Albania, Cecoslovacchia, Germania Est e Guinea-Bissau sono solo quattro tra i tanti Paesi che hanno dedicato francobolli a questo decisivo episodio della Seconda Guerra Mondiale, un titanico scontro che dopo quasi sei mesi di durissimi combattimenti segnò la prima grande sconfitta politico-militare della Germania nazista e dei suoi alleati e satelliti, nonché l'inizio dell'avanzata sovietica verso ovest che sarebbe terminata due anni dopo con la conquista del palazzo del Reichstag e la morte di Hitler nel bunker della Cancelleria durante la battaglia di Berlino.
Per celebrare la battaglia che da alcuni storici è stata definita come "la più importante di tutta la Seconda guerra mondiale" abbiamo naturalmente scelto le sei emissioni sovietiche che nel corso degli anni si sono susseguite.
Le prime due risalgono addirittura al periodo bellico. Quella del 1944 è una serie di quattro valori dedicata alla liberazione delle città di Odessa, Sebastopoli, Leningrado (oggi San Pietroburgo) e appunto Stalingrado (oggi Volgograd). Quest'ultimo esemplare, da 30 kopechi, mostra una medaglia commemorativa, una mappa della città e alcuni soldati sovietici mentre avanzano con le bandiere rosse. Nel marzo del 1945, poche settimane prima della fine della guerra, venne ricordato il 2° anniversario della battaglia con due valori da 60 kopechi e 3 rubli e un foglietto che comprendeva il francobollo da 3 rubli ripetuto 4 volte e privo di dentellatura. Il soggetto rappresentato in questo caso è sempre lo stesso, un soldato sovietico che tiene in mano la bandiera rossa mentre marcia tra le rovine della città.
La terza emissione è del 1963 e celebra la "grande guerra patriottica del 1941-1945". Nell'esemplare da 4 kopechi riguardante il 20° anniversario della battaglia si vede in primo piano un soldato sovietico davanti a una batteria di lanciarazzi Katiuscia e sullo sfondo una lunghissima fila di prigionieri tedeschi.
Arriviamo quindi alla serie di sette valori da 10 kopechi che l'URSS dedicò alle sue città eroiche. Uno di questi riguarda naturalmente Stalingrado e raffigura una medaglia al centro, mentre ai lati si notano scene della città durante la guerra e nel dopoguerra.
Nel 1968 l'Unione Sovietica commemorò, con una bella emissione di dieci valori da 4 kopechi e un foglietto da un rublo, il cinquantenario del suo esercito. Un francobollo della serie mostra la scultura del memoriale eretto sulla collina Mamaev Kurgan dedicato agli eroi di Stalingrado e sullo sfondo una colonna di prigionieri tedeschi.
L'ultima serie che esamineremo oggi è quella del 1973, fra tutte quelle viste sinora la più corposa, con quattro valori e un foglietto dedicati al 30° anniversario della battaglia. I francobolli rappresentano rispettivamente il monumento alla Madre Patria sulla collina Mamaev Kurgan e la scultura "Difesa fino alla morte" già ricordata nell'emissione del 1968 (3 kopechi), il viale degli eroi (4 kopechi), la scultura "Madre in lutto" (10 kopechi) e la fiamma eterna nella sala della gloria guerriera (12 kopechi), mentre il foglietto contiene due esemplari da 20 kopechi che illustrano il monumento alla Madre Patria sulla collina Mamaev Kurgan da prospettive diverse.
Per gli abitanti di Stalingrado, domenica 23 agosto fu “un giorno che non sarà mai dimenticato”. La città-modello di cui erano così orgogliosi, con i suoi giardini sull’alta sponda del Volga e gli edifici bianchi che le davano il suo aspetto moderno, quasi cubista, diventò un inferno.
Nelle strade gli altoparlanti attaccati ai lampioni cominciarono a ripetere: “Compagni, un allarme aereo è suonato nella città. Attenzione, compagni, un allarme aereo…” La popolazione aveva ascoltato tali e tanti falsi avvertimenti di attacchi aerei, trasmessi con la stessa voce monotona, che inizialmente pochi lo presero sul serio. Solo dopo che le batterie contraeree ebbero aperto il fuoco, la gente si mise a correre in cerca di un riparo. Le persone che trascorrevano la domenica pomeriggio sul Mamaev Kurgan, l’enorme tumulo funebre tartaro alto più di cento metri che dominava il centro della città, erano le più esposte. Lungo le ampie e lunghe vie che correvano parallele al Volga, la massa dei profughi dei distretti più periferici trovò scarsa protezione, a parte le trincee nei cortili e nei giardini scavate dai comitati di edificio per chi non fosse riuscito a raggiungere le cantine in tempo.
L’aviazione di von Richthofen cominciò a bombardare a tappeto in una serie di ondate, “non solo bersagli industriali, ma tutto quanto”, disse uno studente presente quel giorno. Le bombe ad alto potenziale oscillavano mentre scendevano a grappolo dai bimotori Heinkel. Le descrizioni delle scene avvenute in città rendono difficile credere che ci possano essere stati sopravvissuti fuori dalle cantine o dai rifugi antiaerei. Bombe incendiarie caddero sulle case di legno nei quartieri sud-occidentali della città. Furono rasi al suolo, ma tra le ceneri fumanti, gli affusolati camini di mattoni rimasero in piedi in lunghe file come lapidi surreali. Nei paraggi delle rive del grande fiume, le strutture esterne degli edifici per uso abitativo non crollarono anche quando furono colpiti, ma gran parte dei piani all’interno precipitarono gli uni sugli altri. Altre costruzioni furono squarciate dalle esplosioni e presero fuoco. Le madri cullavano i loro piccoli morti e i bambini cercavano di trascinare con sé le loro mamme uccise. Centinaia di famiglie rimasero sepolte vive sotto le macerie.
Un pilota tedesco, il cui aereo era stato colpito da una batteria contraerea presidiata da personale femminile, riuscì a lanciarsi, ma quando il paracadute si aprì, cadde dritto in mezzo a un incendio. I cittadini che assistettero a quell’episodio erano talmente scioccati dalle distruzioni che li circondavano che non provarono alcuna soddisfazione per quell’atto di misteriosa giustizia.
Anche gli enormi serbatoi di carburante sulla riva del Volga furono colpiti. Una palla di fuoco si alzò a 500 metri dal suolo e nei giorni successivi si vedeva la colonna di fumo nero da una distanza di 350 chilometri. Carburante in fiamme si sparse sul Volga. Le bombe distrussero la centrale telefonica e gli acquedotti, mentre l’ospedale principale della città venne sfiorato da un grappolo di bombe. I vetri delle finestre andarono in pezzi e i bambini balzarono giù dai letti. Tra di loro c’era anche Nina Grebennikova, la quattordicenne la cui spina dorsale era stata colpita la settimana precedente dalla bomba caduta vicino ai serbatoi. L’attacco all’ospedale terrorizzò a tal punto il personale da indurlo a fuggire, abbandonando i pazienti, alcuni dei quali rimasero cinque giorni senza cibo né cure.
Una madre, sorpresa all’aperto con la figlia paralizzata dallo shock, “dovette trascinarla letteralmente a casa” in mezzo alle bombe. Nessun autista avrebbe osato intraprendere quel viaggio. In pratica tutti i padri erano al fronte o erano stati mobilitati, perciò solo le donne erano rimaste ad affrontare le spaventose conseguenze di quel raid aereo.
La moglie di Viktor Gončarov, aiutata dal figlio undicenne Nikolaj, seppellì il cadavere di suo padre nel cortile del loro edificio colpito in pieno da una bomba. “Prima di riempire la tomba”, ha ricordato il figlio, “cercammo la testa, ma non la trovammo.” Sua suocera, la Gončarova, moglie del veterano cosacco, fu data per dispersa. In qualche modo l’anziana donna riuscì a sopravvivere alla successiva battaglia, vivendo per cinque mesi in un bunker. Si ritrovarono solo alla fine della guerra, tre anni più tardi.
L’attacco aereo su Stalingrado, il più intenso di tutto l’Ostfront, rappresentò il culmine naturale della carriera di von Richthofen iniziata a Guernica.* Quel giorno gli aerei della Luftflotte 4 effettuarono un totale di 1.600 missioni e sganciarono 1.000 tonnellate di bombe perdendo solo 3 velivoli. Secondo alcune fonti, c’erano circa 600.000 persone a Stalingrado e 40.000 furono uccise durante la prima settimana di bombardamenti.
Il motivo per cui tanti cittadini e profughi erano rimasti ancora sulla riva occidentale del Volga era tipico dell’atteggiamento del regime. L’NKVD aveva requisito quasi tutte le imbarcazioni fluviali, destinandone una minima parte all’evacuazione dei civili. Poi Stalin, decidendo che il panico non era permesso, aveva rifiutato di lasciare che gli abitanti di Stalingrado fossero evacuati attraverso il Volga. Questo, secondo lui, avrebbe costretto le truppe, in particolare la milizia arruolata sul posto, a difendere la città con maggiore accanimento. “Nessuno si preoccupava degli esseri umani”, osservò un ragazzo rimasto intrappolato con sua madre. “Anche noi eravamo solo carne da cannone.”
* Vi furono altri echi della guerra civile spagnola. Rubén Ruiz Ibarruri, figlio della Pasionaria, fu ucciso al comando di una compagnia mitragliatrici della 35ª divisione fucilieri Guardie a sud di Kotluban. Quattro successivi marescialli dell’Unione Sovietica strettamente collegati alla battaglia di Stalingrado – Voronov, Malinovskij, Rokossovskij e Rodimcev – erano stati consiglieri in Spagna, come il generale Šumilov, comandante della 64ª armata. Voronov aveva diretto l’artiglieria repubblicana durante l’assedio di Madrid contro le truppe di Franco.
Se volete approfondire le fasi di quella che è considerata la battaglia che segnò la svolta della seconda guerra mondiale potete farlo sfogliando il libro di Antony Beevor Stalingrado prelevandolo dalla biblioteca dell’Antica Frontiera.