I primi francobolli in uso nel neonato regno unificato furono quelli della quarta emissione di Sardegna,
in attesa di una emissione propriamente italiana.
| Regno d'Italia, aprile 1863, 15 centesimi litografico II tipo. Effigie di Vittorio Emanuele II entro un ovale. Il secondo tipo proviene dalla seconda pietra litografica, utilizzata a partire da aprile, si riconosce dalla linea del riquadro inferiore interrotta sotto la Q e dalla C di 'C. QUINDICI' è ben aperta. |
Regno d'Italia, 1867, effigie di Vittorio Emanuele II riquadrata. Pensato per sostituire il temporaneo 'ferro di cavallo' del 1865, questo francobollo venne stampato inizialmente a Londra in 21.600.000 esemplari e, pochi giorni dopo, a Torino. La distinzione tra le due emissioni è molto difficile e spesso impossibile. In linea generale, comunque, l'emissione di Torino ha i colori più scuri Fu venduto inizialmente in Veneto e nel mantovano, vista la richiesta di francobolli italiani da sostituire completamente a quelli austriaci non più in corso. | Regno d'Italia, 1877, effigie di Vittorio Emanuele II. I motivi dell'emissione di questi due francobolli non sono chiari. Il 10 c. è identico all'emissione De la Rue e differisce solo per il colore, blu e non arancio, mentre il 20 c. è ottenuto da una reincisione del conio del 1867, mostra oltre al colore cambiato lievi differenze nel disegno. Pare che la stampa di francobolli in colore blu logorasse più velocemente le tavole di stampa, perciò si scelse di cambiare colore al francobollo più comune, quello da 20 c., e di conseguenza, per non confonderlo con quello da 10 c. arancio, si cambiò tonalità anche a quest'ultimo. In pratica si può dire che i due francobolli si sono scambiati le tonalità. Di sicuro il 20 c. arancio è più facile da distinguere nel suo colore arancio. |
Nato a Torino nel 1820, dalle abitudini semplici e amante della compagnia del popolo e della vita militare, nella Prima guerra d’indipendenza combatté a Goito e Custoza. Dopo la sconfitta di Novara e l’abdicazione di suo padre Carlo Alberto (1849) divenne re di Sardegna. Conservatore e cattolico, non abolì lo Statuto albertino e ne rispettò le istituzioni, tanto che venne definito dal patriota e uomo politico piemontese Massimo d’Azeglio «re galantuomo». Vittorio Emanuele II fu il protagonista, con Cavour e Garibaldi, dell’unificazione nazionale e divenne il primo re d’Italia dal 1861 al 1878.
Morì a Roma nel 1878, dove sette anni prima aveva trasferito la capitale del suo regno.
Per il fondamentale ruolo rivestito durante il Risorgimento viene indicato come "Padre della Patria". A lui è dedicato il monumento nazionale eponimo del Vittoriano, sito a Roma, in piazza Venezia.
Per ricordare l'ultimo re di Sardegna nonché primo re d'Italia abbiamo scelto proprio tutti i francobolli raffiguranti l'effigie del monarca piemontese emessi durante i suoi due regni, dei quali è possibile leggere una breve descrizione sopra.
D’AZEGLIO diceva che il vero Vittorio Emanuele era morto a Firenze bruciato nella sua culla quando aveva due anni, e che colui che ne aveva preso il posto e ora saliva sul trono era il figlio del macellaio fiorentino Tanaca che, avendo la stessa età del piccolo Principe, gli era stato segretamente sostituito.
In questa storia da “Trovatore” perfettamente intonata al gusto melodrammatico degl’italiani un fondo di vero c’era. Effettivamente quando Carlo Alberto si trovava con la famiglia in esilio a Firenze, ospite del Granduca suo suocero, il bambino aveva corso rischio di morire nel suo letto involontariamente incendiato dalla nutrice che, per salvarlo, a tal punto si era ustionata da morire poco dopo. Più tardi, ad avvalorare la leggenda, contribuì anche la scarsa somiglianza fra padre e figlio sia nel fisico che nel morale: l’uno longilineo ed esile, chiuso, malinconico introverso, indeciso; l’altro tracagnotto, sanguigno, esuberante e fin troppo sicuro di sé. Ma che si tratti di leggenda, non c’è dubbio. E a dimostrarlo, basta una lettera della regina Maria Teresa al proprio padre Granduca in cui, parlando del piccolo Vittorio e della sua vivacità, diceva: “Io non so veramente di dove sia uscito codesto ragazzo. Non assomiglia a nessuno di noi, e si direbbe venuto per farci disperare tutti quanti”: cosa, che se il bambino non fosse stato figlio suo, si sarebbe ben guardata dallo scrivere.
Si sa poco della giovinezza del futuro Re. Fino alla seconda guerra mondiale e alla proclamazione della Repubblica, egli è stato oggetto di un culto, che non consentiva di frugare negli archivi; e quando s’è potuto farlo non ci s’è trovato quasi nulla, perché il meglio ha seguito nell’esilio il suo ultimo successore. Sottraendolo alla Storia e imbalsamandolo nel suo mito di “Padre della Patria”, non gli hanno reso un buon servigio. Il pietoso velo con cui si sono coperti i suoi errori e debolezze serve solo a indurci nel sospetto ch’essi siano stati più grossi di quanto forse furono. E in ogni caso ha condotto a questo bel risultato: che, dei quattro grandi artefici del Risorgimento, egli è il più ignoto: la gente lo riconosce solo dai brutti monumenti in cui lo hanno effigiato.
Che fosse dotato di una forte personalità, lo dimostra il fatto che resistette all’ambiente in cui crebbe e alla pedagogia cui fu sottoposto. L’uno e l’altra sembravano fatti apposta per distruggere in lui freschezza, entusiasmi, gioia di vivere. Un po’ di tenerezza l’ebbe solo dalla madre, ma mai da suo padre che non ne era capace con nessuno, e che caso mai gli preferiva il fratellino Ferdinando di due anni più giovane. I precettori cui fu dato in custodia erano mediocri parrucconi, rigidi e formalisti, scelti soltanto in base al loro zelo per il trono e l’altare. L’orario che gl’infliggevano era da caserma e da seminario: in piedi – estate e inverno – alle cinque e mezzo, tre ore di studio, un’ora di equitazione, altre tre ore di studio, un’ora per la colazione, poi scherma e ginnastica, poi altre tre ore di studio, mezz’ora per il pranzo e per la visita di etichetta alla madre, altra mezz’ora per le preghiere. Siccome a un certo punto fu chiaro – e non aveva che dieci anni – che i profitti non erano pari agli sforzi, Carlo Alberto lo convocò di fronte a un notaio per fargli prendere impegno scritto, con tanto di bollo, di maggiore applicazione. Non gli fece mal una carezza. Solo due volte al giorno – la mattina e la sera – gli dava la mano da baciare dicendo: C’est bon. E per saggiarne la maturità, gl’ingiungeva di rispondere per iscritto a quesiti di questo tipo: “Può un Principe prendere parte in contratti di compra-vendita di cavalli?”
A questo tentativo di soffocamento il ragazzo si sottrasse grazie alla sua vitalità fisica e alla sua inappetenza intellettuale. Sui libri ci stava, ma solo per finta, e basta vedere gli errori di grammatica e di sintassi che sempre infiorarono la sua prosa scritta e parlata. Le uniche materie in cui riusciva abbastanza bene erano la calligrafia e il regolamento militare. Viceversa era tal mente privo d’orecchio e allergico a ogni senso musicale, che dovette fare degli studi apposta per imparare a dare i comandi perché stonava anche in quelli. A undici anni, suo padre lo nominò Duca di Savoia, e a quindici gli diede da leggere e meditare i propri pensieri politici, fra cui c’erano massime come questa: che, in caso di rivoluzione, un Re deve restare “padrone degli avvenimenti”. Come dire che, per vincere la malinconia, basta conservare il buonumore.
Evasioni, in quella Corte cupa e conventuale, accudita da gentiluomini che si facevano vanto di non aver mai letto un libro, e in cui ogni gesto era regolato da un meticoloso rituale, ce n’erano poche: con tutti, il Duca di Savoia era tenuto a comportarsi da Duca di Savoia. E fu probabilmente in reazione a questo tirocinio ch’egli fece in seguito tanti strappi all’etichetta. Gli unici intermezzi di gioia glieli procurava la stalla, quando poteva scapparci, e ci scappava ogni volta che poteva per amore non soltanto dei cavalli, ma anche degli stallieri, coi quali poteva parlare in dialetto ed essere quel che era: franco, schietto, manesco, prepotente, grossolano negli scherzi, coraggioso, fanfarone, smanioso di moto, d’azione e di aria libera. Precocemente, fu un perfetto cavaliere e un instancabile cacciatore. Quando gli affidarono il comando d’un reparto, toccò il cielo con un dito: non solo per il comando, che rappresentava la sua suprema ambizione, ma anche perché esso segnava la fine del tormenti cui lo avevano sottoposto nell’inutile tentativo di dargli una cultura. Delle plumbee, interminabili ore trascorse a tavolino sotto la ferula di precettori accigliati e ottusi, aveva profittato ben poco. Ma in compenso era rimasto integro: una forza della natura disordinata e senza finezze, ma guidata da un istinto sicuro, da un buon fiuto e da un quadrato buon senso.
A diciannove anni il padre lo emancipò ufficialmente con regolare cerimonia (tutto lo era, in quella Corte), ma a questo non corrispose nessuna delega di poteri. Come in seguito doveva dire Vittorio Emanuele III, “in Casa Savoia si regna uno alla volta”, e di questa tegola Carlo Alberto fu uno dei più rigidi zelatori. Il giovane Principe fu tenuto rigorosamente estraneo agli affari di Stato: alla vigilia del ’48, cioè un anno prima del suo avvento al trono, egli scriveva al generale Dabormida: “Sento parlar tanto di guerra, e io non so nulla”.
Nel ’42 – aveva ventidue anni -, gli dettero moglie. I soliti agiografi dicono che si trattò di un matrimonio d’amore, e come prova adducono il fatto che la prescelta fu una Principessa di quella dinastia austriaca Asburgo, contro cui il Piemonte si preparava a scendere in campo. In realtà il Piemonte in quel momento non vi si preparava affatto e, dato il regime vigente in Casa Savoia, è assolutamente impensabile che il giovane Principe abbia potuto prendere di sua testa quella decisione. Forse un parere gli venne chiesto, ma niente di più. Figlia dell’arciduca Ranieri, Viceré del Lombardo-Veneto, la sposa Maria Adelaide era prima cugina dello sposo perché sua madre era sorella di Carlo Alberto. Si trattava dunque d’uno di quei matrimoni dinastici in cui l’amore, quando c’entra, c’entra per accidente, e questo non fu il caso: lo dimostrano le avventure che Vittorio Emanuele cominciò, o ricominciò a correre subito dopo il matrimonio. Eran trascorsi pochi mesi, che Maria Adelaide lo sorprendeva nel giardino di Moncalieri con una diva del teatro, Laura Bon, ma si guardò dal farne un dramma. Perfettamente educata al mestiere di Regina, essa sapeva che la rassegnazione alle infedeltà ne è parte imprescindibile, e le sopportò sempre con garbo e dignità. Subito dopo la Bon, che stancò presto il Re con le sue melodrammatiche pose, fu la volta di Rosa Vercellana, “la bella Resina”, una florida popolana, figlia d’un tamburino militare, molto meglio tagliata ai suoi gusti grossolanotti di seduttore da pagliaio. Per comodità e senza nessun riguardo alle più elementari convenienze, l’alloggiò in una casetta dentro il parco del castello di Stupinigi, residenza preferita della Regina, insieme ai figli. Il diplomatico francese Ideville racconta che un giorno Maria Adelaide ne incontrò uno e lo prese tra le braccia col volto inondato di lacrime, ma senza dir nulla. Dalla stessa fonte sappiamo che il Re preferiva la prole bastarda a quella legittima e che un giorno indicandola a un cortigiano, gli disse: “Guardate che bei prodotti si ottengono quando si mescola il nostro sangue a quello del popolo!” Anche alla Rosina il Re fu infedele: un po’ per esuberanza fisica, un po’ per vanità: delle sue imprese galanti si vantava con esemplare indiscrezione, spesso inventandole come faceva con quelle militari. Però le rimase sempre affezionato anche perché essa, donna semplice, non lo importunava, gli consentiva di starsene in pantofole e maniche di camicia al canto del fuoco, e gli preparava con le sue mani i piatti contadini ch’egli prediligeva. Vittorio Emanuele si rifiutò sempre di assaggiarne altri. Ai banchetti ufficiali partecipava rarissimamente, sempre di pessimo umore, e non toccava cibo, mettendo a disagio tutti i convitati. Nel ’59, rimasto vedovo, allogò la Rosina e i figlioli nella tenuta della Mandria, la promosse Contessa di Mirafiori e, in punto di morte, la sposò.
Balbo, allora Presidente del Consiglio, racconta che una sera, alla vigilia della guerra del ’48, fu fermato per strada da un uomo intabarrato, e lì per lì temette un’aggressione. Era Vittorio Emanuele che di nascosto veniva a chiedergli cosa aveva deciso il Re e se a lui sarebbe stato affidato un comando: suo padre non gli aveva nemmeno comunicato le sue volontà. Il comando gli venne affidato, e il Principe dimostrò di meritarlo. Egli non compì affatto le “epiche gesta” che gli agiografi gli accreditano e ch’egli stesso, gran fanfarone, si attribuiva, ma alla testa della sua Divisione si comportò valorosamente, a Goito e a Pastrengo caricò con impeto e vigore il nemico e, ferito da una pallottola di striscio, non se ne fece nemmeno accorgere. Proprio in questi episodi si vide la differenza fra lui e suo padre. Anche Carlo Alberto sapeva sfidare il pericolo; ma lo faceva con una specie di rassegnata tristezza che, invece d’infondere coraggio ai soldati, glielo toglieva. Quello di Vittorio Emanuele era, al contrario, spavaldo e contagioso: i suoi ordini, il suo viso, la sua voce incutevano fiducia.
Talenti strategici, per allora, non ebbe modo di rivelarne; e quando il destro più tardi gli se ne offrì, dimostrò che non ne possedeva: il meglio di se lo dava alla testa dei reggimento, il reparto tagliato sulla sua misura. Tuttavia aveva sulla situazione dell’esercito piemontese idee molto più chiare di suo padre, e lo dimostrano certe sue lettere al generale Bava nell’imminenza della ripresa della guerra: “Noi crediamo di avere un esercito, ma non l’abbiamo, e quando verrà il giorno di marciare, non marceranno che alcuni reparti pronti a versare il sangue fino all’ultima goccia, ma il grosso si dissolverà prima ancora di vedere il nemico”. Ne dava la colpa agli “avvocati”, cioè agli uomini politici, e particolarmente a quelli di estrazione democratica: e qui sbagliava. Ma la realtà la coglieva, ed era con la certezza della disfatta che aveva attraversato per la seconda volta il Ticino. Cosa pensasse di Chrzanowsky e del suo piano, non lo disse perché nessuno glielo chiese: fino all’ultimo suo padre lo tenne estraneo alle grandi decisioni. Il suo furore esplose quando si trovò in mezzo agli austriaci a Vignale, e avrebbe fatto meglio a trattenerlo. Ma questo era l’uomo: ruvido e impulsivo.
Radetzky tuttavia aveva buoni motivi per dire: “Povero ragazzo!” Pochi Re hanno mai inaugurato il loro Regno in condizioni peggiori. Come abbiamo già detto, egli non ebbe affatto bisogno di difendere la Costituzione perché il Maresciallo non gli chiese di revocarla. Ma in che conto la tenesse, lo dimostrò dimenticandosi di comunicare l’accaduto al suo Governo. Questo, sebbene non distasse che poche diecine di chilometri da Novara, per tre giorni ignorò la disfatta, l’abdicazione di Carlo Alberto, l’avvento al trono di suo figlio e la conclusione dell’armistizio. Ai suoi messi fu impedito l’accesso al Quartier Generale, e se qualcosa riuscì a sapere fu solo grazie all’indiscrezione di un valletto. Alla fine il Presidente del Consiglio Chiodo e i suoi ministri mandarono a Vittorio Emanuele un messaggio: “Sire, i sottoscritti sono ormai da tre giorni privi di notizie, e non conoscono quindi ufficialmente gli avvenimenti della guerra in questo intervallo … Non è noto loro in modo officiale l’avvenimento al trono di Vostra Maestà e non conoscono le Regie Vostre intenzioni … “
La risposta la portò di persona il Re, piombando a Torino l’indomani. Sapeva che vi sarebbe stato male accolto: gliel’aveva scritto sua moglie raccomandandogli di venire di notte e di nascosto. Ma Vittorio Emanuele considerò il sotterfugio indegno di un Re e preferì affrontare l’ostilità della popolazione. La situazione era tesa. Nei giorni precedenti, alla Camera che ansiosamente chiedeva informazioni, il ministro degl’Interni Rattazzi aveva dovuto rispondere che non ne aveva, e questo aveva scatenato la furia dell’opposizione democratica. La polemica era dilagata sui giornali e nelle piazze, e c’era chi parlava di Repubblica.
Il Re accolse le dimissioni che, in seguito al cambio della guardia sul trono, il governo era tenuto a presentare, e diede mandato di formarne uno nuovo a un nobile savoiardo d’idee notoriamente reazionarie, De Launay, raccomandatogli in punto di partenza da suo padre. Non ci mancava che questo per attizzare la collera e le diffidenze dei democratici. Quando si seppe che De Launay si era scelto come ministro degl’Interni il Pinelli, non meno reazionario di lui, il timore si diffuse che il Re volesse revocare la Costituzione.
Questo timore non era del tutto infondato. A un ritorno all’assolutismo, Vittorio Emanuele fu tentato dalla violenza dei democratici che, col loro congenito massimalismo – una malattia infantile di cui non sono guariti neanche da vecchi -, chiedevano l’impossibile: il ripudio dell’armistizio e la ripresa di una guerra a oltranza, per la quale mancavano tutte le condizioni. Ma poi su di lui prevalsero più ragionevoli consigli. Il 29 riunì le due Camere, di fronte ad esse pronunciò il giuramento di fedeltà allo Statuto e un breve discorso programmatico, dopodiché le sciolse indicendo nuove elezioni, di cui tuttavia non fissò la data. Evidentemente sperava di riuscire nel frattempo a risolvere, senza l’imbarazzo dell’opposizione, i due problemi che più l’angustiavano: la rivolta di Genova e la pace con l’Austria.
Genova era insorta all’indomani di Novara, quando si sparse la notizia che i piemontesi l’avevano abbandonata a Radetzky. Ma la voce fu soltanto un pretesto all’esplosione di antichi umori repubblicani e malumori municipalisti. Due ufficiali piemontesi furono uccisi in un tumulto. La Guardia Nazionale costrinse le truppe regie a sloggiare e ne prese in consegna i forti per provvedere alla difesa della città. L’agitazione toccò il colmo quando da Torino giunsero i primi richiami, non tanto per ciò che dicevano quanto per la firma che portavano: De Launay era stato governatore militare di Genova e vi aveva lasciato pessimi ricordi. Per acclamazione popolare fu istituito un Triunvirato, in cui la figura di maggiore spicco era Avezzana. Torino reagì ingiungendo al generale La Marmora di marciare con le sue truppe sulla città e di ristabilirvi l’ ordine, anche col cannone. II cannone ci volle perché Avezzana si rifiutò di arrendersi, e per un po’ si temette che Genova diventasse la Brescia del Piemonte. Poi il fronte interno si sfaldò, fu trovato il solito compromesso e le truppe poterono entrare, ma si abbandonarono a saccheggi e devastazioni che fecero correre altro sangue. Comunque, bene o male, quella partita era liquidata.
Le trattative di pace, al contrario, intavolate a Milano ai primi di aprile, dopo due settimane erano già rotte. I delegati piemontesi vi si erano presentati con la certezza di trovarvi lo stesso spirito di comprensione che aveva aleggiato a Vignale. Viceversa quello spirito Vienna lo aveva ripudiato, rimproverava a Radetzky di non aver piantato bandiera a Torino, e per imporre la maniera forte aveva mandato come suo plenipotenziario quel Brück che abbiamo già incontrato nelle trattative di Brescia: un mercante triestino che, fatto barone dall’Imperatore, voleva sdebitarsene con lo zelo. I piemontesi, che offrivano un risarcimento di 50 milioni di franchi, se ne videro chiedere 200, e lasciarono cadere il negoziato. E gli austriaci risposero procedendo all’occupazione di Alessandria.
II contraccolpo a Torino fu violento. Non potendolo alla Camera, ormai chiusa, i democratici scatenarono una rumorosa offensiva sui giornali con la proposta di una leva in massa e di una guerra di popolo a mezzo di bande partigiane. In tutto questo non c’era granché di serio. Ma una seria conseguenza ci fu: il Re, che probabilmente era rientrato a Torino con la ferma decisione di tener fede all’impegno preso con Radetzky di praticare, sia pure entro i limiti costituzionali, una politica conservatrice che tenesse ai margini i democratici e sviluppasse con l’Austria rapporti di buon vicinato, proprio dall’irrigidimento austriaco si vide costretto a rinunciare a questo programma e quindi ad avvicinarsi, se non proprio ai democratici, almeno a quei moderati che, pur disposti a molti compromessi, su due cose non transigevano: sulla Costituzione e sul programma nazionale. E per costoro, naturalmente, De Launay non era più l’uomo adatto.
Se volete approfondire la biografia del “re galantuomo” potete farlo sfogliando le pagine del libro di Indro Montanelli L’Italia del Risorgimento nella biblioteca dell’Antica Frontiera.