Il 3 novembre 1867 le truppe franco-pontificie sconfissero i volontari di Garibaldi nella cittadina laziale di Mentana. Al termine della battaglia Garibaldi ripiegò nel Regno d'Italia con 5.000 uomini, inseguito sino al confine dai Dragoni Pontifici. I franco-pontifici avevano registrato 32 morti e 140 feriti. I garibaldini 150 morti e 220 feriti più 1700 prigionieri.
Per commemorare la battaglia di Mentana le poste italiane emisero nel 1987, in occasione del 120° anniversario, un francobollo da 380 lire. La vignetta, tratta da una stampa dell'epoca, raffigura un episodio della battaglia.
Il successo di Monterotondo alimenta in Garibaldi la speranza che la popolazione romana si sollevi. Ma non accade nulla, durante i tre giorni in cui il condottiero si ferma nel centro appena espugnato. In più, il nuovo primo ministro italiano, il generale Luigi Federico Menabrea, prende ufficialmente posizione contro l’impresa garibaldina, e i francesi sono prossimi a sbarcare un corpo di spedizione a Civitavecchia. Insomma, non potrebbe andare peggio. Ciononostante, non appena le colonne dell’Acerbi e del Nicotera giungono nei pressi di Roma, e un ulteriore contingente agli ordini di Luigi Pianciani occupa Tivoli, il generale riprende la marcia lungo la Salaria alla volta della città eterna.
Il 31 le sue avanguardie occupano Casal de’ Pazzi e la tenuta della Cecchina, mentre i pontifici si limitano a osservare da Monte Sacro, presidiando i ponti Nomentano e Mammolo. Garibaldi non osa andare oltre: non può attaccare la città con le poche migliaia di uomini male armati e sfiduciati di cui dispone. Attende ancora un giorno, nella speranza che i romani diano qualche segnale di collaborazione: «a cooperare co’ suoi liberatori di fuori e farla finita con preti e mercenari. Tutto prometteva infine la caduta del prete, nemico del genere umano», scriveva il generale; ma non succede altro che scaramucce tra i pontifici e i presìdi più avanzati dei garibaldini.
A ogni modo l’intero esercito pontificio, che somma 15.000 uomini, si è concentrato nella città, e ciò è sufficiente sia a soffocare qualunque velleità di rivolta, sia ad allontanare qualunque proposito di assalto dall’esterno. E poi, il giorno stesso la prima delle due divisioni di regolari francesi sbarcate a Civitavecchia al comando del generale Pìerre-Louìs-Charles De Failly, si appresta a raggiungere Roma.
A quel punto, anche il tenace condottiero desiste e fa arretrare le sue forze su Monterotondo. Poi opta per un ulteriore ripiegamento su Tivoli, che intende utilizzare come centro insurrezionale da cui organizzare una improbabile riscossa. Dispone pertanto che alcune colonne di avanguardia occupino le località tra Monterotondo e Tivoli e affida la colonna principale dei suoi, ormai decimati dalle diserzioni, al figlio Menotti. Ma attende due giorni per mettere in atto le sue disposizioni, e solo quando apprende che i pontifici stanno uscendo da Roma per venire a stanarlo. Per giunta, una volta fissata la partenza, per le 4:30 del mattino del 3 novembre, Menotti decide di posticiparla di sette ore, per attendere l’arrivo delle scarpe per i combattenti che ne sono privi. Tutto ciò dà modo ai franco-papalini, forti di una colonna di oltre 5000 uomini, di raggiungere e minacciare sul fianco destro il corpo principale dei garibaldini, che assomma ormai a non più di 4700 combattenti.
Alle 12:30 all’altezza di Mentana, avviene il primo contatto con i soli pontifici, che sono circa 3000. Menotti si attesta davanti al paese, circondato da alture, e si dispone a resistere. Garibaldi. dal canto suo, invia al figlio le disposizioni per lo schieramento, che si estende sulla destra dell’abitato, dove il nemico sembra intenzionato a condurre l’attacco.
La battaglia, infatti, ha inizio in quel settore, ma poi si allarga e si sviluppa nell’ala opposta. Alla lunga, i garibaldini, non riescono più a sostenere la pressione degli zuavi, e sono costretti ad abbandonare Villa Santucci, dove si erano asserragliati. «Debbo però confessare», scrive il condottiero, «che i volontari, demoralizzati per il gran numero di diserzioni, non si mostrarono in quel giorno degni della loro fama. Distinti ufficiali e un pugno di prodi che li seguivano, spargevano il loro sangue prezioso senza cedere un solo palmo di terreno; ma la massa non era dei soliti nostri intemerati. Essa cedeva superbe posizioni, senza opporre quella resistenza ch’io mi potevo aspettare».
È lo stesso Garibaldi a tentare di arginare la rotta, facendo rivolgere verso il nemico i due cannoni conquistati a Monterotondo. Grazie all’artiglieria, lo slancio dei pontifici si arresta, e il generale ne approfitta per ordinare un contrattacco alla baionetta. L’azione sembra riuscire: i garibaldini hanno ripreso fiducia e i pontifici ripiegano. Alle 14:00, i volontari sembrano ormai in grado di riprendere le posizioni a Villa Santucci. Ma i papalini hanno portato in posizione tutta la loro artiglieria, e il fuoco dei cannoni divampa da una parte e dall’altra. Poi, però, subentra un nuovo nemico, il cui tiro è più preciso, micidiale. Sulle prime, i garibaldini pensano si tratti dei legionari d’Antibo. Invece, sono due battaglioni di regolari francesi, dotati degli efficienti fucili a retrocarica chassepot. La differenza con i “catenacci” dei volontari si fa ancor più marcata, anche perché i settanta colpi dei due cannoni si esauriscono rapidamente.
Il ripiegamento è inevitabile, anche se Garibaldi tenta in tutti i modi di bloccare i suoi uomini; anche perché, in fin dei conti, i franco-papalini si accontentano di bersagliare i nemici, senza arrischiarsi ad avanzare. Il generale si pone a cavallo alla testa di una colonna di 200 uomini e ordina un nuovo contrattacco, gridando: «Venite a morire con me! Avete paura di venire a morire con me?», E il suo carisma, o forse la sua disperazione, compiono un piccolo miracolo: l’assalto riesce e il nemico ripiega. Ma gli chassepot continuano a falcidiare le file garibaldine, e l’ardore dei volontari si stempera. Garibaldi insiste, e solo quando il genero, Stefano Canzio, strattonando le redini del suo cavallo gli grida: «Per chi vuole farsi ammazzare generale, per chi?», ordina la ritirata.
Alle 17:00 il generale si avvia alla volta di Monterotondo e, di lì, a Passo Corese. Il giorno seguente sale in treno e viene arrestato, per essere condotto di nuovo a Caprera. A Mentana sono rimasti 1500 uomini a coprire il ripiegamento: hanno resistito fino al mattino, per poi finire prigionieri dei franco-papalini, Si sommano ai 150 morti e 240 feriti dello scontro principale, a fronte dei 30 morti e 103 feriti tra i pontifici e i 2 morti e 36 feriti francesi.
Queste le cifre dell’ultimo combattimento nella penisola del più grande generale che l’Italia abbia mai avuto. Se non fosse stato per il ritardo seguito alla decisione di Menotti, essa non avrebbe avuto neanche luogo; e se non fosse stato per gli chassepot francesi, il condottiero avrebbe perfino evitato la sconfitta, Ma non sarebbe stata l’ultima battaglia del sessantenne eroe: tre anni dopo sarebbe andato a combattere per quella stessa Francia che gli aveva impedito di conseguire l’obiettivo di una vita.
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