L'incendio - le cui cause non sono mai state del tutto chiarite, anche se oggi la maggior parte degli storici è convinta che la principale causa sia stata un sabotaggio russo - distrusse circa tre quarti della città, mettendo in grande difficoltà l'armata francese e spingendo Napoleone a ritirarsi il mese successivo.
Non esistono francobolli raffiguranti le fiamme che ridussero in cenere Mosca, ma c'è un esemplare che l'emirato arabo Ajman emise nel 1971 che ci consente di immaginare lo stato d'animo dell'imperatore francese in quei tragici momenti. Il francobollo da 30 dirhams fa parte di una serie di 12 valori emessa in occasione del 150° anniversario della morte del condottiero e riproduce un famoso quadro del pittore russo Vasili Vasilyevich Vereshchagin intitolato "Napoleone nel Palazzo Petroff". Palazzo Petroff è l'edificio dove Napoleone e il suo Stato Maggiore si erano trasferiti dal Cremlino per mettersi al riparo. L'espressione del volto dell'imperatore mentre osserva dalla finestra le fiamme che avvolgono Mosca ci trasmette tutto il suo sconforto e i pensieri più foschi sull'imminente ritirata.
Napoleone entrò a Mosca solo al calar della notte. Si fermò in una delle prime case del sobborgo. Si fermò in una delle prime case del sobborgo di Dorogomilov. Proprio lì nominò il maresciallo Mortier governatore di quella capitale. “Soprattutto, – gli disse, – niente saccheggi! Me ne risponderete con la vostra testa. Difendete Mosca da tutti e contro tutti.”
Fu una notte triste: giungevano, uno dopo l’altro, sinistri rapporti. A rivelare il progetto dell’incendio si presentarono alcuni Francesi residenti nel paese, e persino un ufficiale della polizia russa, il quale fornì tutti i particolari sui preparativi fatti. L’imperatore, scosso, cercò invano un po’ di riposo. Chiamava ad ogni istante e si faceva ripetere la fatale notizia. Si trincerava tuttavia ancora nell’incredulità, quando, verso le due del mattino, apprese che l’incendio era scoppiato.
Era scoppiato nel palazzo del Commercio, al centro della città, nel quartiere più ricco. Napoleone dà immediati e ripetuti ordini. Fattosi giorno, accorre sul luogo personalmente e proferisce minacce all’indirizzo della Giovane Guardia e di Mortier. Il maresciallo gli indica alcune case coperte di ferro; sono chiuse, ancora intatte e senza il minimo segno di effrazione: eppure già ne esce una nuvola di fumo nero. Napoleone, tutto pensieroso, entra nel Cremlino.
Alla vista del palazzo, insieme gotico e moderno, dei Romanov e dei Riurik, alla vista del loro trono ancora intatto, della famosa croce del grande Ivan e della parte più bella della città che il Cremlino domina e che le fiamme, ancora circoscritte al bazar, sembra debbano rispettare, si riaccendono in lui le primitive speranze. La sua ambizione è lusingata da quella conquista; lo si ode esclamare: “Eccomi dunque finalmente a Mosca, nell’antico palazzo degli zar! nel Cremlino!” Egli ne esamina tutti i particolari con orgoglio curioso e soddisfatto.
Tuttavia, si fa fare un bilancio delle risorse che offre la città, e in quel breve momento, tutto volto alla speranza, scrive parole di pace all’imperatore Alessandro. Un ufficiale superiore nemico, trovato nell’ospedale maggiore, fu incaricato di recapitare la lettera. Al sinistro bagliore dell’incendio del bazar, Napoleone la terminò e il Russo partì. Questi portò certamente la notizia del disastro al suo sovrano, di cui quell’incendio fu l’unica risposta.
La luce del giorno favorì gli sforzi del duca di Treviso; egli ebbe ragione del fuoco. Gli incendiari rimasero nascosti. Si dubitava persino che esistessero. Infine, impartiti ordini severi, ristabilito l’ordine, cessate per il momento le preoccupazioni, ognuno andò a prendere possesso di una casa comoda o di un palazzo sontuoso, pensando di trovarvi gli agi acquistati con così lunghe e smisurate privazioni.
Due ufficiali si erano sistemati in uno degli edifici del Cremlino. Di lì, il loro sguardo poteva abbracciare i settori settentrionale e occidentale della città. Verso mezzanotte, un chiarore straordinario li sveglia. Si affacciano e vedono alcuni palazzi in preda alle fiamme che prima ne illuminano e poi ne fanno crollare le eleganti e nobili strutture. I due ufficiali notano che il vento del nord spinge le fiamme direttamente sul Cremlino e si preoccupano per quel recinto nel quale riposano il fior fiore dell’armata e il suo capo. Temono inoltre per tutte le case circostanti, nelle quali i nostri soldati, la nostra gente e i nostri cavalli, stanchi e sazi di cibo, sono certamente immersi in un sonno profondo. Faville e frammenti ardenti volavano già fin sui tetti del Cremlino, quando il vento del nord, volgendosi verso ovest, li spinse in un’altra direzione.
Allora, rassicurato sulla sorte del suo corpo d’armata, uno di quei due ufficiali si rimette a dormire esclamando: “Tocca agli altri sbrigarsela, la cosa non ci riguarda più.” Tale era infatti l’indifferenza determinata da quella molteplicità di eventi e di sventure cui si era ormai come insensibili e tale l’egoismo prodotto dall’eccesso di fatiche e di sofferenze, che ad ognuno erano rimasti ormai soltanto i sentimenti e le forze indispensabili all’espletamento del proprio servizio e alla conservazione della propria persona.
Tuttavia nuovi e vivaci bagliori svegliano per la seconda volta i due ufficiali ed essi vedono alzarsi altre fiamme sospinte sul Cremlino dal nuovo orientamento del vento, e maledicono l’imprudenza e l’indisciplina dei Francesi cui attribuiscono la responsabilità del disastro. Tre volte il vento cambia direzione da nord a ovest e tre volte quelle fiamme nemiche, vendicatrici, ostinate e come accanite contro il quartiere imperiale, sembrano impazienti di prendere la nuova direzione.
A tal vista, nasce nei due uomini un terribile sospetto. I Moscoviti, conoscendo la nostra temeraria e negligente noncuranza, hanno forse concepito la speranza di bruciare insieme con Mosca i nostri soldati ebbri di vino, di fatica e di sonno? o forse anche hanno osato pensare di coinvolgere Napoleone nella catastrofe, che la perdita di un simile uomo valesse bene quella della loro capitale, che era un risultato abbastanza grande per sacrificarvi l’intera Mosca, che forse il cielo per concedere loro una vittoria tanto grande voleva un sacrificio altrettanto grande e che infine a quell’immenso colosso occorreva un rogo altrettanto immenso?
Non sappiamo se i Russi nutrirono un simile disegno, ma certo ci volle la buona stella dell’imperatore perché esso non divenisse realtà. Difatti, non soltanto il Cremlino racchiudeva, a nostra insaputa, un magazzino di polveri, ma quella notte stessa, le sentinelle, addormentate e disposte negligentemente, avevano permesso che un intero parco di artiglieria vi entrasse e si sistemasse sotto le finestre di Napoleone.
Era proprio il momento in cui le fiamme furibonde dardeggiavano da tutte le parti, ma con maggior violenza sul Cremlino; il vento, infatti, certo attirato dalla grande combustione, aumentava d’impeto ad ogni istante. Il fiore dell’armata e l’imperatore sarebbero stati perduti se una sola delle faville che volavano sopra le nostre teste si fosse posata su uno solo dei cassoni. Così, per parecchie ore, la sorte dell’intera armata dipese da ognuna delle scintille che attraversavano l’aria.
Finalmente spuntò il giorno, un giorno tetro, che si sovrappose a quel grande orrore, facendolo impallidire, togliendogli i suoi bagliori. Molti ufficiali si rifugiarono nelle sale del palazzo. Anche i comandanti in capo e lo stesso Mortier, vinti dall’incendio che combattevano da trentasei ore, vi si ritrovarono, prostrati dalla fatica e dalla disperazione.
Essi tacevano e noi ci accusavamo. I più erano convinti che l’indisciplina e l’ubriachezza dei nostri soldati avessero dato inizio al disastro che ora la tempesta stava completando. Ci guardavamo l’un l’altro con una specie di disgusto. Il grido d’orrore che avrebbe gettato l’Europa ci atterriva. Ci parlavamo ad occhi bassi, costernati da una catastrofe tanto spaventosa che insozzava la nostra gloria, ce ne strappava i frutti, minacciava la nostra vita presente e futura: eravamo ormai soltanto un’armata di criminali di cui il cielo e il mondo civile dovevano far giustizia. Emergevamo da quell’abisso di pensieri e dagli scatti di furore contro gli incendiari, solo per andare all’avida ricerca di notizie, le quali tutte cominciavano ad attribuire ai soli Russi la responsabilità del disastro.
Giungevano infatti ufficiali da tutte le parti e tutti concordavano. La prima notte, quella tra il 14 e il 15, un globo in fiamme era calato sul palazzo del principe Trubezkoi, distruggendolo: era un segnale. Subito dopo, era stato appiccato il fuoco alla Borsa; soldati russi di polizia era stati visti attizzarlo con lance incatramate. Altrove, in parecchie case, erano esplose delle granate, perfidamente piazzate nelle stufe, e avevano ferito i soldati che vi si affollavano intorno. Allora i soldati si erano ritirati in quartieri ancora intatti ed erano andati a scegliersi altri alloggi; ma, mentre si accingevano ad entrare in quelle case sprangate e disabitate, avevano udito il rumore di una debole esplosione che veniva dall’interno; questa era stata seguita da una leggera fumata, fattasi in breve densa e nera, poi rossastra, infine color del fuoco, finché, di lì a poco, l’intero edificio era sprofondato in un baratro di fiamme.
Tutti avevano visto uomini, orrendi in volto e coperti di stracci, e donne furibonde aggirarsi tra le fiamme, quasi a dare l’ultimo tocco a quella spaventosa visione d’inferno. Quegli sciagurati, inebriati dal vino e dal buon esito dei loro crimini, ormai non si degnavano nemmeno di nascondersi e percorrevano trionfanti le strade in preda alle fiamme; venivano sorpresi con le torce in pugno mentre si accanivano a diffondere l’incendio e bisognava tagliar loro le mani a sciabolate per farli recedere dall’impresa. Nelle nostre file si diceva che quei banditi erano stati scatenati dai comandanti russi per bruciare Mosca e che, effettivamente, una così grave ed estrema risoluzione poteva essere presa solo dal patriottismo ed eseguita solo dal crimine.
Presto venne dato l’ordine di giudicare e fucilare sul posto tutti gli incendiari. L’armata era in assetto di guerra. La Vecchia Guardia, che era tutta sistemata in una parte del Cremlino, aveva preso le armi; i bagagli, i cavalli affardellati, riempivano i cortili; eravamo tetri per lo stupore, per la fatica e per la disperazione di vedere andare in rovina un accantonamento così ricco. Padroni di Mosca, dovevamo dunque andare a bivaccare senza viveri alle sue porte!
Mentre i nostri soldati lottavano ancora con l’incendio e l’armata contendeva al fuoco quella preda, Napoleone, di cui nessuno aveva osato disturbare il sonno durante la notte, si era svegliato al duplice chiarore del giorno e delle fiamme. Di primo impulso, si adirò e volle comandare a quell’elemento: ma subito dopo cedette e si fermò davanti all’impossibile. Stupito di trovare, in un impero che colpito al cuore, sentimenti diversi dalla sottomissione e dal terrore, si sente vinto e superato in risolutezza.
Quella conquista, per la quale ha sacrificato tutto, è come un fantasma che ha inseguito, che ha creduto di afferrare e che ora vede svanire nell’aria, in un turbine di fumo e di fiamme. Un’estrema agitazione si impadronisce allora di lui; lo si direbbe divorato dal fuoco che lo circonda. Ad ogni istante, si alza, fa qualche passo e si risiede bruscamente. Percorre i suoi appartamenti con passo rapido; i suoi gesti brevi e veementi rivelano un crudele, doloroso turbamento: lascia, riprende e lascia ancora un lavoro urgente per precipitarsi alle finestre e contemplare i progressi dell’incendio. Brusche e brevi esclamazioni gli sfuggono dall’animo oppresso. “Che spaventoso spettacolo! Sono stati loro stessi! Tutti quei palazzi! Che risolutezza straordinaria! Che uomini! Sono proprio degli Sciti!”
Tra lui e l’incendio ci sono un vasto spiazzo deserto e poi la Moscova e le sue due rive, eppure i vetri delle finestre alle quali egli si appoggia sono già ardenti e il lavoro ininterrotto degli spazzini disposti sul tetto di ferro del palazzo non basta ad allontanare i numerosi fiocchi di fuoco che cercano di posarvisi.
In quell’istante, si diffonde la voce che il Cremlino è minato: lo hanno detto alcuni Russi, certi scritti lo confermano; qualche domestico perde la testa per il terrore; i militari attendono impassibili quel che l’ordine dell’imperatore e il loro destino decideranno e l’imperatore risponde a quell’apprensione solo con un sorriso incredulo.
Egli continua a passeggiare nervosamente; ad ogni finestra si ferma e guarda il terribile elemento vittorioso che divora furiosamente la sua splendida conquista, si impadronisce di tutti i ponti, di tutti i passaggi della sua fortezza, lo circonda, lo tiene come assediato, invade, un minuto dopo l’altro, le case circostanti e, stringendolo sempre più da vicino, lo riduce infine alla sola cinta del Cremlino.
Ormai respiravamo soltanto fumo e cenere. La notte si approssimava e si apprestava ad aggiungere le sue tenebre ai nostri pericoli; il vento equinoziale, d’accordo con i Russi, raddoppiava di violenza. Vedemmo allora accorrere il re di Napoli e il principe Eugenio; unitisi al principe di Neuchâtel, si recarono dall’imperatore e sollecitandolo con le preghiere, con i gesti, in ginocchio, tentarono di strapparlo da quel luogo di desolazione. Invano.
Napoleone, finalmente padrone del palazzo degli zar, s’intestardiva a non cedere quella conquista nemmeno all’incendio quando, improvvisamente, un grido “Il fuoco è nel Cremlino!” passa di bocca in bocca, strappandoci allo stupore contemplativo che ci aveva presi. L’imperatore esce per rendersi conto del pericolo. Nell’edificio in cui egli si trova il fuoco è stato appiccato due volte e due volte è stato spento; la torre dell’arsenale però brucia ancora. I nostri vi hanno sorpreso un soldato di polizia. Egli viene condotto davanti a Napoleone che lo fa interrogare in sua presenza. Quel Russo è l’incendiario: ha eseguito la consegna ricevuta al segnale datogli dal suo capo. Tutto è dunque votato alla distruzione, anche l’antico e sacro Cremlino.
L’imperatore fece un gesto di disprezzo e di collera; quell’infame fu condotto nel primo cortile dove i granatieri, furibondi, lo fecero spirare sotto le loro baionette.
Quello che avete letto è l’eccezionale resoconto di Philippe-Paul de Ségur, generale di brigata francese che partecipò alla sfortunata campagna di Russia. Se volete continuare a leggere la Storia di Napoleone e della Grande Armata nell’anno 1812 potete farlo prelevando il volume dalla biblioteca dell’Antica Frontiera.