Il 29 ottobre 1929, con il crollo della Borsa di New York, iniziò la Grande depressione, quella che sarà una tra le più gravi crisi economiche della storia del mondo industrializzato.
Gli USA emisero nel 1998 un francobollo dedicato al crollo di Wall Street. L'esemplare da 32 centesimi appartiene al foglietto "Celebrate the century" riguardante i ruggenti anni Venti e contenente ben 15 valori rappresentativi del decennio di grande espansione industriale e fermento artistico che simbolicamente si concluse proprio quel tragico giorno.
Il collasso dell’economia americana nell’ottobre 1929 colse del tutto impreparati gli ambienti finanziari. Le contrattazioni del 24 ottobre – il “giovedì nero” della Borsa di New York – si aprirono in modo ingannevolmente normale. Per nove anni la corsa continua al rialzo era stata il simbolo di una prosperità nazionale senza precedenti. Il presidente Herbert Hoover, nel messaggio con cui nel 1929 inaugurò la sua legislatura, aveva affermato che il trionfo definitivo sulla povertà era a portata di mano e molti americani, di cui circa un milione e mezzo aveva investito in Borsa, erano della stessa opinione. Fino al 1925 la crescita del Paese si era basata, quasi per intero, sulla massiccia espansione industriale; in seguito, lo sviluppo era stato stimolato da centinaia di migliaia di investimenti su grande e piccola scala. L’interesse (fino al 10%) corrisposto agli agenti di cambio dagli investitori per le anticipazioni sulle operazioni di Borsa aveva attirato a sua volta ulteriori investimenti. Il tutto aveva concorso alla creazione di una piramide di profitti esistenti solo sulla carta, basati sull’ipotesi di un mercato perpetuamente volto al rialzo. Ma dietro questa apparenza di prosperità non mancavano segni premonitori. L’edilizia e la produzione industriale erano in declino, le vendite di automobili diminuivano e i prezzi all’ingrosso ribassavano. Nel settembre presero a scendere anche i valori di Borsa.
La mattina del 24 le contrattazioni ebbero andamento regolare fin quando, verso le 11, gli ordini di vendita superarono di gran lunga quelli di acquisto. Subito le vendite si fecero frenetiche. I prezzi crollarono. Gli agenti di cambio erano in preda al panico. Telegrafo e telefono erano intasati dagli ordini di vendita. Una grande folla in preda all’ansia si era raccolta all’esterno della Borsa. La telescrivente non riusciva a tener dietro ai cambiamenti delle quotazioni, lasciando gli investitori, terrorizzati, all’oscuro del destino che li attendeva. Agenti di cambio con l’acqua alla gola emettevano frenetiche richieste di saldo delle anticipazioni sui contratti speculativi, richieste che non potevano essere soddisfatte se non con il fallimento di migliaia di piccoli azionisti. Le Borse di altre città chiusero i battenti, nel vano tentativo di frenare il crollo dei prezzi. Alla fine, un gruppo di potenti banchieri decise un comune intervento di sostegno, con acquisti oculati che infondessero fiducia. Alla chiusura del listino, con la cifra record di 13 milioni di azioni scambiate, il livello delle quotazioni si era assestato.
Il giorno seguente la situazione non peggiorò. Hoover invitò alla calma, affermando che “l’economia del Paese (…) ha basi solide e prospere”. Ma la settimana seguente il mercato ebbe un’altra netta caduta. Martedì 29 l’indice Dow Jones scese di 40 punti. Molti fra coloro che la settimana prima avevano comprato azioni a buon prezzo furono costretti a svendere a un corso incredibilmente basso. Furono vendute 16 milioni di azioni. Nel novembre le quotazioni continuarono a scendere, trascinando nella rovina sia i grossi investitori sia i piccoli risparmiatori.
La grande crisi non fu causata dal giovedì nero, o dall’ancor più nero martedì 29. All’apertura delle contrattazioni in quei giorni fatali, l’economia era già travagliata da una crisi profonda. Ma la frenesia di vendere pose improvvisamente termine a un decennio di radioso ottimismo, cui subentrò un chiuso pessimismo. Quasi di colpo, la spirale ascendente delle quotazioni si era tramutata in una rovinosa, rapida caduta. Il disastro economico che ne seguì si diffuse dagli Stati Uniti al mondo intero: la depressione più grave e di maggior durata mai vista fino ad allora.
Le prosperità degli Anni ruggenti
Il decennio di prosperità terminato così bruscamente si può definire radioso. A guerra finita l’America si accingeva a far denaro, ottenendo risultati superiori alle speranze più rosee. Favorita da un’amministrazione repubblicana impegnata ad agevolare la crescita economica, l’industria americana proliferò: la meccanizzazione, l’elettrificazione e la diffusione delle catene di montaggio avevano portato a un incremento della produzione industriale del 64% fra il 1919 e il 1929. I salari e gli stipendi reali erano cresciuti. I profitti erano cresciuti ancor più.
L’espansione economica era basata in gran parte sull’industria automobilistica e sull’industria edile. Nel 1929 dalle catene di montaggio delle officine Ford di Detroit usciva una vettura completa ogni 17 secondi e sulle strade americane circolavano 26 milioni di automobili e autocarri, ossia un veicolo ogni 5 abitanti. L’industria automobilistica favorì la crescita di una quantità di industrie collegate; fece aumentare i consumi di petrolio, acciaio e gomma; stimolò in tutto il Paese la domanda di una rete stradale migliore. L’accresciuta mobilità condusse all’espansione delle comunità satelliti alle grandi metropoli, incrementando la già fiorente imprenditoria edile. Le città americane crebbero in altezza, per il sorgere di grattacieli nei centri urbani, e in estensione, per il propagarsi dei quartieri periferici.
Il nuovo bisogno di impiegare il tempo libero e la diffusa elettrificazione ben si adattavano, poi, al talento dell’industria della pubblicità per far apparire come necessità i consumi di lusso. Le fabbriche riuscivano a malapena a soddisfare la domanda di beni di consumo e di forniture per la casa. Il turismo, lo spettacolo e lo sport divennero industrie con un fatturato di miliardi di dollari. Anche le più piccole città potevano tenersi aggiornate grazie alla radio, al cinema e ai dischi. Gli Americani erano presi da una nuova frenesia per il possesso di beni e dal fascino dello stato sociale che quel possesso conferiva. L’atteggiamento nazionale verso il denaro cambiava: per la prima volta nella storia degli Stati Uniti alla parsimonia si preferiva lo scialo.
Le incrinature nascoste
Eppure sotto quella brillante facciata stavano nascoste minacciose incrinature, segni precoci e inavvertiti del crollo futuro. Durante le presidenze di Warren Harding e di Calvin Coolidge (e, in parte, di Hoover), il governo aveva cercato di identificare la prosperità della nazione con quella del padronato. La tradizionale politica economica del laissez faire si basava sulla convinzione che, se il governo si fosse astenuto dall'”interferire” nell’economia, i lavoratori avrebbero condiviso i profitti acquisendo salari più elevati; grazie ai quali avrebbero, a loro volta, potuto investire in azioni e in questo modo partecipare del benessere generale. Convinzioni del genere erano allora molto diffuse. Coolidge arrivò a dichiarare che “questo è un Paese di affari e vuole un governo di affari” e il segretario al Tesoro, il miliardario Andrew Mellon, agì di conseguenza: tagliò le spese del governo federale, ridusse le tasse al padronato (perché reinvestisse i profitti in attività produttive), attenuò le leggi antimonopolistiche per consentire il consolidamento dei trust, lasciò libero il mercato azionario di lanciarsi al rialzo senza dargli una regolamentazione; infine, introdusse barriere doganali a protezione dei prodotti dell’industria americana.
Queste misure governative furono accolte con entusiasmo dagli uomini d’affari. I profitti industriali e commerciali ebbero un incremento del 62% fra il 1923 e il 1929. Ma il reddito reale medio dei lavoratori aumentò solo dell’11 %. Essendo la crescita dei salari di gran lunga inferiore a quella della produzione e dei profitti, i lavoratori non erano in grado di acquistare la sempre maggior quantità di beni prodotti. Il numero degli impianti produttivi era in eccedenza rispetto alle effettive capacità di assorbimento del mercato e la sovrapproduzione era ormai cronica. Del resto, il padronato si rifiutava di dividere i profitti con i lavoratori.
Nel 1929 il 5% della popolazione aveva un reddito pari a un terzo dell’intero prodotto nazionale. La possibilità di accumulare ricchezze enormi aveva naturalmente incoraggiato gli speculatori e le conseguenze immani della catastrofe misero a nudo la condotta fraudolenta di finanzieri al di sopra di ogni sospetto. Fra il 1929 e il 1932 saltarono circa 6.000 banche.
Un altro difetto del sistema era il mancato sviluppo di alcuni settori produttivi, che non avevano partecipato affatto alla prosperità generale: parecchie industrie di base (in particolare la carbonifera e la tessile) non avevano mai raggiunto i livelli dell’ante-guerra; qui la disoccupazione era alta e i salari paurosamente bassi. Nell’agricoltura si era registrato un forte aumento della produzione;grazie alla maggior efficienza, al progresso dei metodi di coltura, ai nuovi fertilizzanti e alla meccanizzazione, ma ne era risultata una cronica saturazione del mercato e quindi una persistente caduta dei prezzi. Fra il 1919 e il 1929 il reddito agricolo era sceso del 22 %.
Innegabilmente, nonostante le fiduciose affermazioni del governo nella prosperità degli anni Venti, la mal a pianta del disastro aveva già messo salde radici.
Una buona guida per tempi difficili
Quando nel 1929 Herbert Hoover entrò nella Casa Bianca, era ammirato da tutti. Ma quattro anni dopo, quando lasciò la presidenza, era, anche se in gran parte immeritatamente, uno degli uomini più vituperati d’America. Valente ingegnere, aveva accumulato col lavoro un’ingente fortuna; durante la guerra aveva abbandonato la professione privata per assumere incarichi pubblici. Noto ai suoi estimatori come il “grande ingegnere”, sembrava l’uomo più idoneo per guidare una nazione attraverso qualunque crisi. Ma il disastro che scosse il Paese appena sette mesi dopo l’inizio della sua presidenza distrusse ogni fiducia. All’improvviso, fallirono migliaia di società finanziarie e d’investimento, trascinando nella stessa sorte molti di coloro che vi si erano affidati.
L’11 dicembre 1930, a New York, crollò la potente Banca degli Stati Uniti, polverizzando i risparmi di mezzo milione di depositanti. Nel solo 1931 chiusero gli sportelli circa 2.300 banche. Gli industriali che avevano accumulato scorte invendute ridussero le perdite fermando la produzione: fra il 1930 e il 1933 ma media di 64.000 lavoratori la settimana andava a ingrossare l’esercito dei disoccupati, che nel 1933 erano circa 13 milioni. Molti fra gli occupati avevano subito drastiche riduzioni di salario. La produzione industriale era tornata ai livelli del 1916.
Questa sfilata di dati statistici può solo far intravvedere quale sia stata la sofferenza umana provocata dalla grande depressione. Molti lavoratori non riuscivano a sfamare la famiglia; per migliaia di persone l’espressione “morir di fame” non era un modo di dire. Centinaia di migliaia di uomini, donne e ragazzi senza lavoro erravano per il Paese, viaggiando clandestinamente sui treni merci e trovando ricetto nei rifugi di vagabondi.
Hoover non poteva rimanere inerte, come invece gli consigliava il padronato liberista. Cercò come prima cosa di infondere fiducia al Paese, promettendo, ancora una volta, una prosperità “appena dietro l’angolo”. Quindi, con la creazione della Reconstruction Finance Corporation, venne in aiuto delle banche in difficoltà, dei governi dei vari Stati e delle compagnie ferroviarie. Poi, attraverso il Federal Reserve Board, finanziò e incoraggiò la ripresa industriale; creò nuovi posti di lavoro incrementando i lavori pubblici; diminuì la pressione fiscale per incoraggiare i consumi privati; tentò infine di sostenere i prezzi della produzione agricola acquistando le eccedenze dei raccolti per venderli sui mercati esteri. Buona parte della legislazione del New Deal ebbe le sue origini nelle misure prese da Hoover. Ma, sebbene Hoover incoraggiasse anche il passaggio da forme private di soccorso alle sovvenzioni federali o statali, non poté spingersi fino ad autorizzare l’aiuto diretto del governo federale. Un intervento economico di proporzioni massicce da parte del governo federale era tuttavia la sola cosa da fare: nel 1931 il tasso di disoccupazione aveva raggiunto il 16% ed era ancora in aumento.
La crisi si estende all’Europa
Le conseguenze del crollo del mercato azionario degli Stati Uniti si fecero sentire assai presto in tutto il mondo. E, all’inizio della primavera del 1931, proprio quando l’economia U.S.A. dava deboli segni di ripresa, gli avvenimenti negli altri Paesi concorsero a farla regredire di nuovo.
La dipendenza dell’economia europea dal dollaro – sotto forma di prestiti, esportazioni verso l’America e (dopo la guerra) turismo – datava dagli anni della Prima Guerra mondiale. Quando scoppiò la crisi i dollari all’estero vennero fatti rientrare in America, il che fece vacillare l’intera economia dell’Europa occidentale. I Paesi più colpiti furono Germania e Austria, la cui situazione era resa difficile dalle gravose riparazioni di guerra, dall’instabilità della moneta e dalle lotte politiche interne. Vi fu un tentativo di unione economica fra i due Paesi, in uno sforzo disperato per la sopravvivenza. Ma nel marzo 1931 la Francia pretese dalla Germania il pagamento dei debiti a breve scadenza. Il Creditanstalt, la banca viennese, tradizionale sostegno dell’economia nell’Europa Centrale, crollò nel maggio. Il governo tedesco, nella sua angosciata ricerca di aiuti, si rivolse infine a Washington: invano.
Dieci anni di elevate tariffe doganali americane aveva fortemente ridotto le importazioni dall’estero; questa politica protezionistica degli Stati Uniti aveva reso difficile alle nazioni europee procurarsi i dollari necessari per pagare i debiti di guerra (se ex alleate) o le riparazioni (se ex nemiche). Hoover capi la necessità di un radicale cambiamento d’indirizzo: un dissesto delle istituzioni finanziarie europee avrebbe infatti sottratto oro alle già provate banche americane. Pertanto Hoover proclamò una moratoria di un anno per il pagamento delle riparazioni. Ma era troppo tardi. Qualche settimana dopo il crollo del Creditanstalt e di altre banche di Vienna la maggior parte dei Paesi europei versava in gravi difficoltà. Nel 1932 la Germania contava circa 6 milioni di disoccupati. In Gran Bretagna, dove i disoccupati erano 3 milioni, il malcontento popolare condusse alle dimissioni del governo laburista. La Gran Bretagna aveva abbandonato nel 1931 il gold standard (ossia quel sistema per cui vi è libera convertibilità delle banconote in oro e viceversa, e vi sono altrettanto libere coniazione e commercializzazione dell’oro), una misura radicale che venne peraltro rapidamente imitata da altri 40 Paesi. Come Hoover aveva temuto, negli Stati Uniti numerose banche fallirono e l’economia del Paese ricominciò la sua marcia a ritroso.
Le misure prese dal presidente avevano fallito lo scopo. Il suo rifiuto di intraprendere un’azione più incisiva era motivato da ragioni dottrinali, ma con le questioni di principio non si dà da mangiare agli affamati. Le previsioni di Hoover di un’imminente inversione di tendenza andarono deluse e l’aiuto offerto al padronato, ma non ai lavoratori disoccupati, apparve dovuto più all’indifferenza che all’obbedienza a principi. Bersagliato dalle critiche e frustrato dal persistere della crisi, Hoover si chiuse in un risentito silenzio. La depressione era destinata a durare ancora per molti anni, sebbene fosse difficile prevederlo nel 1931-32. Gli Stati Uniti non si ripresero fin quasi alla Seconda Guerra mondiale. Nell’autunno del 1932, gli Americani elessero presidente, perché li guidasse nella lotta per la ripresa, F.D. Roosevelt.
Se volete potete approfondire cause e conseguenze della Grande Depressione leggendo il libro Ventesimo secolo – i grandi avvenimenti che gli hanno dato un volto nella biblioteca dell’Antica Frontiera.