Il fiume, oggi in provincia di Forlì e diventato celebre per l'attraversamento di Giulio Cesare nel 49 a.C., all'epoca segnava il confine oltre il quale un generale romano non poteva portare le armi, atto che sarebbe stato considerato fuorilegge e che in effetti provocò l’inizio della guerra civile. Il condottiero vincitore delle Gallie, alla testa del suo esercito composto di 11 legioni, manifestò in tal modo la sua ribellione allo stato romano: secondo il racconto di Svetonio, prima di risolversi a questo passo sembra che abbia esitato e infine abbia preso la sua decisione esclamando alea iacta est ("il dado è tratto").
L'unico francobollo che commemora questo celebre episodio della Storia dell'antica Roma è curiosamente un esemplare belga da un franco emesso nel 1967 per la Fondazione per l'educazione popolare "Lodewijk de Raet e Charles Plisnier". La vignetta mostra il particolare di un arazzo del XV secolo in cui si vede un improbabile Cesare a cavallo in un contesto decisamente anacronistico.
Le esitazioni di Cesare prima di scatenare la guerra civile hanno fatto la gioia di molti scrittori e la fortuna di un fiumiciattolo, di cui altrimenti nessuno conoscerebbe il nome: il Rubicone. Esso marcava, presso Rimini, il confine fra la Gallia Cisalpina, dove il proconsole aveva diritto di tenere i suoi soldati, e l’Italia vera e propria, dove la legge gli vietava di condurli; e fu sulle sue sponde che gli storici descrivono Cesare meditabondo e roso dai dubbi. Ma il fatto è che quando Cesare giunse lì, la decisione l’aveva già presa o, per meglio dire, gliel’avevano già imposta.
Pur di evitare una lotta fra romani, egli aveva accettato tutte le proposte avanzate da Pompeo e dal Senato che ormai erano una cosa sola: di mandare una delle sue scarsissime legioni in Oriente a vendicarvi Crasso, di restituirne un’altra a Pompeo che gliel’aveva prestata per le operazioni in Gallia. Ma quando il Senato definitivamente gli rispose impedendogli di concorrere al consolato e mettendolo alla scelta: o sbandare l’esercito, o essere dichiarato nemico pubblico, egli comprese che, scegliendo la prima alternativa, si consegnava inerme nelle mani di uno stato che voleva la sua pelle. Avanzò ancora un’ultima proposta, che i suoi luogotenenti Curione e Antonio vennero a leggere, sotto forma di lettera, in Senato: egli avrebbe congedato otto delle sue dieci legioni, se gli prolungavano il governatorato della Gallia fino al 48. Pompeo e Cicerone si pronunziarono in favore; ma il console Lentulo cacciò i due messi fuori dall’aula, e Catone e Marcello chiesero al Senato, che consentì controvoglia, di conferire a Pompeo i poteri per impedire che «pregiudizio fosse recato alla cosa pubblica». Era la formula di applicazione della legge marziale. Essa metteva definitivamente Cesare con le spalle al muro.
Cesare adunò la sua legione favorita, la tredicesima, e parlò ai soldati, chiamandoli nonmilites, ma commilitones. Poteva farlo. Oltre che il loro generale, egli era stato davvero anche il loro compagno. Erano dieci anni che li conduceva di fatica in fatica e di vittoria in vittoria, alternando sapientemente l’indulgenza al rigore. Quei veterani erano veri propri professionisti della guerra, se ne intendevano, e sapevano misurare i loro ufficiali. Per Cesare, che di rado era dovuto ricorrere alla propria autorità per affermare il proprio prestigio, avevano un rispettoso affetto. E quando egli ebbe spiegato loro come stavano le cose e chiese se se la sentivano di affrontare Roma, la loro patria, in una guerra che, a perderla, li avrebbe qualificati traditori, risposero di sì all’unanimità. Erano quasi tutti galli del Piemonte e della Lombardia: gente a cui Cesare aveva dato la cittadinanza che il Senato si ostinava a disconoscerle. La loro patria era lui, il generale. E quando questi li avvertì che non aveva neanche i soldi per pagar loro la cinquina, essi risposero versando nelle casse della legione i loro risparmi. Uno solo disertò per schierarsi con Pompeo: Tito Labieno. Cesare lo considerava il più abile e fidato dei suoi luogotenenti. Gli spedì dietro il bagaglio e lo stipendio, che il fuggiasco non si era curato di ritirare.
Il 10 gennaio di quell’anno 49 «trasse il dado» com’ebbe a dire egli stesso, cioè passò il Rubicone con quella legione, seimila uomini, contro i sessantamila che Pompeo già aveva raccolto. A Piceno lo raggiunse la dodicesima, a Codinio l’ottava. Altre tre ne formò con volontari del posto, che non avevano dimenticato Mario e ne vedevano in Cesare, suo nipote, il continuatore. «Le città si aprono dinanzi a lui e lo salutano come un dio» scrisse Cicerone, che cominciava a non essere più sicuro di aver scelto bene schierandosi coi conservatori. In realtà l’Italia era stanca di costoro e non opponeva resistenza al ribelle, che la ripagava con lungimirante clemenza: niente saccheggi, niente prigionieri, niente epurazioni.
Durante questa incruenta avanzata su Roma, Cesare seguitò a cercare un compromesso, o almeno a darsi le arie di cercarlo. Scrisse a Lentulo prospettandogli i disastri cui Roma poteva andare incontro con quella lotta fratricida; scrisse a Cicerone dicendogli di riferire a Pompeo ch’egli era pronto a ritirarsi a vita privata, se gli garantivano la sicurezza. Ma, senza aspettare le risposte, seguitò ad avanzare contro Pompeo che avanzava anche lui, ma verso Sud.
Pur respingendo le offerte di Cesare, i conservatori avevano abbandonato Roma, dopo aver dichiarato che avrebbero considerato nemici i senatori che vi fossero rimasti. Carichi di soldi, di pretese e d’insolenza, ognuno con servi mogli, amiche, efebi, tende di lusso, biancheria di lino uniformi e pennacchi, questi aristocratici facevano schiamazzante codazzo a Pompeo, frastornandogli il cervello con le loro chiacchiere. Pompeo non aveva avuto gran carattere nemmeno quand’era giovane e magro. Ora, invecchiato e imbolsito, aveva perso anche quel poco; e per non affrontare una decisione, seguitò a ritirarsi fino a Brindisi dove caricò tutto il suo esercito sulle navi e lo traghettò a Durazzo. Curiosa tattica, per un generale che aveva un esercito doppio di quello avversano. Ma disse che voleva allenarlo e disciplinarlo, prima di affrontare la battaglia risolutiva. Cesare entrò in Roma il 16 marzo, lasciando l’esercito fuori della città. Si era ribellato allo stato, ma ne rispettava i regolamenti. Chiese il titolo di dittatore, e il Senato rifiutò. Chiese che fossero mandati messi di pace a Pompeo, e il Senato rifiutò. Chiese di poter disporre del Tesoro e il tribuno Lucio Metello oppose il veto. Cesare disse: «Tanto mi è difficile pronunciare minacce, quanto mi è facile eseguirle». Subito il Tesoro gli venne messo a disposizione. Cesare, prima di vuotarlo per impinguare le casse dei suoi reggimenti, vi versò tutto il bottino accumulato nelle ultime campagne. Il furto, sì; ma, prima, la legalità.
Se volete approfondire le imprese di Giulio Cesare durante la Guerra Civile potete farlo sfogliando le pagine del libro di Indro Montanelli Storia di Roma nella biblioteca dell’Antica Frontiera.