Il periodo più cupo e tragico della nostra Storia ebbe inizio con il famoso discorso del 3 gennaio 1925 che il capo del governo e duce del fascismo Benito Mussolini tenne alla Camera proprio mentre la sua carriera politica sembrava finita a causa delle schiaccianti responsabilità nell'omicidio Matteotti.
Renzo De Felice, fra i maggiori studiosi del fascismo, insieme a molti altri storici sono concordi nel ritenere questo discorso l’atto costitutivo del regime autoritario. Con un colpo di mano, assumendosi la piena responsabilità politica, morale e storica di quanto era avvenuto in Italia negli ultimi mesi, in particolare con riferimento al delitto del deputato socialista e ai fatti dell'Aventino, Mussolini pronunciò un agguerrito discorso con il quale di fatto assunse la guida dittatoriale del Paese.
Naturalmente non ci sono francobolli che celebrano la definitiva scomparsa di ogni speranza di libertà nel nostro Paese. Per ricordare questo buio momento abbiamo scelto, come logica conseguenza della tragica successione di fatti storici che in un certo senso ebbero inizio proprio con quel discorso, la serie della fratellanza d'armi italo-tedesca emessa dal regime nel 1941, nella quale sono rappresentati Adolf Hitler e Benito Mussolini ormai indissolubilmente alleati, protagonisti dell'abominio della Seconda Guerra Mondiale e responsabili del più immane disastro nella Storia del genere umano.
Trascorsero, fino alla fine di quel drammatico 1924, alcuni mesi durante i quali Mussolini parve più volte sul punto di cadere: incalzato com’era dallo sbandamento della sua maggioranza e dagli attacchi degli ultra dello squadrismo, che,gli imputavano un eccesso di debolezza e insicurezza. Si arrivò così al 3 gennaio, quando Mussolini prese la parola davanti alla Camera. Appariva «pallido e teso». Come sempre faceva nei momenti di emergenza, giuocò sulla sorpresa, cogliendo tutti di contropiede con una domanda che pareva audace e provocatoria: «L‘articolo 47 dello Statuto dice: La Camera dei Deputati ha il diritto di accusare i Ministri del Re e di tradurli dinanzi all’Alta Corte di Giustizia». Pausa. «Chiedo formalmente se in questa camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che voglia valersi dell’articolo 47.»
La pattuglia dei deputati fascisti, forse colti di sorpresa anche loro, balzò in piedi acclamando mentre tutti gli altri tacevano sbalorditi. Mussolini continuo: «Il mio discorso sarà dunque chiarissimo e tale da determinare una chiarificazione assoluta. Voi intendete che dopo aver lungamente comminato insieme con dei compagni di viaggio, ai quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per quello che hanno fatto, è necessaria una sosta per vedere se la stessa strada con gli stessi compagni può essere ancora percorsa nell’avvenire». Era la denuncia delle alleanze su cui il fascismo si era retto fin allora e l’autaut a coloro che le avevano accettate: o col fascismo fino in fondo, o fuori del fascismo. E il fascismo era lui, Mussolini. «Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica, di tutto quanto è avvenuto. » E come trascinato dalle proprie parole (il discorso non era scritto, e in molti punti appare improvvisato) aggiunse teatralmente: «Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda. Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa. Se il fascismo e stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!». E giù con queste frasi più da comizio di piazza che da aula parlamentare, ma che erano destinate a un grande effetto sulle pagine dei giornali, fino alla logica conclusione che del semplice «effetto» andava al di là:
«Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo, e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora. Non ci sarà bisogno di questo perché il governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi questa tranquillità, questa calma laboriosa, gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. State certi che nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area».
Nelle quarantott’ore successive, le sedute della Camera vennero sospese; e una pioggia di «riservate» si abbatté sui prefetti. Essi dovevano provvedere «allo scioglimento di tutte le organizzazioni che sotto qualsiasi pretesto possano raccogliere elementi turbolenti o che comunque tendano a sovvertire i poteri dello Stato»: una direttiva che si prestava a qualsiasi applicazione, ma che era controbilanciata da un telegramma ancora più riservato che autorizzava misure non meno rigorose contro i fascisti che avessero cercato di approfittare della favorevole situazione per commettere violenze e soprusi. Infine vennero chiamate in vigore le norme repressive della libertà di stampa, che fin allora erano rimaste sulla carta. Eppure, molti non capirono che col discorso del 3 gennaio il fascismo cambiava volto, e diventava dittatura.
Il Regime
Il discorso del 3 gennaio 1925 prese tutti in contropiede. Era stato preso in contropiede anche il Re. Questi, secondo una testimonianza di Cino Macrelli, non solo non era stato informato del discorso da Mussolini, ma dopo che era stato pronunciato avrebbe avuto intenzione d’intervenire sollecitando le dimissioni dei due ministri militari, il generale Di Giorgio e l’ammiraglio Thaon di Revel. Sempre secondo questa testimonianza il conte Campello e il generale Cittadini -vicini al Re e ostili al fascismo – avrebbero detto ad Amendola di non prendere iniziative perché ormai il Sovrano era deciso a mettere alla porta Mussolini e il suo governo.
Mussolini aveva avuto un’ottima ragione per precipitare le cose, con il colpo di scena del 3 gennaio: l’ultimo dell’anno una quarantina di consoli della Milizia gli aveva fatto visita a Palazzo Chigi, con il pretesto dì augurargli buon Capodanno; ma il loro vero proposito era di indurlo ad agire risolutamente, e se occorreva violentemente, contro l’opposizione. Se non l’avesse fatto – minacciarono – la Milizia avrebbe preso l’iniziativa «liberando da ogni vincolo di disciplina le squadre». A questa ragione se ne aggiungerebbe, se fosse vero quanto riferito da Macrelli, un’altra forse più forte. Mussolini avrebbe precipitato le cose non solo e non tanto per l’imposizione dei consoli, quanto per prevenire il passo del Re, mettendolo di fronte al fatto compiuto. Ma noi crediamo che le cose si siano svolte altrimenti. È molto probabile che Campello e Cittadini, simpatizzanti dell’opposizione, avessero cercato di spingere il Re a quel passo, e che il Re avesse dato una delle sue sibilline risposte, ch’essi avevano interpretato secondo i loro desideri.
Giovanni Amendola, il più tenace ispiratore dell’Aventino, credette alla loro versione, tant’è vero che il 4 gennaio inviò a Cittadini un messaggio che aveva per destinatario il Re: «Sorga fieramente il Re» eccetera. Certamente informato da lui, anche Turati pensava al Re: «Il duello non è soltanto con noi – scriveva alla Kuliscioff – ma è anche, e forse più, collo stesso Quirinale». E il fatto che anche i socialisti contassero sull’iniziativa del Re, ch’essi avevano clamorosamente insultato abbandonando al suo ingresso l’aula parlamentare, la dice abbastanza lunga sulla risolutezza dell’opposizione. Il giorno stesso del discorso, Salandra e Giolitti s’incontrarono. Era la prima volta che questo avveniva dal 1915, quando Giolitti aveva bruscamente rotto con Salandra, accusandolo di «tradimento» per aver portato, contro gl’impegni assunti con lui, l’Italia in guerra. Poiché del colloquio abbiamo solo la versione di Salandra, non sappiamo se Giolitti gli chiese se era soddisfatto di ciò che la guerra aveva provocato. Comunque, il colloquio fu infruttuoso. Salandra propose di andare con lui e Orlando dal Re per saggiare le sue intenzioni, ma Giolitti lo escluse. «Si risaprebbe – disse – e parrebbe un pronunciamento.» E se Giolitti si rifiutò di compiere il passo, vuol dire che lo riteneva inutile, cioè che il Re non aveva nessuna intenzione di muoversi.
Quanto all’Aventino, invece di stringersi intorno alla propria bandiera, si disunì vieppiù e si perse in un mare di chiacchiere. Alcuni, fra cui lo stesso Turati, volevano tornare in aula e riprendervi la loro battaglia di opposizione. Ma Amendola, fedele alla sua idea della «condanna morale», riuscì ancora a imporla. Solo l’8 gennaio l’Aventino formulò la sua risposta a Mussolini in un documento che lo stesso Salvemini definì «un capolavoro di pedanteria pretenziosa e inutile», e che rappresentò in sostanza il suo testamento. In realtà, come forza di opposizione, non era mai esistito. L’uomo che lo aveva ideato, Amendola, era sul piano morale degno del più alto rispetto. Ma, malinconico e introverso, chiuso nel suo puritanismo, e senza nessuna presa sulla pubblica opinione, non era affatto un politico. Alcuni lo avevano seguito condividendone l’intenzione: ch’era quella di costituire il punto di riferimento per la coscienza civile di un Paese che ne era cospicuamente sprovvisto. Ma i più lo avevano fatto per sottrarsi agli scomodi e ai pericoli di una opposizione in aula, faccia a faccia coi fascisti. Nessuno di loro aveva rinunziato alle proprie piccole beghe di partito, di gruppo e di corrente. Ma proprio questo spettacolo d’impotenza e di faziosità aveva scoraggiato la pubblica opinione antifascista.
L’affare Matteotti gli aveva offerto una grande occasione. Il Paese aveva avuto un sincero soprassalto di sdegno che se avesse trovato in Parlamento un risoluto interprete avrebbe messo Mussolini alle corde. Ma bisognava capire che gli sdegni sono temporanei, specialmente in Italia. La guerra di logoramento fatta dall’Aventino con le denunce, molte delle quali infondate, e coi memoriali, alcuni dei quali falsi. non poteva che stancar alla lunga, la pubblica opinione. Non osiamo dire che Mussolini aveva tergiversato per sei mesi appunto per dare tempo a questo processo di maturare. Ma sia stato l’istinto a suggerirglielo, o le circostanze a imporglielo, è certo che prese le decisioni del 3 gennaio quando ormai il Paese era disposto ad accettarle, e forse in cuor suo le sollecitava non perché avesse acquistato maggior fiducia in Mussolini ma perché aveva completamente perso quella nei suoi oppositori. E questo vale per il Re come per l’uomo della strada.
Se volete approfondire l’inizio della dittatura mussoliniana potete farlo sfogliando le pagine del libro di Indro Montanelli Storia d’Italia – L’Italia del Novecento nella biblioteca dell’Antica Frontiera.