Hull la nota ricevuta il giorno prima alle ore 13.00 in punto. Uno dei dirigenti del’ Ufficio Informazioni Navali, il Comandante Mac Collum, consultando la carta dei fusi orari, constata che le 13.00 di Washington corrispondono alle 07.30 di Pearl Harbor. L’ Ammiraglio Stark riceve la segnalazione pochi minuti dopo, ma obietta che deve essere il Generale Marshall a dare l’ ordine di allarme alle truppe delle Hawaii. Sfortunatamente quella domenica mattina Marshall è uscito per una passeggiata a cavallo; si riesce a rintracciarlo soltanto alle 11.15. Una volta letti i messaggi, il Generale dà immediatamente l’ ordine di allarme. Ma ancora una volta, come si usa dire, il diavolo ci mette la coda. Per una serie di ragioni di natura burocratica, il messaggio “ urgente “ viene spedito non attraverso i canali di comunicazione della Marina, bensì attraverso quelli dell’ Esercito, che sono già ingolfati da una valanga di dispacci altrettanto urgenti. Come se non bastasse, viene inoltrato non sulla rete radiotelegrafica militare, bensì sulla normale rete commerciale, sovraccarica di lavoro come tutte le domeniche. Al messaggio non viene quindi data alcuna particolare precedenza, ed il suo inoltro a destinazione segue la normale catena di prenotazioni. Verrà consegnato da un ragazzo in bicicletta al Generale Short soltanto dopo mezzogiorno, quando l’ attacco giapponese si è ormai concluso da più di due ore, e tutta la rada è un mare di fiamme e di fumo.
La penultima mancata occasione di dare l’ allarme a Pearl Harbor, come già accennato, si verifica alle ore 06.33 del mattino, il posamine USS Condor avvista all’ ingresso della rada un sommergibile “ tascabile “, che viene prontamente affondato con i suoi due uomini di equipaggio dal cacciatorpediniere USS Ward alle ore 06.45. Ma non basta ancora : l’ episodio si ripete un quarto d’ ora più tardi, poco prima delle 07.00, quando un altro cacciatorpediniere americano affonda un altro mini sommergibile proprio all’ ingresso del porto; in ambedue i casi i relativi rapporti operativi degli ufficiali comandanti le navi vengono prontamente inoltrati alla centrale operativa; ma in ambo i casi, incredibilmente, i responsabili dell’ Ufficio Operazioni del Distretto Navale non attribuiscono alcuna importanza alle segnalazioni, ritenendoli il risultato di avvistamenti fasulli. Stanno ancora discutendo tra loro, quando alle 07.55 su Pearl Harbor cominciano a piovere le bombe giapponesi. Infine, della totale sottovalutazione dell’ avvistamento radar della formazione giapponese in avvicinamento si è già detto in apertura . Questo il resoconto dei fatti documentati inerenti alle sottovalutazioni, negligenze ed omissioni che portarono al disastro. Decida quindi il lettore, sulla base dei fatti, a quale tesi circa le responsabilità del disastro accordare il proprio consenso.
RIEPILOGO GENERALE DATI Pearl Harbor 07 Dicembre 1941
Forze Militari USA dislocate a Pearl Harbor
Nove Corazzate – Tre Portaerei – Dodici Incrociatori Pesanti – Nove Incrociatori Leggeri Ventisette Sommergibili – Due Divisioni di Fanteria con 43.000 Uomini – 1107 Pezzi di Artiglieria Contraerea a terra e imbarcati – 227 Aerei di cui 152 Caccia
Data dell’ Attacco Domenica 7 Dicembre 1941 alle ore 07.55 del mattino
Messaggio in Codice per la Forza di Attacco Giapponese “ Niitaka Yama Nobora “ ( Scalate il Monte Niitaka )
Messaggio in Codice per l’ inizio dell’ attacco “ Tora ! Tora ! Tora ! “ ( Tora = Tigre )
Composizione della Flotta Giapponese :
Flotta di Attacco ( Ammiraglio Nagumo ) Sei Portaerei
Flotta di Appoggio ( Ammiraglio Mikawa ) Due Corazzate – Due Incrociatori pesantiFlotta Esplorante ( Ammiraglio Omori ) Un Incrociatore – Nove Cacciatorpediniere Ventotto Sommergibili
Flotta di Rifornimento con Otto Petroliere
Forza Aerea Giapponese di Attacco : 353 Aerei imbarcati
Prima Ondata di Attacco ( Capitano di Vascello Mitsuo Fuchida ) : 183 Aerei ( 51 Bombardieri a Tuffo – 49 Bombardieri in Quota – 40 Aerosiluranti – 43 Caccia )
Seconda Ondata di Attacco ( Capitano di Vascello Shimazaki ) : 171 Aerei
Perdite subite in totale : 29 Aerei perduti ( 15 Bombardieri – 9 Caccia – 5 Aerosiluranti ) 55 Piloti ed Uomini di Equipaggio caduti in combattimento
Un grande Sommergibile perduto con tutto l’ Equipaggio ( numero sconosciuto )
Cinque Sommergibili tascabili perduti con Dieci Uomini di Equipaggio caduti
Perdite US Navy – 18 Navi in vario modo fuori combattimento
Cinque Navi distrutte ( Corazzate USS Arizona e USS Oklahoma )
Cacciatorpediniere USS Cassin e USS Downes – Nave Bersaglio USS Utah )
Quattro Navi arenate o colate a picco in seguito recuperate ( Corazzate USS California, USSNevada e USS West Virginia – Posamine USS Oglala )
Nove Navi gravemente danneggiate ( Corazzate USS Maryland, USS Pennsylvania e USSTennesse, Incrociatori USS Helena, USS Honolulu e USS Raleigh – Cacciatorpediniere USSShaw Navi Ausliarie USS Curtis e USS Vestal )
Perdite USAAF – 188 Aerei distrutti – 159 Aerei più o meno danneggiati
Perdite Umane USA – 2403 Morti ( 2008 US Navy – 218 US Army -109 US Marines 68 Civili ) – 1178 Feriti più o meno gravi tra militari e civili
FONTI BIBLIOGRAFICHE
Angelo Iachino Il Radar vide, ma nessuno sospettò articolo pubblicato su “ Storia Illustrata “ N° 26 del Giugno 1960 – Pgg. 831/843 Arnoldo Mondadori Editore – Milano 1960
Ivan Palermo 7 Dicembre 1941 : dal Cielo scende l’ Inferno articolo pubblicato su “ Storia Illustrata “ N° 131 dell’ Ottobre 1968 – Pgg. 20/26 Arnoldo Mondadori Editore – Milano 1968
Giuseppe Mayda La spaventosa Alba di Pearl Harbor articolo pubblicato su “ Storia Illustrata “ N° 160 del Marzo 1971 – Pgg. 110/121 Arnoldo Mondadori Editore – Milano 1971
Arrigo Petacco Processo a Roosevelt articolo pubblicato su “ Storia Illustrata “ N° 213 dell’Agosto 1975 – Pgg. 28/33 Arnoldo Mondadori Editore – Milano 1975
Pearl Harbor 7 Dicembre 1941
Questo articolo è stato scritto dall’amico prof. Pier Luigi Menegatti, al quale va come sempre la nostra gratitudine.