Il 17 novembre 1796 ad Arcole, al termine di una battaglia durata tre giorni, le forze francesi comandate dal generale Bonaparte sconfissero gli austriaci in Italia. Lo scontro infranse le speranze del comandante austriaco Alvinczy di riunirsi al generale Davidovich e proseguire quindi per liberare Mantova.
Due giorni prima il giovane generale Bonaparte, alla testa dei suoi uomini e brandendo un tricolore francese, aveva guidato una coraggiosa carica contro il ponte che attraversava il fiume Alpone nei pressi di Arcole. Il notevole atto di coraggio, immortalato da diversi celebri pittori fino a farlo diventare un classico dell'iconografia bonapartista, è proprio il soggetto del francobollo da 0,60 franchi che le poste francesi emisero nel 1972 per ricordare questo importante episodio della Prima Campagna d'Italia.
La situazione dell’Armata d’Italia stava divenendo sempre più precaria. Due forti contingenti nemici, ciascuno dei quali aveva riportato diversi successi contro i francesi, minacciavano di piombare su Verona; per affrontarli con forze sufficienti Bonaparte sarebbe forse stato costretto a togliere ancora una volta l’assedio a Mantova, ma il farlo avrebbe permesso ad almeno altri 17.000 soldati austriaci di condurre operazioni sulle sue retrovie dando così al nemico il vantaggio di una superiorità numerica complessiva di 20.000 armati. Lo stato maggiore di Bonaparte stimava che il complesso delle forze avversarie ammontasse a 50.000 uomini e il giovane comandante cominciò a sentirsi piuttosto incerto circa il futuro della spedizione, tanto da scrivere tristemente al Direttorio: «Forse è suonata l’ora dell’eroico Augereau, dell’intrepido Massena ed anche quella della mia morte. Siamo abbandonati in mezzo all’Italia». Avvertì Giuseppina di lasciare Milano e di portarsi a Genova. È però comprensibile che, invece, il tono del suo proclama alle truppe toccasse note alquanto differenti: «Non abbiamo che un ultimo sforzo da compiere e l’Italia è nostra. Non vi sono dubbi che il nemico sia più numeroso di noi, ma la metà delle sue truppe è costituita da reclute; se noi li battiamo, Mantova dovrà cadere e rimarremo padroni di tutto».
L’«ultimo sforzo» che chiedeva era però imponente. Infatti, Augereau e Massena, con i loro 18.000 uomini, avrebbero dovuto allontanare d’Alvinczy dall’Adige nonostante gli austriaci avessero appena ricevuto dei rinforzi che portavano i loro effettivi nel settore di Caldiero e Arcole ad un totale di almeno 23.000 soldati. Il combattere in condizioni d’inferiorità numerica era contrario alla teoria strategica di Bonaparte sulla concentrazione delle forze, ma in questo caso pareva che non vi fossero alternative di sorta. Vaubois, lontano nel nord, era di fronte a nemici superiori di numero ed ogni riduzione delle sue già mal ridotte truppe avrebbe potuto causare un disastro irreparabile; similmente, non era possibile ritirare altre truppe da Mantova senza essere costretti ad abbandonare l’assedio e lasciar libera la guarnigione. Come un giocoliere che riesce a far stare tre palle per aria contemporaneamente, Bonaparte doveva valutare bene i pericoli dei tre settori paragonandoli opportunamente gli uni agli altri: per quanto avesse scelto d’Alvinczy come suo obiettivo principale, era fin troppo evidente che una mossa aggressiva da parte di Davidovich, od anche di Würmser, avrebbe potuto obbligare i francesi a cessare le operazioni contro il grosso degli austriaci per spostare tutti i possibili rinforzi nel settore minacciato. La disfatta di uno dei settori avrebbe potuto significare la distruzione dell’Armata d’Italia.
Quest’atmosfera di tragica incertezza e di imminente pericolo rappresenta la base fondamentale della battaglia di Arcole, prolungatasi per tre giorni; Bonaparte infatti sfoderava i suoi maggiori talenti durante i periodi di più intensa attività. Lo storico italiano Carlo Botta, tutt’altro che favorevole a Napoleone, scrisse: «I suoi movimenti e le sue tattiche in queste situazioni critiche erano quelle di un consumato maestro dell’arte della guerra […] Esse erano concepite ed eseguite con la rapidità del lampo e gli austriaci non potevano avere la minima conoscenza di quello che stava accadendo fino a che Bonaparte non avesse scelto il terreno e completamente cambiato, così, la situazione della battaglia».
Il piano di Napoleone era l’opposto della manœuvre sur les derrières, genere di operazione che aveva già esperimentato contro Beaulieu a Lodi e contro Würmser a Bassano. Il suo intendimento era di radunare in fretta tutte le truppe disponibili a Verona per prendere Villanova di San Bonifacio, utilizzando l’Adige per coprire la propria avanzata allo scopo di impadronirsi dei depositi e dei convogli dell’armata austriaca. Questa mossa avrebbe senza dubbio costretto d’Alvinczy ad abbandonare la sua avanzata su Verona ed a ritirarsi per riaprire le sue vie di comunicazione. Per farlo sarebbe stato costretto a battersi contro i francesi su di un terreno da loro scelto, nella zona paludosa racchiusa tra i fiumi Alpone e Adige, su di un fronte ristretto nel quale gli austriaci, perdendo tutti i vantaggi della loro superiorità numerica, avrebbero trovato molto difficile schierarsi a battaglia. La grande facilità di adattarsi anche al terreno difficile, che le truppe francesi avevano dimostrato di possedere, avrebbe costituito un elemento favorevole; nel migliore dei casi, tuttavia, si trattava sempre di un rischio.
Il totale successo del piano si basava sulla rapida conquista di Villanova prima che d’Alvinczy potesse reagire; quindi, il problema da risolvere per i francesi era quello di trasferire l’armata in quel punto senza indebolire troppo le difese di Verona o rivelare prematuramente le proprie intenzioni. Il 14, l’avanguardia di d’Alvinczy era già in vista della città e, se Verona fosse caduta in mano degli austriaci mentre Bonaparte stava ancora marciando contro le loro retrovie, tutto sarebbe stato perduto perché tra d’Alvinczy e Davidovich sarebbe rimasto solo Vaubois. Per ridurre al minimo possibile i rischi, Bonaparte affidò la città nelle mani del generale Macquart con circa 3.000 uomini prelevati dalla divisione di Vaubois e, con la quasi totalità delle sue forze che ascendevano a 18.000 armati, si mise in marcia, durante la notte tra il 14 e il 15, verso il paese di Ronco, a poco meno di trenta chilometri da Verona. All’alba Andréossy, il comandante del Genio dell’armata, aveva già ultimato un ponte di barche sull’Adige e le truppe francesi cominciarono subito ad attraversarlo per buttarsi nelle paludi contigue alla riva settentrionale, che erano tagliate soltanto da tre strade rialzate. Bonaparte però non aveva alcuna fiducia nel successo e scrisse: «La debolezza e l’esaurimento dell’armata sono quelli che mi fanno maggiormente paura. Forse siamo sul punto di perdere l’Italia».
Le truppe di Augereau furono le prime a passare e quelle di Massena, che le seguirono immediatamente, si buttarono sulla sinistra per occupare il villaggio di Porcile. All’improvviso però, si scontrarono con le avanguardie di Provera, ma in un batter d’occhio il paese era già nelle mani dei francesi e così il fianco occidentale dell’Armata d’Italia era, almeno temporaneamente, sicuro. D’Alvinczy non aveva ancora minimamente intuito quali potessero essere le intenzioni di Bonaparte, anche se ormai aveva capito che l’armata francese era divisa in due parti. Per disgrazia, Augereau non ebbe molto successo; aveva il compito di superare l’Alpone e conquistare il paese di Villanova, ma appena la testa della sua colonna si avvicinò al ponte di Arcole, venne accolta da un tremendo fuoco che partiva dall’argine della riva sinistra dell’Alpone, che era a meno di cento metri dalla strada che i francesi stavano percorrendo. Due battaglioni di fanteria croata e diversi cannoni erano stati ottimamente disposti, in modo da spazzare la strada, priva di riparo su una lunghezza di otto o novecento metri; di fronte ad un tale schieramento i francesi si rifiutarono di avanzare e si appostarono dietro l’argine della strada stessa. Questa battuta d’arresto ebbe un effetto deleterio sullo sviluppo del piano originario di Bonaparte; come egli scrisse, «era della massima importanza prendere Arcole e piombare quindi sulle retrovie austriache per potersi così impadronire del ponte sull’Alpone a Villanova, l’unico che offrisse al nemico una via di ritirata e al di là del quale si trovava la sola zona su cui il suo esercito potesse schierarsi completamente». Ogni ora che passava rendeva sempre più improbabile che si riuscisse ad intrappolare d’Alvinczy e Bonaparte fece perciò tutti gli sforzi possibili per assicurarsi il possesso del vitale passo sul fiume. Mandò avanti Guieu con 3.000 uomini per cercare un guado nei pressi di Albaredo, onde aggirare Arcole ad oriente, ma questo richiese inevitabilmente del tempo prezioso. Nel frattempo, 3.000 austriaci di rinforzo si diressero su Porcile ed un altro distaccamento di forza analoga, al comando di Metrouski, giunse a rafforzare le difese di Arcole mentre, al riparo di questo schieramento, d’Alvinczy, allarmato, stava già ritirandosi, con la metà delle sue forze, dalle vicinanze di Verona; le possibilità di tagliarlo fuori stavano rapidamente diminuendo. Ad un certo punto Bonaparte, disperato, afferrò un tricolore e, messosi alla testa degli uomini di Augereau, li condusse avanti in un nuovo attacco contro il ponte di Arcole; ma nel momento critico nel quale il successo era ancora indeciso, uno sconosciuto ufficiale francese abbracciò il suo comandante in capo urlando: «Generale lei si farà ammazzare e se lei cade noi siamo tutti perduti; lei non deve avanzare più nemmeno di un passo, questo non è il suo posto». Nella confusione che ne seguì, Bonaparte cadde nel canale e se fu salvato lo dovette solo alla devozione del suo aiutante di campo che lo trascinò in salvo tutto sporco di fango proprio sotto le baionette del contrattacco austriaco. In tal modo, tutti gli assalti per penetrare direttamente nelle difese austriache erano falliti.
Nel frattempo la ritirata di d’Alvinczy su Villanova era continuata. «Dall’alto della guglia del campanile di Porcile i francesi vedevano con gran dolore la loro vittima che fuggiva» ma non c’era nulla che essi potessero fare per chiudere la trappola. Le valorose truppe di Guieu conquistarono il paese di Arcole alle sette della sera con sei ore di ritardo; infatti anche se fosse stato possibile spingersi subito fino a Villanova, almeno una metà dell’armata imperiale si era ormai messa in salvo ed era schierata per difendere il paese. Notizie allarmanti erano intanto pervenute ai francesi circa il settore nord, dove sembrava che Vaubois fosse stato ributtato fino a Bussolengo; alla luce di questa informazione Bonaparte prese la dura, ma intelligente decisione di abbandonare Arcole e la testa di ponte così faticosamente conquistata sull’Alpone e di ritirare le sue truppe sull’Adige per l’eventualità che fosse necessario dover accorrere in tutta fretta in aiuto di Vaubois.
Nonostante ciò, il primo giorno della battaglia di Arcole non era rimasto senza successo; la minaccia su Verona era stata allontanata e d’Alvinczy aveva evidentemente perso ogni speranza di un pronto ricongiungimento con Davidovich, mentre la precipitazione con la quale gli austriaci si erano ritirati dimostrava quanto la inaspettata manovra dei francesi li avesse allarmati. Al mattino successivo Bonaparte, non avendo avuto altre notizie circa l’attività di Davidovich, decise di ripetere l’attacco su Arcole. Ovviamente, durante la notte gli austriaci avevano rioccupato sia questo che Porcile, e così ambedue dovettero essere riconquistati. Dopo una giornata di duri combattimenti nelle paludi Porcile venne rioccupata, ma Arcole rimase nelle mani degli austriaci e fallì anche il tentativo del generale Vial di superare l’Alpone alla sua foce. Gli austriaci però stavano subendo perdite molto forti e i nervi di d’Alvinczy erano sempre più scossi; all’alba del giorno successivo il comandante austriaco, preoccupato, inviò a Davidovich un messaggio nel quale annunciava di essere in grado di far fronte ad un solo, ulteriore attacco avversario. Lo scontro trasformatosi ormai in una battaglia di logoramento, stava volgendo a favore dei francesi. A sera Bonaparte ritirò di nuovo le sue forze sulla riva destra dell’Adige in modo da essere pronto per qualunque improvvisa emergenza da nord, lasciando solo piccole avanguardie sull’altra sponda. Nella notte il generale Kilmaine gli portò da Mantova 3,000 ben accetti uomini di rinforzo.
L’alba del 17 non recò alcuna notizia allarmante da parte di Vaubois ed allora i francesi prepararono un terzo attacco contro gli austriaci, mentre la situazione generale stava ormai decisamente volgendo a vantaggio di Bonaparte. L’armata di d’Alvinczy era stata divisa in due tronconi separati e circa un terzo delle sue forze stava combattendo nella zona paludosa agli ordini di Provera e Hohenzollern; questo significava che Bonaparte aveva ormai la superiorità numerica su ciascuna delle due ali del nemico e che, con la sua manovra, lo aveva messo su una difficile posizione: decise quindi di attaccare il nucleo principale delle forze di d’Alvinczy per completarne la demoralizzazione. La divisione di Massena ebbe perciò il compito di attirare l’attenzione del nemico nella zona degli acquitrini mentre Augereau si dirigeva verso il guado di Albaredo per prendere Arcole alle spalle e correre quindi alla conquista di San Bonifacio.
La maggior parte della gloria di quel giorno toccò a Massena: il suo nuovo passaggio dell’Adige a Ronco fu aspramente, teso da un distaccamento di austriaci e, ad un certo momento, a metà dell’operazione, il ponte si ruppe e parve che la sorte dei francesi volgesse al peggio; ma il ponte venne rapidamente riparato e il nemico fu nuovamente battuto. Continuando nella esecuzione degli ordini ricevuti, Massena schierò una sola brigata sulle strade di Arcole e Porcile e nascose il resto della sua divisione tra i salici e gli argini. La guarnigione austriaca di Arcole abboccò e lanciò un attacco contro la brigata che era allo scoperto: questa si ritirò sotto la forte pressione avversaria e condusse i suoi inseguitori diritti nell’imboscata. Gli austriaci ebbero gravi perdite e la sorpresa provocò in loro grande confusione; Massena profittò allora della situazione e riconquistò una parte di Arcole con un attacco alla baionetta.
Il suo successo compensò le difficoltà di Augereau; una parte della sua colonna era stata indirizzata a Legnago, dove esisteva un buon ponte, mentre il rimanente aveva raggiunto senza perdite Albaredo, ma solo per trovarvi il passaggio fortemente difeso. I numerosi sforzi compiuti per scacciare gli austriaci dalla zona tra questo varco e Arcole vennero tutti respinti. Bonaparte allora ideò uno stratagemma per superare queste difficoltà. Conscio delle pessime condizioni del morale degli austriaci, spedì un piccolo distaccamento di guide con quattro trombettieri per operare una diversione nelle retrovie nemiche. Questi uomini riuscirono a guadare il fiume senza esser visti dagli austriaci e cominciarono a fare un baccano tale che il comandante del posto ebbe timore di trovarsi sottoposto ad un attacco in forze e ordinò una rapida ritirata verso il nucleo principale. Mentre la resistenza nemica vacillava, gli uomini di Augereau si rovesciarono sull’altra riva e si riunirono alle unità della divisione di Massena che aveva occupato parzialmente Arcole; di qui dilagarono nella piana e questa mossa coincise con l’arrivo della colonna proveniente da Legnago. Di fronte a quello che appariva essere un forte attacco contro le sue retrovie, d’Alvinczy ordinò all’intera armata di ritirarsi nella notte stessa verso Vicenza e la mattina dopo le pattuglie francesi trovarono che il nemico se n’era andato.
Così finì la battaglia di Arcole. Tre giornate di combattimenti avevano dato a Bonaparte una definitiva vittoria. I francesi avevano provocato all’avversario la perdita di almeno 7.000 uomini e, pur avendo lasciato sul campo circa 4.500 morti, avevano mandato a vuoto il grande progetto di d’Alvinczy di riunire le sue forze a quelle di Davidovich. Era stato un notevole successo di perseveranza; l’armata poté rientrare a Verona il 18 novembre.
Profittando allora della posizione centrale Bonaparte scagliò subito tutte le sue forze contro Davidovich. Questa decisione arrivò al momento opportuno perché proprio il 17 il generale austriaco si era alfine deciso a lanciare il suo previsto attacco contro Vaubois ed aveva ributtato i francesi a Castelnuovo. Lasciando che la propria cavalleria continuasse l’inseguimento di d’Alvinczy, Bonaparte portò la fanteria in aiuto del suo generale; Augereau effettuò una marcia forzata sulla riva sinistra dell’Adige per cercare di aggirare Davidovich nei pressi di Dolcé il 21 novembre; ma all’ultimo momento il comandante austriaco si rese conto del pericolo che correva e riuscì a scivolare fuori dalla trappola ed a battere in ritirata verso Trento. La manovra però gli costò 1.500 prigionieri oltre alla perdita di due convogli per la costruzione di ponti, di nove cannoni e della maggior parte delle salmerie. Questa notizia persuase finalmente d’Alvinczy ad abbandonare il tentativo di giungere a Mantova e a ritirarsi, a sua volta lungo il Brenta, per riordinare le sue forze piuttosto scosse.
Il terzo tentativo austriaco di lanciare una controffensiva non aveva avuto quindi risultati migliori di quelli precedenti; ambedue le branche dell’armata di d’Alvinczy avevano subìto un duro rovescio ed erano state ributtate rispettivamente a Bassano e in Trentino senza nemmeno giungere in vista di Mantova, la cui guarnigione aveva adesso solo ventotto giorni di razioni. Una volta ancora le truppe francesi erano salve per miracolo e solo il genio di Bonaparte era riuscito ad evitare la catastrofe davanti a forze nemiche superiori. Arcole era stato il punto cruciale della campagna e, fino a quel momento, poteva probabilmente essere ritenuto il maggior successo di Bonaparte. Lo storico e commentatore tedesco von Clausewitz, riassunse quel risultato con queste parole: «Che cosa ha fatto sì che una battaglia tanto duramente contrastata terminasse con la vittoria di Napoleone? È stato il miglior impiego degli elementi tattici, un maggior coraggio in campo, una mente superiore e una straordinaria audacia». Bonaparte non permise che il rovescio di Caldiero sopraffacesse la sua determinazione, ma mise subito in atto il suo secondo schema di operazioni. Il grande storico americano Dodge scrisse un’appropriata sintesi della campagna: «Sono poche le brevi battaglie che possono illustrare meglio di questa la forza dell’azione per linee interne, quando sia accoppiata ad una vigorosa offensiva; contemporaneamente, mostra anche la debolezza delle operazioni condotte con forze divise ed operanti concentricamente. ».
Ancora una volta, tuttavia, il compito di Bonaparte non era stato portato a termine; la volontà di resistenza degli austriaci era ben lungi dall’essere stata fiaccata e, poche settimane dopo, l’Armata d’Italia doveva affrontare un ultimo disperato sforzo degli imperiali, volto a impedire la caduta della grande fortezza di Mantova.
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