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La morte di Erasmo da Rotterdam

12/7/2015

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1936. Francobollo estivo a favore del benessere
 sociale e culturale. Quarto centenario 
della morte di Erasmo da Rotterdam.
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1969. Quinto centenario della 
nascita di Erasmo da Rotterdam.

Oggi è il 479° anniversario della morte di Erasmo da Rotterdam.
Umanista olandese nato a Rotterdam nel 1469, agostiniano, fu ordinato prete nel 1492 e divenne segretario del vescovo di Cambrai. Cominciò allora la sua vita di viaggi per l'Europa; dal 1506 al 1509 visse in Italia dove la diffusione degli Adagia (1589), la laurea in teologia a Torino, l'attività editoriale a Venezia, il lavoro umanistico, in collaborazione con altri grandi letterati gli procurarono grande fama. Al suo ritorno in Olanda scrisse l'opera più celebre, l'Elogio della pazzia (1509), sferzante satira della presunzione teologica e scolastica, dell'immoralità del clero e della curia. Insegnò poi teologia a Cambridge dove visse dal 1514. Famosissime furono le edizioni del Nuovo Testamento (1516) e dei Padri della Chiesa (1516-1532). Di fronte alla Riforma fu esitante, restando cattolico per il ripudio di una rivolta estremistica che minacciava di travolgere i valori universali di concordia, di civiltà, di humanitas, valori che in Erasmo trovarono coronamento nell'ideale umanistico di tolleranza. Morì il 12 luglio 1536 a Basilea dove era tornato per controllare la pubblicazione dell’Ecclesiaste.

Per commemorare il grandissimo umanista olandese abbiamo scelto i due francobolli che la sua madrepatria gli ha dedicato nel corso degli anni. Di entrambi abbiamo pubblicato l'immagine e una breve descrizione sopra.

E, tanto per cominciare, chi non sa che la prima età dell’uomo è per tutti di gran lunga la più lieta e gradevole? ma che cosa hanno i bambini per indurci a baciarli, ad abbracciarli, a vezzeggiarli tanto, sì che persino il nemico presta loro soccorso? Che cosa, se non la grazia che viene dalla mancanza di senno, quella grazia che la provvida natura s’industria d’infondere nei neonati perché con una sorta di piacevole compenso possano addolcire le fatiche di chi li alleva e conciliarsi la simpatia di chi deve proteggerli? E l’adolescenza che segue l’infanzia, quanto piace a tutti, quale sincero trasporto suscita, quali amorevoli cure riceve, con quanta bontà tutti le tendono una mano!

Ma di dove, di grazia, questa benevolenza per la gioventù? di dove, se non da me? È per merito mio che i giovani sono così privi di senno; è per questo che sono sempre di buon umore. Mentirei, tuttavia, se non ammettessi che appena sono un po’ cresciuti, e con l’esperienza e l’educazione cominciano ad acquistare una certa maturità, subito sfiorisce la loro bellezza, s’illanguidisce la loro alacrità, s’inaridisce la loro attrattiva, vien meno il loro vigore. Quanto più si allontanano da me, tanto meno vivono, finché non sopraggiunge la gravosa vecchiaia, la molesta vecchiaia, odiosa non solo agli altri, ma anche a se stessa. Nessuno dei mortali riuscirebbe a sopportarla se, ancora una volta, impietosita da tanto soffrire non venissi in aiuto io, e, a quel modo che gli Dèi della fiaba di solito soccorrono con qualche metamorfosi chi è sul punto di perire, anch’io, per quanto è possibile, non riportassi all’infanzia quanti sono prossimi alla tomba, onde il volgo, non senza fondamento, usa chiamarli rimbambiti. Se poi qualcuno vuol sapere come opero questa trasformazione, neppure su questo farò misteri.

Conduco i vecchi alla fonte della mia ninfa Lete, che sgorga nelle Isole Fortunate – il Lete che scorre agli Inferi è solo un esile ruscello. Lì, bevute a grandi sorsi le acque dell’oblio, un poco alla volta, dissipati gli affanni, torneranno bambini.

Ma delirano ormai, non ragionano più! Certo. È proprio questo che significa tornare fanciulli. Forse che essere fanciulli non significa delirare e non avere senno? e non è proprio questo, il non aver senno, che più piace di quella età? Chi non vivrebbe come mostro un bambino con la saggezza di un uomo? Lo conferma il diffuso proverbio: “Odio il bambino di precoce saggezza”. E chi, d’altra parte, vorrebbe rapporti e legami di familiarità con un vecchio che alla lunga esperienza di vita unisse pari forza d’animo e acutezza di giudizio?

Così, per mio dono, il vecchio delira. E tuttavia questo mio vecchio delirante è libero dagli affanni che travagliano il saggio; quando si tratta di bere, è un allegro compagno; non avverte il tedio della vita, che l’età più vigorosa sopporta a fatica. Talvolta, come il vecchio di Plauto, torna alle tre famose lettere [AMO], che se fosse in senno ne sarebbe infelicissimo. Invece per merito mio è felice, simpatico agli amici, piacevole in compagnia. Del resto anche in Omero il discorso scorre dalla bocca di Nestore più dolce del miele, mentre amare sono le parole di Achille; e, sempre in Omero, i vecchi che se ne stanno seduti insieme sulle mura parlano con voce soave. In questo senso sono superiori alla stessa infanzia, che è sì deliziosa, ma non parla, e, priva della parola, manca del principale diletto della vita, che è quello di una schietta conversazione. Aggiungi che ai vecchi piacciono moltissimo i bambini, e altrettanto ai bambini i vecchi, “perché il dio spinge sempre il simile verso il simile”. In che differiscono, infatti, se non nelle rughe e negli anni che nel vecchio sono di più? Per il resto, capelli sbiaditi, bocca sdentata, corporatura ridotta, desiderio di latte, balbuzie, garrulità, mancanza di senno, smemoratezza, irriflessione: in breve, sotto ogni altro aspetto si accordano. Quanto più invecchiano, tanto più somigliano ai bambini, finché, come bambini, senza il tedio della vita, senza il senso della morte, abbandonano la vita.

Questo brano è tratto da quella che è forse l’opera più famosa di Erasmo da Rotterdam, il suo Elogio della follia, un saggio scritto nel giro di una settimana, pubblicato per la prima volta nel 1511, considerato uno dei lavori letterari più influenti della civiltà occidentale e uno fra i catalizzatori della Riforma protestante. Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.

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La pubblicazione de Le avventure di Pinocchio

8/7/2015

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Oggi è il 134° anniversario della pubblicazione de Le avventure di Pinocchio.
La prima puntata de Le avventure di Pinocchio, romanzo scritto da Carlo Collodi (pseudonimo dello scrittore Carlo Lorenzini) divenuto poi un classico della letteratura per ragazzi, apparve sul numero del 7 luglio 1881 del Giornale per i bambini diretto da Ferdinando Martini, un periodico settimanale pubblicato come supplemento del quotidiano Il Fanfulla. La prima edizione in volume venne pubblicata, con alcune modifiche, nel 1883, imponendosi subito come lettura per l'infanzia. In essa l'intento educativo non soffoca il libero svolgimento di una favola straordinariamente umana e ricca di suggestioni.

Per ricordare il fortunatissimo personaggio di Carlo Lorenzini abbiamo scelto il francobollo rosso da 25 lire che le poste italiane gli dedicarono nel 1954 in occasione dell'inaugurazione a Collodi, la frazione di Pescia dove nacque la madre dell'autore e dalla quale derivò il suo pseudonimo, del monumento a Pinocchio.

Come andò che Maestro Ciliegia, falegname
trovò un pezzo di legno che piangeva e rideva come un bambino.

— C’era una volta….

— Un re! — diranno subito i miei piccoli lettori.

— No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.

Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.

Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.


…. sentì una vocina sottile sottile.


Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto; e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce:

— Questo legno è capitato a tempo; voglio servirmene per fare una gamba di tavolino. --

Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo; ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perchè sentì una vocina sottile sottile, che disse raccomandandosi:

— Non mi picchiar tanto forte! --

Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!

Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco, e nessuno: guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; aprì l’uscio di bottega per dare un’occhiata anche sulla strada, e nessuno. O dunque?…

— Ho capito; — disse allora ridendo e grattandosi la parrucca — si vede che quella vocina me la son figurata io. Rimettiamoci a lavorare. --

E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solennissimo colpo sul pezzo di legno.

— Ohi! tu m’hai fatto male! — gridò rammaricandosi la solita vocina.

Questa volta maestro Ciliegia restò di stucco, cogli occhi fuori del capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua giù ciondoloni fino al mento, come un mascherone da fontana.

Appena riebbe l’uso della parola, cominciò a dire tremando e balbettando dallo spavento:

— Ma di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?… Eppure qui non c’è anima viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Io non lo posso credere. Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto, come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di fagioli…. O dunque? Che ci sia nascosto dentro qualcuno! Se c’è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l’accomodo io! --

E così dicendo, agguantò con tutt’e due le mani quel povero pezzo di legno, e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della stanza.

Poi si messe in ascolto, per sentire se c’era qualche vocina che si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla!

— Ho capito — disse allora sforzandosi di ridere e arruffandosi la parrucca — si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la son figurata io! Rimettiamoci a lavorare. --

E perchè gli era entrato addosso una gran paura, si provò a canterellare per farsi un po’ di coraggio.

Intanto, posata da una parte l’ascia, prese in mano la pialla, per piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava in su e in giù, sentì la solita vocina che gli disse ridendo:

— Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo! --

Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato. Quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra.

Il suo viso pareva trasfigurito, e perfino la punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.

Questo è il primo capitolo del romanzo di Carlo Collodi Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, senza dubbio il libro più tradotto e venduto della storia della letteratura italiana. Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.


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La morte di Guy de Maupassant

7/7/2015

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Oggi è il 122° anniversario della morte di Guy de Maupassant.
Scrittore francese nato a Miromesnil il 5 agosto 1850, amico di G. Flaubert e di É. Zola, iniziò la sua carriera letteraria con
Palla di sego (1880), lunga novella apparsa nel volume collettivo Le serate di Médan. Nei dieci anni successivi pubblicò oltre 300 novelle e sei romanzi, tra cui La casa Tellier (1881), Una vita (1883), Bel-Ami (1885), Forte come la morte (1889), Il nostro cuore (1890). Attraverso una rigorosa applicazione delle tecniche narrative del naturalismo diede una lucida descrizione della vita della borghesia parigina, popolata da individui mediocri, ossessionati dalla ricerca di avventure erotiche e dall'avarizia, oltre che vittime di una invincibile noia. I suoi personaggi acquistano valore simbolico attraverso la banalità del loro destino, in un mondo drammaticamente privo di qualsiasi moralità. Morì a Parigi il 6 luglio 1893, a soli 43 anni, dopo 18 mesi di incoscienza.
Per ricordare il grande scrittore francese abbiamo scelto il francobollo che la sua madrepatria gli dedicò nel 1993, in occasione del centenario della morte. L'esemplare da 2,50+0,50 franchi fa parte di una serie che celebra gli scrittori famosi.


Quando la cassiera gli ebbe dato il resto dei cinque franchi, Georges Duroy uscì dal ristorante. Siccome aveva un bel portamento, sia per natura, sia per posa di ex sottufficiale, si impettì, si arricciò i baffi con un gesto militaresco abituale, e lanciò su quelli che stavano a tavola uno sguardo rapido e circolare, uno di quegli sguardi da bel giovane, che si stendono intorno come una rete nell’acqua.
Le donne si erano voltate dalla sua parte, tre modeste operaie, una maestra di musica di mezza età, mal pettinata, trascurata, con un cappello sempre polveroso e coi vestiti sempre di traverso, e due borghesucce coi loro mariti, clienti abituali di quella trattoria a prezzo fisso.
Quando fu sul marciapiede, rimase un istante immobile domandandosi che cosa poteva fare. Era il 28 giugno, e in tasca gli restavano esattamente tre franchi e quaranta per arrivare alla fine del mese. Il che voleva dire due colazioni senza cena, o due cene senza colazione, a scelta. Calcolò che il pasto della mattina costava ventidue soldi, e quello della sera trenta; perciò contentandosi della colazione, gli restavano in più un franco e venti, che rappresentavano altri due pasti con pane e salsiccia, più due boccali di birra sul boulevard. Era quella la sua spesa maggiore, e il suo maggior piacere notturno: e cominciò a scendere rue Notre-Dame-de-Lorette.
Camminava come al tempo in cui indossava la divisa di ussaro, il petto in fuori, le gambe un po’ divaricate come se fosse appena sceso da cavallo; e andava avanti brutalmente nella strada piena di gente, spingendo e urtando i passanti per non scostarsi. Teneva leggermente inclinata su un orecchio la tuba piuttosto sciupata, e batteva i tacchi sul marciapiede. Sembrava sempre sfidare qualcuno, i passanti, le case, la città intera, per un capriccio di bel soldato decaduto a borghese.
Sebbene indossasse un vestito da sessanta franchi, vi era in lui una certa eleganza; vistosa, un po’ volgare, ma c’era. Alto, ben fatto, biondo, di un biondo castano vagamente fulvo, coi baffi ritti, che sembrava gli spumeggiassero sulle labbra, gli occhi azzurri, chiari, bucati da una piccolissima pupilla, i capelli naturalmente ricciuti e divisi nel mezzo, somigliava perfettamente al cattivo soggetto dei romanzi popolari.
Era una di quelle sere d’estate in cui a Parigi manca l’aria. La città, calda come una stufa, pareva sudasse nella notte soffocante. Le fogne esalavano dalle bocche di granito aria pestilenziale, e dalle basse finestre le cucine sotterranee rovesciavano nella strada miasmi infami di rigovernatura e salse rancide.
I portieri, in maniche di camicia, a cavalcioni sulla sedia di paglia, fumavano la pipa sulla soglia dei portoni, e i passanti si muovevano fiaccamente, a testa scoperta, col cappello in mano.
Quando Georges Duroy arrivò sul boulevard, si fermò di nuovo, incerto su quello che doveva fare. In quel momento aveva voglia di arrivare fino ai Champs-Elysées e al viale del Bois de Boulogne per trovare un po’ d’aria fresca sotto gli alberi; ma lo tormentava anche un desiderio, quello di un’avventura amorosa.
Come gli si sarebbe offerta? Non lo immaginava, ma l’aspettava da tre mesi, tutti i giorni, tutte le sere. Qualche volta, grazie al bel viso e alla figura elegante, carpiva qua e là un po’ d’amore, ma sperava sempre in qualcosa di più e di meglio.
A tasche vuote, e col sangue bollente, si sentiva eccitare passando vicino alle passeggiatrici che agli angoli delle strade mormoravano: “Volete venir con me, bel giovanotto?”; ma non osava seguirle, perché non le poteva pagare; d’altronde, aspettava qualche altra cosa, altri baci meno volgari.
Gli piacevano, però, i luoghi brulicanti di ragazze pubbliche, i loro balli, i loro caffè, le loro strade: gli piaceva sfiorarle, parlare con loro, dar loro del tu, aspirarne i profumi violenti, sentirsele vicino. Erano donne, infine, donne d’amore. Non le disprezzava col disprezzo innato negli uomini di famiglia.
Svoltò verso la Madeleine e seguì il flusso della folla che camminava oppressa dal caldo. I grandi caffè, pieni di gente, traboccavano sul marciapiede, mettendo così in mostra, sotto la luce vivida e cruda delle vetrine illuminate, la clientela dei bevitori. Sedevano davanti a tavolini rotondi o quadrati dove erano posati i bicchieri pieni di liquidi rossi, gialli, verdi, bruni, di tutte le sfumature; e dentro le brocche si vedevano brillare i cubi del ghiaccio, grossi e trasparenti, che mantenevano fresca la bell’acqua limpida.
Duroy aveva rallentato il passo, il desiderio di bere gli seccava la gola.
Lo aveva preso una sete calda, sete da sera estiva, ed egli pensava alla deliziosa sensazione delle bevande fredde che colano in bocca. Ma se nella serata avesse bevuto soltanto due boccali di birra, addio magra cena del giorno dopo, e conosceva troppo bene le ore affamate della fine del mese.

Questo è l’incipit del secondo romanzo realista di Guy de Maupassant Bel Ami, pubblicato per la prima volta nel 1885 a puntate sulla rivista “Gil Blas“. Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.


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La morte di Ernest Hemingway

4/7/2015

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Oggi è il 54° anniversario della morte di Ernest Hemingway.
Scrittore statunitense nato a Oak Park il 21 luglio 1899, giornalista, durante la prima guerra mondiale fu volontario nelle unità sanitarie statunitensi in Italia e fu ferito; fu successivamente corrispondente per lo Star Weekly di Toronto a Parigi, dove frequentò G. Stein e i protagonisti della cosiddetta lost generation (E. Pound, J. Joyce, P. Picasso, ecc.), gruppo di intellettuali disillusi dalle tragiche vicende della guerra. Dopo alcuni racconti (Nel nostro tempo, 1924), pubblicò nel 1926 Il sole sorge ancora (in Gran Bretagna e nella traduzione italiana, Fiesta), che già rivela appieno il suo stile conciso e immediato e quella particolare struttura narrativa che attraverso il largo impiego del dialogo e lo scarso intervento del narratore tende a dare una rappresentazione oggettiva della vicenda e dei personaggi. Seguirono alcuni nuovi racconti (Uomini senza donne, 1927, Le nevi del Kilimangiaro, 1927, poi confluiti con altri nei Primi quarantanove racconti, 1938), i romanzi Addio alle armi (1928), incentrato sull'esperienza della guerra in Italia, Avere e non avere (1937), Per chi suona la campana (1940), sulla guerra civile spagnola, col quale giunse all'apice della celebrità e, dopo un lungo periodo di silenzio, Il vecchio e il mare (1952), che con Isole nella corrente (1969) è frutto della lunga residenza di Hemingway a Cuba. Il definitivo riconoscimento della sua attività di scrittore e della sua importanza nel panorama letterario contemporaneo si ebbe con l'assegnazione nel 1954 del premio Nobel per la letteratura. Altre opere: Morte nel pomeriggio (1932), Verdi colline d'Africa (1935), Di là dal fiume e tra gli alberi (1950), Festa mobile (1964). Morì suicida a Ketchum, nell'Idaho, il 2 luglio 1961.
Per ricordare il grande scrittore statunitense abbiamo scelto il bel francobollo da 25 centesimi a lui dedicato che le poste USA emisero nel 1989. L'esemplare raffigura un primo piano di Hemingway in una foto del 1957 e sullo sfondo alcuni impala galoppanti nella pianura africana.

Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce.
Nei primi quaranta giorni lo aveva accompagnato un ragazzo, ma dopo quaranta giorni passati senza che prendesse neanche un pesce, i genitori del ragazzo gli avevano detto che il vecchio ormai era decisamente e definitivamente salao, che è la peggior forma di sfortuna, e il ragazzo li aveva ubbiditi andando in un’altra barca che prese tre bei pesci nella prima settimana. Era triste per il ragazzo veder arrivare ogni giorno il vecchio con la barca vuota e scendeva sempre ad aiutarlo a trasportare o le lenze addugliate o la gaffa e la fiocina e la vela serrata all’albero.
La vela era rattoppata con sacchi da farina e quand’era serrata pareva la bandiera di una sconfitta perenne. Il vecchio era magro e scarno e aveva rughe profonde alla nuca. Sulle guance aveva le chiazze del cancro della pelle, provocato dai riflessi del sole sul mare tropicale. Le chiazze scendevano lungo i due lati del viso e le mani avevano cicatrici profonde che gli erano venute trattenendo con le lenze i pesci pesanti. Ma nessuna di queste cicatrici era fresca. Erano tutte antiche come erosioni di un deserto senza pesci.
Tutto in lui era vecchio tranne gli occhi che avevano lo stesso colore del mare ed erano allegri e indomiti.
“Santiago” gli disse il ragazzo mentre risalivano la riva dal punto sul quale era stata sistemata la barca.
“Potrei ritornare con te. Abbiamo guadagnato un po’ di quattrini.”
Il vecchio aveva insegnato a pescare al ragazzo e il ragazzo gli voleva bene.
“No” disse il vecchio. “Sei su una barca che ha fortuna. Resta con loro.”
“Ma ricordati quella volta che sei rimasto ottantasette giorni senza prendere pesci e poi ne abbiamo presi di enormi tutti i giorni per tre settimane di seguito.”
“Ricordo” disse il vecchio. “Lo so che non è perché dubitavi di me, che mi hai lasciato.”
“È stato papà, che mi ha costretto a lasciarti. Sono un ragazzo e devo ubbidire.”
“Lo so” disse il vecchio. “È assolutamente normale.”
“Lui non ha molta fiducia.”
“No” disse il vecchio. “Ma noi sì. Vero?”
“Sì” disse il ragazzo. “Posso offrirti una birra alla Terrazza? E poi portiamo la roba a casa.”
“Perché no?” disse il vecchio. “Tra pescatori.”
Sedettero sulla terrazza e parecchi pescatori canzonarono il vecchio e lui non si offese. Altri, pescatori più vecchi, lo guardarono e si sentirono tristi. Ma non lo mostrarono e parlarono con garbo della corrente e a che profondita avevano gettato le lenze e del bel tempo stazionario e di ciò che avevano visto. I pescatori fortunati di quel giorno erano già rientrati e avevano già squartato i loro marlin e li avevano trasportati distesi su due assi, con due uomini barcollanti all’estremità di ogni asse, al magazzino dei pesci dove aspettavano l’autocarro frigorifero che li portasse al mercato all’Avana.
Coloro che avevano preso pescecani li avevano portati allo stabilimento sull’altra riva della baia dove li avevano issati alle carrucole per togliere il fegato, tagliare le pinne e scuoiare le pelli e ridurre la carne a strisce per metterla sotto sale.
Quando il vento veniva da est, dallo stabilimento giungeva l’odore attraverso il porto; ma oggi lo si sentiva soltanto vagamente perché il vento era indietreggiato a nord e poi si era smorzato e sulla terrazza si stava bene e c’era il sole.
“Santiago” disse il ragazzo.
“Sì” disse il vecchio. Stava stringendo il bicchiere fra le mani e pensava a tanti anni fa.
“Posso andare a cercarti le sardine per domani?”
“No. Va a giocare al baseball. Sono ancora in grado di remare e Rogelio getterà la rete.”
“Andrei volentieri. Se non posso pescare con te vorrei almeno esserti utile in qualche modo.”
“Mi hai comprato una birra” disse il vecchio. “Sei già un uomo.”
“Quanti anni avevo la prima volta che mi hai preso sulla barca?”
“Cinque, e a momenti venivi ucciso perché ho issato il pesce troppo presto e lui ha quasi fatto a pezzi la barca. Ricordi?” “Ricordo la coda che sbatteva e rintronava e il banco che si è spaccato e il frastuono delle mazzate. Ricordo che mi hai gettato a prua tra le lenze addugliate fradicie e ho sentito tutta la barca rabbrividire e il frastuono che facevi mentre lo prendevi a mazzate come quando si abbatte un albero, e l’odore dolce del sangue che avevo addosso.”
“Te lo ricordi davvero o è perché te l’ho raccontato?”
“Ricordo tutto, dalla prima volta che siamo andati insieme.”
Il vecchio lo guardò con gli occhi bruciati dal sole, pieni di fiducia e di affetto.
“Se tu fossi mio figlio ti porterei fuori a tentare” disse. “Ma sei figlio di tuo padre e di tua madre e hai trovato una barca fortunata.”
“Posso procurarti le sardine? So anche dove potrei procurarti quattro esche.”
“Mi sono avanzate quelle di oggi. Le metterò nel sale nella scatola.”
“Lascia che te ne dia quattro fresche.”
“Una” disse il vecchio. La speranza e la fiducia non l’avevano mai lasciato. Ma ora si rafforzavano come quando sorge il vento.

Questo è l’incipit del romanzo di Ernest Hemingway Il vecchio e il mare, pubblicato per la prima volta sulla rivista Life nel 1952. Grazie a questo libro Hemingway ricevette il premio Pulitzer nell’anno 1953 e il premio Nobel nell’anno 1954. Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.



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L'uscita del primo volume della saga di Harry Potter

30/6/2015

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2007. Decimo anniversario del primo romanzo di Harry Potter. Copertine dei romanzi di Joanne K. Rowling: Harry Potter e la pietra filosofale, Harry Potter e la camera dei segreti, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, Harry Potter e il calice di fuoco, Harry Potter e l'Ordine della Fenice, Harry Potter e il principe mezzosangue, Harry Potter e i Doni della Morte.
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2007. Decimo anniversario del primo romanzo di Harry Potter. Stemmi della scuola di magia e stregoneria
 di Hogwarts e delle sue quattro case di Grifondoro, Tassorosso, Corvonero e Serpeverde.
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2011. Letteratura fantasy. Albus Silente e Lord Voldemort, personaggi della saga di Harry Potter.

Oggi è il 18° anniversario dell'uscita del primo volume della saga di Harry Potter.
Harry Potter e la pietra filosofale (Harry Potter and the Philosopher's Stone, negli Stati Uniti intitolato Harry Potter and the Sorcerer's Stone) fu pubblicato per la prima volta il 30 giugno 1997 dalla casa editrice londinese Bloomsbury. Fu il primo di una serie di sette romanzi scritti e ideati dalla scrittrice britannica J. K. Rowling negli anni novanta, che hanno come protagonista il giovane mago Harry Potter. Il romanzo ha riscosso un successo incredibile con quasi 120 milioni di copie vendute nel mondo, e ha vinto numerosi premi; ne è stata tratta una versione cinematografica nel 2001 per la regia di Chris Columbus.

Per celebrare il grande successo letterario della Rowling abbiamo scelto i francobolli che la sua madrepatria ha dedicato a Harry Potter e ai suoi personaggi nel corso degli anni. Di ognuno di essi abbiamo pubblicato l'immagine e una breve descrizione sopra.

Il bambino sopravvissuto
Mr e Mrs Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante.
Erano le ultime persone al mondo da cui aspettarsi che avessero a che fare con cose strane o misteriose, perché sciocchezze del genere proprio non le approvavano.
Mr Dursley era direttore di una ditta di nome Grunnings, che fabbricava trapani. Era un uomo corpulento, nerboruto, quasi senza collo e con un grosso paio di baffi. Mrs Dursley era magra, bionda e con un collo quasi due volte più lungo del normale, il che le tornava assai utile, dato che passava gran parte del tempo ad allungarlo oltre la siepe del giardino per spiare i vicini. I Dursley avevano un figlioletto di nome Dudley e secondo loro non esisteva al mondo un bambino più bello.
Possedevano tutto quel che si poteva desiderare, ma avevano anche un segreto, e il loro più grande timore era che qualcuno potesse scoprirlo. Non credevano che avrebbero potuto sopportare che qualcuno venisse a sapere dei Potter. Mrs Potter era la sorella di Mrs Dursley, ma non si vedevano da anni. Anzi, Mrs Dursley faceva addirittura finta di non avere sorelle, perché Mrs Potter e quel buono a nulla del marito non avrebbero potuto essere più diversi da loro di così. I Dursley rabbrividivano al solo pensiero di quel che avrebbero detto i vicini se i Potter si fossero fatti vedere nei paraggi. Sapevano che i Potter avevano anche loro un figlio piccolo, ma non lo avevano mai visto. E il ragazzino era un’altra buona ragione per tenere i Potter a distanza: non volevano che Dudley frequentasse un bambino di quel genere.
Quando i coniugi Dursley si svegliarono, la mattina di quel martedì grigio e coperto in cui inizia la nostra storia, nel cielo nuvoloso nulla faceva presagire le cose strane e misteriose che di lì a poco sarebbero accadute in tutto il paese. Mr Dursley scelse canticchiando la cravatta da giorno più anonima del suo guardaroba, e Mrs Dursley continuò a chiacchierare ininterrottamente mentre con grande sforzo costringeva sul seggiolone Dudley che urlava a squarciagola. Nessuno notò il grosso gufo bruno che passò con un frullo d’ali davanti alla finestra.
Alle otto e mezzo, Mr Dursley prese la sua valigetta ventiquattr’ore, sfiorò con le labbra la guancia della moglie, e tentò di dare un bacio a Dudley, ma lo mancò perché, in quel momento, in preda a un furioso capriccio, il pupo stava scagliando i suoi fiocchi d’avena contro il muro. ‘Piccolo monello!’ commentò ridendo Mr Dursley mentre usciva di casa. Salì in macchina e percorse a marcia indietro il vialetto del numero 4.
Fu all’angolo della strada che notò le prime avvisaglie di qualcosa di strano: un gatto che leggeva una mappa. Per un attimo, Mr Dursley non si rese conto di quel che aveva visto; poi girò di scatto la testa e guardò di nuovo. C’era un gatto soriano ritto sulle zampe posteriori, all’angolo di Privet Drive, ma di mappe neanche l’ombra. Ma che diavolo aveva per la testa? La luce doveva avergli giocato qualche brutto tiro. Si stropicciò gli occhi e fissò il gatto, che gli ricambiò l’occhiata. Mentre l’auto girava l’angolo e percorreva un tratto di strada, Mr Dursley tenne d’occhio il gatto nello specchietto retrovisore. In quel momento il felino stava leggendo il cartello stradale che indicava Privet Drive. No, lo stava guardando; i gatti non sanno leggere le mappe e neanche i cartelli stradali. Mr Dursley si riscosse da quei pensieri e allontanò il gatto dalla mente. Mentre si dirigeva in città, non pensò ad altro che al grosso ordine di trapani che sperava di ricevere quel giorno.

Questo è l’incipit del primo volume di Harry Potter scritto dall’autrice britannica J. K. Rowling. Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo insieme agli altri 6 romanzi della stessa saga nella biblioteca dell’Antica Frontiera.

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La nascita di Giacomo Leopardi

29/6/2015

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1932. Pro società nazionale Dante Alighieri.
Ritratto di Giacomo Leopardi.
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1937. Centenario di uomini illustri.
Ritratto di Giacomo Leopardi.
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1937. Centenario di uomini illustri.
Ritratto di Giacomo Leopardi.
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1998. Bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi.
Ritratto di Giacomo Leopardi e palazzo Leopardi.

Oggi è il 217° anniversario della nascita di Giacomo Leopardi.
Figlio del conte Monaldo e di Adelaide Antici, Giacomo Leopardi nacque a Recanati il 29 giugno 1798. Avviato agli studi classici da un precettore privato, continuò in solitudine la propria preparazione culturale, usufruendo della ricca biblioteca del padre. Acquisita la conoscenza di lingue antiche e moderne, si dedicò a un appassionato e instancabile lavoro di traduzione e analisi filologica, che gli conquistò fama e stima fra i letterati del tempo. Il clima di vita austera e chiusa instaurato dai genitori, l'inflessibilità della loro azione educatrice, la mancanza di affetto e l'isolamento a cui Giacomo fu costretto impressero un marchio di disperata tristezza ai suoi anni giovanili e improntarono il suo carattere letterario, fin dalle prime opere, a una concezione profondamente pessimistica e materialistica del reale. Dopo il fallimento di un tentativo di fuga da Recanati e della ricerca di un impiego, trascorse alcuni periodi a Milano, a Bologna, a Firenze e a Pisa, dove amici e studiosi lo chiamarono, per seguire la pubblicazione di alcune sue opere. Afflitto da problemi di salute e tormentato dai rapporti conflittuali con la famiglia, dopo un'alternanza di fughe e ritorni a Recanati, nel 1833 si trasferì a Napoli, ospite dell'amico Antonio Ranieri e qui morì il 14 giugno 1837.
Ampia e multiforme, la produzione letteraria di Leopardi è l'affascinante testimonianza del percorso interiore di un uomo di acuta intelligenza, elevata cultura e personalità geniale e inquieta. Nello Zibaldone, appassionato diario di una vita di studi, il poeta annota, per quindici anni e in più di 4.000 pagine, appunti, ricerche, riflessioni, idee su una straordinaria varietà di argomenti e con molteplici stili di scrittura. Tra il 1819 e il 1821 scrive i piccoli Idilli, capolavori di insuperabile bellezza come L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, e varie canzoni, come Bruto minore, Ultimo canto di Saffo, All'Italia; Le Operette morali, composte nel  1824, sono l'opera in prosa più matura: attraverso le parole di personaggi storici o inventati, il poeta indaga sui misteri della natura e osserva con malinconica ironia l'infelice condizione dell'uomo. Agli anni '28 e '29 risalgono i grandi Idilli: A Silvia, Le ricordanze, Il passero solitario, La quiete dopo la tempesta, II sabato del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante dell'Asia. In essi il poeta, con limpidezza di stile e suggestive immagini, affronta i temi della disillusione, del rimpianto della giovinezza, del dolore cosmico degli uomini ingannati da una natura ostile e crudele.
Per ricordare il grandissimo poeta e letterato italiano abbiamo scelto i quattro francobolli che la sua madrepatria gli ha dedicato nel corso degli anni. Di ognuno di essi abbiamo pubblicato l'immagine e una breve descrizione sopra.

« Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare. »

Se volete approfondire la vita e le altre opere dell’autore de L’Infinito potete farlo sfogliando le pagine del 3° volume della Storia della letteratura italiana presente nella biblioteca dell’Antica Frontiera.



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La nascita di George Orwell

25/6/2015

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Oggi è il 112° anniversario della nascita di George Orwell.
Pseudonimo di Eric Arthur Blair, narratore e saggista britannico nato a Motihari, in India, il 25 giugno 1903, partecipò alla guerra civile spagnola e traspose la sua esperienza in Omaggio alla Catalogna (1938).
Ottenne un riconoscimento internazionale con La fattoria degli animali (1945), allegorica e satirica rappresentazione di una società comunistica, e con 1984 (1948), romanzo di fantapolitica in cui è descritto l'oppressivo controllo da parte di un regime totalitario su ogni aspetto della vita privata dei cittadini. 
Altre opere: Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933); Giorni birmani (1934); La figlia del reverendo (1935); La strada per Wigan Pier (1937); Le frontiere dell'arte e della propaganda (1941).
Orwell viene ricordato soprattutto per il contributo che diede alla letteratura distopica (Utopia alla rovescia), che utilizzò più volte nella lotta contro il totalitarismo. Dal punto di vista letterario egli si inserisce nel grande filone della letteratura satirica inglese, che si può far risalire a Jonathan Swift (con riferimento ad I viaggi di Gulliver, ma anche al raccontino Una modesta proposta).
In realtà sono i suoi saggi ed articoli che – più di ogni altro suo scritto – costituiscono il contributo maggiore di questo scrittore alla comprensione del suo (e anche del nostro, attuale) tempo, oltre che un alto esempio di esercizio della ragione e dello spirito critico, tramite uno stile assolutamente superbo.
La sua scrittura, pur esprimendo concetti complessi, è chiara ed adotta parole ben comprensibili: Animal Farm in particolare è stato più volte usato come lettura nei corsi di lingua inglese per stranieri.

Per ricordare il grande scrittore britannico abbiamo scelto il francobollo da 800 lire emesso nel 1998 dalla Repubblica di San Marino e appartenente alla serie di 16 valori "Un secolo di fantascienza". L'esemplare qui riprodotto è dedicato a "1984", l'opera più famosa di George Orwell.

Era una luminosa e fredda giornata d’aprile, e gli orologi battevano tredici colpi. Winston Smith, tentando di evitare le terribili raffiche di vento col mento affondato nel petto, scivolò in fretta dietro le porte di vetro degli Appartamenti Vittoria: non così in fretta tuttavia, da impedire che una folata di polvere sabbiosa entrasse con lui.
L’ingresso emanava un lezzo di cavolo bollito e di vecchi e logori stoini. A una delle estremità era attaccato un manifesto a colori, troppo grande per poter essere messo all’interno.
Vi era raffigurato solo un volto enorme, grande più di un metro, il volto di un uomo di circa quarantacinque anni, con folti baffi neri e lineamenti severi ma belli. Winston si diresse verso le scale. Tentare con l’ascensore, infatti, era inutile. Perfino nei giorni migliori funzionava raramente e al momento, in ossequio alla campagna economica in preparazione della Settimana dell’Odio, durante le ore diurne l’erogazione della corrente elettrica veniva interrotta.
L’appartamento era al settimo piano e Winston, che aveva trentanove anni e un’ulcera varicosa alla caviglia destra, procedeva lentamente, fermandosi di tanto in tanto a riprendere fiato. Su ogni pianerottolo, di fronte al pozzo dell’ascensore, il manifesto con quel volto enorme guardava dalla parete. Era uno di quei ritratti fatti in modo che, quando vi muovete, gli occhi vi seguono. IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA, diceva la scritta in basso. All’interno dell’appartamento una voce pastosa leggeva un elenco di cifre che avevano qualcosa a che fare con la produzione di ghisa grezza. La voce proveniva da una placca di metallo oblunga, simile a uno specchio oscurato, incastrata nella parete di destra. Winston girò un interruttore e la voce si abbassò notevolmente, anche se le parole si potevano ancora distinguere. Il volume dell’apparecchio (si chiamava teleschermo) poteva essere abbassato, ma non vi era modo di spegnerlo. Si diresse alla finestra, piccola fragile figuretta, la cui magrezza era accentata dalla tuta azzurra in cui consisteva l’uniforme del Partito. I capelli erano biondi, molto chiari, il colorito faccia lievemente sanguigno, la pelle raschiata da ruvide saponette e da lamette che avevano perso il filo da tempo, e dal freddo dell’inverno che proprio allora era finito.
Fuori, anche attraverso i vetri chiusi della finestra, il mondo pareva freddo. Giù, nella strada, mulinelli di vento giravano polvere e carta straccia a spirale e, sebbene splendesse il sole e il cielo fosse d’un luminoso azzurro, nessun oggetto all’intorno sembrava rimandare il colore, con l’eccezione dei cartelloni che erano incollati da per tutto. La faccia dai baffi neri riguardava da ogni cantone. Ce n’era una proprio nella casa di fronte, IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA, diceva la scritta, mentre gli occhi neri fissavano con penetrazione quelli di Winston. Più sotto, a livello della strada, un altro cartellone stracciato a un angolo, sbatteva col vento, scoprendo e nascondendo, alternativamente, la parola SOCING. Lontano, un elicottero volava fra un tetto e l’altro, se ne restava librato per qualche istante come un moscone, e poi saettava con una curva in altra direzione. Era la squadra di polizia, che curiosava nelle finestre della gente. Le squadre non erano gran che importanti tuttavia.
Quella che soprattutto contava era la polizia del pensiero, la cosiddetta Psicopolizia.
Alle spalle di Winston, la voce dal teleschermo barbugliava ancora qualcosa sulla produzione della ghisa e il completamento del Nono Piano Triennale. Il teleschermo riceveva e trasmetteva simultaneamente. Qualsiasi suono che Winston avesse prodotto, al disopra d’un sommesso bisbiglio, sarebbe stato colto; per tutto il tempo, inoltre, in cui egli fosse rimasto nel campo visivo comandato dalla placca di metallo, avrebbe potuto essere, oltre che udito, anche veduto. Naturalmente non vi era nessun modo per sapere esattamente in quale determinato momento vi si stava guardando. Quanto spesso e con quali principi la Psicopolizia veniva a interferire sui cavi che vi riguardavano, era pura materia per congetture. E sarebbe stato anche possibile che guardasse tutti, e continuatamente. Ad ogni modo avrebbe potuto cogliervi sul vostro cavo in qualsiasi momento avesse voluto. Si doveva vivere (o meglio si viveva, per un’abitudine che era diventata, infine, istinto) tenendo presente che qualsiasi suono prodotto sarebbe stato udito, e che, a meno di essere al buio, ogni movimento sarebbe stato visto.
Winston teneva le spalle voltate al teleschermo. Era più sicuro sebbene, come anche lui sapeva benissimo, perfino un paio di spalle può essere rivelatore. Un chilometro lontano, il Ministero della Verità, da cui dipendeva il suo impiego si levava alto e bianco sul tetro paesaggio. Questa, pensò con una sorta di vaga nausea, questa era Londra, la città principale di Pista Prima, che era la terza delle più popolose province di Oceania. Cercava di spremere dal cervello quelle memorie dell’infanzia che gli dicessero se Londra era sempre stata proprio così.
C’erano sempre stati quei panorami di case novecento in rovina, coi fianchi tenuti su a mala pena da travi di legno, con le finestre turate da carta incatramata e con i tetti di ferro ondulato, e quelle staccionate intorno ai giardini che pendevano sghembe da tutte le parti? E i luoghi bombardati dove la polvere di calcestruzzo mulinava nell’aria, e le erbacce crescevano sparse sui mucchi di sassi? e quegli altri luoghi in cui le bombe avevano aperto dei buchi più larghi e dov’erano germogliate miserabili colonie di capanne di legno simili a pollai? Ma era inutile, non riusciva a ricordare: non restava nulla della sua infanzia, se non una serie di quadri senza sfondo e per la maggior parte incomprensibili.

Questo è l’incipit di uno dei più celebri romanzi di George Orwell, 1984. Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.


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La nascita di Federico Garcìa Lorca

5/6/2015

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Oggi è il 117° anniversario della nascita di Federico Garcìa Lorca.
Poeta e drammaturgo spagnolo nato il 5 giugno 1898 a Fuente Vaqueros, in Andalusia, dopo gli studi di legge a Granada fu a Madrid al centro di un gruppo di intellettuali della generazione del 1927. Dopo un soggiorno a New York e a Cuba organizzò il gruppo teatrale itinerante "la Barraca". Tra i fondatori dell'associazione degli intellettuali antifascisti fu arrestato e fucilato dai franchisti all'inizio della guerra civile. La sua attività si dispiegò nel campo della musica, della pittura, oltre che nella poesia e nel teatro, ed caratterizzata da una molteplicità di suggestioni ed ispirazioni: il canto e la poesia gitana, la tradizione andalusa, la tradizione metaforica, il surrealismo, l’impegno sociale.
Per rendere omaggio al grande poeta spagnolo abbiamo scelto il francobollo da 650 lire che le poste italiane gli dedicarono nel 1998, in occasione del centenario della sua nascita. La vignetta raffigura Garcìa Lorca sullo sfondo della campagna andalusa con cavalieri e donne gitane.


Vorrei lasciare in questo libro
tutto il mio cuore.
Questo libro che ha visto
con me i paesaggi
e vissuto ore sante.

Che pena quei libri
che ci riempiono le mani
di rose e di stelle
e lentamente passano! 

Che tristezza profonda
lasciare i pannelli
di pene e dolori
che un cuore porta! 

Veder passare gli spettri
di vite, che si cancellano,
vedere l’uomo nudo
in Pegasi senz’ali, 

veder la vita e la morte,
la sintesi del mondo
che in spazi profondi
si guardano e ci abbracciano.

Un libro di poesie
è un autunno morto:
i versi son le foglie
nere sulla bianca terra, 

e la voce che li legge
è il soffio del vento
che li affonda nei cuori
– intime distanze – 

Il poeta è un albero
con frutti di tristezza
e con foglie secche
per pianger ciò che ama.

Il poeta è il medium
della Natura
che spiega la sua grandezza
con delle parole. 

Il poeta capisce
tutto l’incomprensibile,
e chiama amiche
cose che si odiano.

Sa che i sentieri
sono tutti impossibili
e per questo la notte
li percorre con calma. 

Nei libri di versi,
fra rose di sangue,
passano le tristi
e eterne carovane 

che lasciano il poeta,
quando piange la sera,
circondato e stretto
dai suoi fantasmi 

Poesia è amarezza
celeste miele che sgorga
da un invisibile favo
che fabbricano i cuori. 

Poesia è l’impossibile
fatto possibile. Arpa
che invece di corde
ha cuori e fiamme. 

Poesia è la vita
che attraversiamo in ansia
aspettando colui che porta
la nostra barca senza rotta. 

Dolci libri di versi
sono gli astri che passano
nel muto silenzio
verso il regno del Nulla,
scrivendo nel cielo
strofe d’argento. 

Oh! che pene profonde
e mai riparate,
le voci dolenti
che cantano i poeti! 

Vorrei in questo libro
lasciar tutto il mio cuore.

La poesia che avete letto sopra si intitola Questo è il prologo (Este es el pròlogo) ed è stata scritta da Federico Garcìa Lorca nel 1918. Se volete leggere le altre opere del poeta spagnolo potete trovarle nel libro Tutte le poesie nella biblioteca dell’Antica Frontiera.



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La morte di Franz Kafka

3/6/2015

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Cecoslovacchia, 1969. Personalità della cultura nelle caricature. Franz Kafka. Disegno di Adolf Hoffmeister (1902-1973), pittore e grafico ceco.
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Germania Ovest, 1983. Centenario della nascita di Franz Kafka.
Firma dello scrittore e c
hiesa di Santa Maria di Týn a Praga.
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Israele, 1998. Contributo ebraico alla cultura mondiale contemporanea. Franz Kafka.
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Germania, 2008. 125° anniversario della nascita di Franz Kafka. Uomo al tavolo. Schizzo per il romanzo "Il castello".
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Repubblica Ceca, 2013. Francobollo ordinario autoadesivo. Franz Kafka.

Oggi è il 91° anniversario della morte di Franz Kafka.
Scrittore boemo di lingua tedesca nato a Praga il 3 luglio 1883, figlio di un ricco commerciante ebreo, fu profondamente legato ai valori della cultura dell'ebraismo, ma subì contemporaneamente il forte influsso della cultura slava e tedesca. Tale pluralità di riferimenti, unita al rapporto conflittuale con il padre, incapace di comprenderne la personalità umana e artistica (Lettera al padre, 1919), si risolse tuttavia in una lucida coscienza di estraneità rispetto all'ambiente culturale circostante. Laureatosi in legge (1906), fu impiegato presso alcune compagnie di assicurazioni (1908-22), finché, malato di tubercolosi, fu costretto al ricovero nel sanatorio di Kierling, vicino a Vienna. Momenti particolarmente significativi della sua vita sentimentale e intellettuale sono rappresentati dalle relazioni, bruscamente interrotte, con Felice Bauer (1914-17), Julie Wohruzek (1919-20) e Milena Jesenskà-Pollak; più sereno fu invece il rapporto con Dora Dyamant. Mentre era in vita pubblicò soltanto alcuni racconti (La metamorfosi, 1915; La condanna, 1916; Nella colonia penale, 1919). mentre i romanzi principali, incompiuti, furono pubblicati soltanto postumi e contro la sua volontà testamentaria dall'amico M. Brod. Tra questi Il processo (1914-15, pubbl. 1925) narra la vicenda dell'impiegato di banca K. perseguitato da un tribunale immaginario e infine condannato a morte senza che egli possa conoscere le accuse; Il castello (1920-22, pubbl. 1926) descrive il vano tentativo dell'agrimensore K. per vincere la diffidenza e l'ostilità dei funzionari di un villaggio, organizzati in una rigida gerarchia, e della stessa popolazione, inerte spettatrice dei soprusi cui è da essi sottoposta. Il senso di un'oscura colpa e di un'incomprensibile condanna permea l'intera sua opera; in essa sono evidenti richiami autobiografici come pure profondi legami con lo chassidismo, ma è finora sfuggita a un'interpretazione complessiva univoca e ha stimolato al contrario letture in chiave allegorica del tutto differenti e talora contraddittorie fra loro, da quella religiosa, a quella esistenziale o psicoanalitica, a quella marxista. Fondamentali per la comprensione della personalità e dell'opera di K. sono il Diario scritto tra il 1912 e il 1920 (pubbI. 1951) e il ricco epistolario (partic. le Lettere a Milena, 1952). Altre opere: America (1912, pubbl. 1927); La costruzione della muraglia cinese (1918). Morì di tubercolosi a Kierling il 3 giugno 1924.
Per rendere omaggio a quella che è giustamente ritenuta una delle maggiori figure della letteratura del XX secolo abbiamo raccolto i cinque francobolli che diverse nazioni hanno dedicato a Kafka nel corso degli anni. Di ognuno di essi abbiamo pubblicato l'immagine e una breve descrizione sopra.

Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.
«Che cosa mi è capitato?» pensò. Non stava sognando. La sua camera, una normale camera d’abitazione, anche se un po’ piccola, gli appariva in luce quieta, fra le quattro ben note pareti. Sopra al tavolo, sul quale era sparpagliato un campionario di telerie svolto da un pacco (Samsa faceva il commesso viaggiatore), stava appesa un’illustrazione che aveva ritagliata qualche giorno prima da un giornale, montandola poi in una graziosa cornice dorata. Rappresentava una signora con un cappello e un boa di pelliccia, che, seduta ben ritta, sollevava verso gli astanti un grosso manicotto, nascondendovi dentro l’intero avambraccio.
Gregor girò gli occhi verso la finestra, e al vedere il brutto tempo – si udivano le gocce di pioggia battere sulla lamiera del davanzale – si sentì invadere dalla malinconia. «E se cercassi di dimenticare queste stravaganze facendo un’altra dormitina?» pensò, ma non potè mandare ad effetto il suo proposito: era abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato attuale gli era impossibile assumere tale posizione. Per quanta forza mettesse nel girarsi sul fianco, ogni volta ripiombava indietro supino. Tentò almeno cento volte, chiudendo gli occhi per non vedere quelle gambette divincolantisi, e a un certo punto smise perché un dolore leggero, sordo, mai provato prima cominciò a pungergli il fianco.

Questo è l’incipit del famoso racconto di Franz Kafka La metamorfosi. Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.


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La nascita di Arthur Conan Doyle

22/5/2015

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1993. Sherlock Holmes. Opere rappresentate: L'enigma di Reigate, Il mastino dei Baskerville, L'avventura dei sei Napoleoni, L'avventura dell'interprete greco, L'ultima avventura.
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1997. Europa: saghe e leggende.
Il mastino dei Baskerville.
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2009. Britannici illustri. Arthur Conan Doyle.

Oggi è il 156° anniversario della nascita di Arthur Conan Doyle.
Nato a Edimburgo il 22 maggio 1859, discendente per parte di madre da una famiglia irlandese di antica nobiltà, compì i suoi studi in una scuola cattolica di gesuiti, quindi si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Edimburgo, dove si laureò nel 1885. Dopo la laurea si imbarcò come medico di bordo su una baleniera, quindi aprì uno studio a Portsmouth, con scarso successo. Cominciò a dedicarsi alla letteratura e al giornalismo e decise di abbandonare definitivamente la professione medica.
Creatore del celeberrimo personaggio di Sherlock Holmes e del suo aiutante dottor Watson, protagonisti di romanzi polizieschi (
Uno studio in rosso, 1887; Il segno dei quattro, 1890; Il mastino dei Baskerville, 1902) e di racconti, riuniti poi in raccolte (Le avventure di Sherlock Holmes, 1892; Le memorie di Sherlock Holmes, 1894; Il ritorno di Sherlock Holmes, 1905), ottenne enormi successi di vendita che gli consentirono una vita molto agiata. Fu anche autore di romanzi storici (La compagnia bianca, 1891) e fantastici (Il mondo perduto, 1912). Dopo molti anni dedicati esclusivamente alla scrittura, morì improvvisamente nella sua casa di campagna di Crowborough, nel Sussex, il 7 luglio 1930.
Per ricordare il famoso scrittore britannico abbiamo scelto i francobolli che la sua madrepatria gli ha dedicato nel corso degli anni. Di ognuno di essi abbiamo pubblicato l'immagine e una breve descrizione sopra.


Nell’anno 1878, conseguita la laurea in medicina alla London University, mi recai a Netley per seguire il corso di specializzazione come chirurgo militare. Completati i miei studi, fui regolarmente distaccato presso il Quinto Corpo Fucilieri del Northumberland in qualità di assistente chirurgo. All’epoca, il reggimento era di stanza in India e, prima che io potessi raggiungerlo, era scoppiato il secondo conflitto afghano. Sbarcando a Bombay, venni a sapere che il mio reparto aveva già attraversato i passi ed era ormai all’interno del territorio nemico. Molti altri ufficiali si trovavano, comunque, nella mia stessa situazione. Seguimmo quindi il reparto e riuscii a raggiungere sano e salvo Candahar, dove mi ricongiunsi al mio reggimento assumendo subito le mie nuove funzioni.

Questo è l’incipit di Uno studio in rosso, il primo celebre romanzo di Arthur Conan Doyle dedicato alle avventure di Sherlock Holmes. Se volete continuare a leggerlo potete trovarlo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.


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