Il 5 novembre 1757, durante la Guerra dei Sette Anni, Federico il Grande sconfisse gli eserciti alleati di Francia e Sacro Romano Impero a Rosbach, una località della Sassonia.
Non vi sono francobolli dedicati alla battaglia che segnò il punto di svolta nella Guerra, pertanto l’anniversario odierno verrà ricordato mediante le quattro emissioni filateliche con le quali la Germania, nel corso della sua tormentata Storia contemporanea, ha reso omaggio al grande monarca prussiano, uno dei più grandi capi militari di tutti i tempi.
Il primo esemplare rosso carminio da 10 pfennig con il volto del re risale al 1926 e fa parte della serie che la Repubblica di Weimar dedicò ai tedeschi illustri.
La seconda emissione riguardante “il vecchio Fritz” – il soprannome col quale Federico II veniva affettuosamente chiamato dai suoi soldati – è la prima del periodo nazista e fu scelta per celebrare la seduta di insediamento del nuovo parlamento a Potsdam, da sempre residenza dei re prussiani. Distribuita nel 1933, la serie di tre valori – un 6 pfennig verde, un 12 pfennig rosso e un 25 pfennig blu – mostra il sovrano in un ritratto del pittore Adolph von Menzel.
Il 1986 è l’anno in cui le poste della Germania Ovest emisero un francobollo da 80 pfennig in occasione del bicentenario della morte di Federico, qui raffigurato in un ritratto del pittore Anton Graff.
L’ultima emissione da 0,55 euro della Germania ormai riunificata è di due anni fa e celebra il terzo centenario della nascita del monarca illuminato con l’espressione intensa del dipinto di Graff.
“Gentil guerra”, “Ultima ratio regum“, “Gioco dei re”, “Guerra in pizzi e merletti”: queste alcune delle definizioni date dagli storici, ma anche spesso dai testimoni contemporanei dei fatti, del modo di guerreggiare nel XVIII secolo, in quella che noi chiamiamo l’età dei Lumi.
E’ bene subito intenderci: le definizioni possono far immaginare un gioco quasi innocuo, una guerra quasi formale in cui il sangue, la morte, l’orrore non hanno parte, quasi non hanno diritto di cittadinanza; ma non è così, sul campo di battaglia i soldati continuano a morire, ad essere feriti, a rimanere mutilati. Nelle guerre del Settecento, come in tutte le guerre della storia, scorre il sangue e gli uomini soffrono e muoiono.
Eppure di fronte agli stermini, ai massacri, agli orrori indicibili del secolo precedente – alcune parti della Germania furono così spopolate dalla guerra dei Trent’anni da riprendersi demograficamente solo nel secolo passato – hanno un che di moderato, di meno totalizzante, vorremmo dire, di quasi rassicurante.
Prima di tutto le guerre settecentesche sono in grandissima parte limitate ai soldati, in questo periodo tutti professionisti soggetti a ferme lunghissime, mentre risparmiano nella maggior parte dei casi le popolazioni civili. Gli eserciti del XVIII secolo, almeno fino alla Rivoluzione francese, non vivono più del territorio, come avevano fatto quelli secenteschi; non ricorrono più, per sopravvivere, alle brutali spoliazioni, ai saccheggi indiscriminati che avevano fatto, nel XVII secolo, equiparare il termine soldato a quello di brigante. Le armate si muovono lentamente, seguite da enormi convogli di carriaggi che trasportano tutto il necessario per gli eserciti in marcia, dalle munizioni al cibo fino ai foraggi. E’ nata una nuova branca dell’arte militare, la logistica. Gli intendenti e gli addetti alle forniture militari diventano, in questo secolo, importanti quanto e più dei comandanti sul campo; sono loro che fanno muovere gli eserciti e, spesso, è alla loro capacità che si deve il successo o il fallimento di una campagna.
Le campagne stesse condotte dai generali settecenteschi appaiono come un qualcosa di moderato, di razionale. Il fine delle operazioni militari si sposta dal puro e brutale annichilimento del nemico, alla ricerca di pegni, spesso le fortezze o le città fortificate, che consentano ai sovrani di sedere all’inevitabile tavolo delle trattative da posizioni di forza, capaci di far ottenere loro il possesso o lo scambio di un territorio o di una provincia. I movimenti sul terreno non sono, allora, finalizzati alla ricerca del nemico e alla sua distruzione; la battaglia campale, se non è evitata, non è però ricercata come lo sbocco ultimo e inevitabile di una serie di movimenti strategici durante una campagna. La guerra del XVIII secolo è guerra di evoluzioni strategiche, di assedi, di ricerca di posizioni favorevoli, più che guerra di battaglie campali, che pure ci furono: Rosbach fu una delle più importanti.
Anche la struttura degli eserciti è mutata. I soldati del Settecento sono professionisti, sottoposti per lunghissimi periodi di ferma, ad un addestramento rigidissimo ed a una disciplina draconiana. Chiusi nelle caserme o negli accampamenti, gli eserciti perdono pian piano ogni contatto col Paese che li circonda e col popolo da cui pure provengono, per trasformarsi in perfetti strumenti dell’assolutismo regio. Si moltiplicano, un po’ ovunque, i reparti di mercenari, fedeli solo al sovrano: guardie svizzere, tedesche, irlandesi, olandesi, sono spesso i corpi d’élite di molti eserciti formando i reparti più vicini, anche fisicamente, agli stessi sovrani. Quando alla fine del secolo, in Francia, la necessità di inserire sempre più elementi borghesi nelle fila dell’ufficialità porterà ad un ravvicinamento tra esercito e Paese, tra soldati e nazione, rendendo sempre più compartecipi delle stesse esigenze e delle stesse pulsioni uomini in divisa e società civile, l’ancien régime andrà incontro alla propria irreversibile crisi spalancando le porte al cambiamento che porterà ad un mondo totalmente nuovo.
La genesi
La guerra dei Sette Anni, conflitto che coinvolse le grandi potenze europee tra il 1756 e il 1763, fu provocata dalla volontà austriaca di riprendersi la ricca provincia della Slesia, ceduta alla Prussia nel 1748 in seguito alla pace di Aquisgrana. Il 16 gennaio 1756 Federico II di Prussia stipulava a Westminster un accordo con la Gran Bretagna, formalmente per difendere l’Hannover da un eventuale attacco della Francia, in realtà per garantirsi un alleato nella guerra che stava iniziando. Il l° maggio dello stesso anno Maria Teresa d’Austria, capovolgendo la tradizionale politica delle alleanze, concluse un trattato con la Francia, cui aderirono Polonia e Svezia, provocando la reazione di Federico II che aprì le ostilità invadendo la Sassonia nell’agosto del 1756. Il 2 febbraio 1757 la Russia firmava una convenzione con l’Austria, entrando a sua volta in guerra. La prima parte del conflitto fu dominata dal genio strategico di Federico, che riuscì ad approfittare a meraviglia della posizione centrale prussiana per affrontare uno alla volta gli eserciti nemici.
Nell’autunno del 1757, dopo aver parato con una serie di accorte manovre una mossa alleata contro Berlino, Federico marciò in Sassonia per incontrare una forza franco-imperiale condotta dal generale francese Soubise e dal tedesco Hildburghausen. Come molte altre volte, gli alleati che contavano su una schiacciante superiorità numerica non rifiutarono di dare battaglia. I due eserciti si scontrarono il 5 di novembre nei pressi del villaggio di Rosbach, a ovest del fiume Saale.
La battaglia
L’esercito alleato, forte dalla sua grande superiorità numerica, sul campo di Rosbach si schierò con l’intenzione di scardinare lo schieramento prussiano attraverso un movimento aggirante del fianco sinistro nemico.
I comandanti alleati del resto erano convinti che Federico, di fronte ad un rapporto di forza così sfavorevole per il suo esercito, con ogni probabilità non avrebbe accettato battaglia e quindi non posero troppa attenzione ai piani per il movimento trascurando, soprattutto, di inviare la loro numerosa cavalleria leggera sul fronte delle colonne avanzanti per avere notizie dirette delle intenzioni del nemico. La risposta di Federico, che invece era ben informato sulle intenzioni del nemico dai picchetti dei suoi ussari, fu esattamente opposta a quanto si attendevano Soubise e Hildburghausen. Utilizzando il crinale della collina di Janus come schermo per il movimento, Federico spostò le sue truppe in direzione nord-est, piegando poi verso ovest e sudovest, in modo da avvolgere le colonne alleate avanzanti. La cavalleria prussiana, vigorosamente condotta dal von Seydlitz, sorprese la cavalleria nemica che precedeva le colonne di fanteria ancora in piena crisi di movimento; caricando i cavalieri nemici sul fronte e con una doppia manovra avvolgente gli squadroni prussiani riuscirono a ricacciare in disordine, addosso alle colonne della fanteria alleata, la cavalleria nemica.
Il maggior generale von Seydlitz era uno dei migliori comandanti di cavalleria del suo tempo e sul campo di Rosbach riuscì in una delle manovre più difficili, in assoluto, per chi comandi delle truppe montate: dopo una carica vittoriosa egli riuscì a riordinare i suoi squadroni riformando i ranghi sulla sinistra delle fanterie prussiane che nel frattempo, raggiunto il luogo dello scontro, si erano aperte in ordine di battaglia.
Le colonne franco-tedesche, già disordinate dalla ritirata della propria cavalleria, tentarono disperatamente di rischiararsi in linea di combattimento. Sotto il tiro di una batteria di diciotto cannoni prussiani e sotto il fuoco micidiale dei moschetti dei reggimenti prussiani, schierati in linea, la fanteria francese stava per riuscire a fare fronte per impegnare, come d’uso, il nemico in uno scambio di moschetteria. Fu in quel momento che gli squadroni di von Seydlitz riordinatisi sul fianco dell’armata alleata tornarono all’attacco. La carica della cavalleria prussiana, unita al fuoco preciso dei moschetti e dei cannoni, fu troppo per le pur valorose truppe francesi e imperiali: le colonne d’attacco, colte nel momento in cui stavano cambiando formazione, si dissolsero in una massa terrorizzata in fuga dalle sciabole della cavalleria leggera prussiana che subito aveva organizzato l’inseguimento: i comandanti alleati non poterono fare altro che cercare di salvare quanto più era loro possibile dell’esercito alleato. I franco-imperiali lasciarono sul campo di Rosbach, tra caduti e prigionieri, più di 10.000 uomini, mentre le perdite prussiane furono di poco superiori ai cinquecento caduti. Federico II aveva dimostrato che, con un esercito perfettamente addestrato, la sua capacità tattica oltre che strategica era in grado di controllare i movimenti anche complicati delle proprie formazioni, direttamente sotto il fuoco avversario o nell’immediata vicinanza del nemico. Molti dei commentatori militari rilevarono la somiglianza del movimento laterale dell’esercito prussiano a Rosbach, nonché della manovra simile compiuta un mese esatto dopo nell’altra battaglia vittoriosa a Leuthen, con l’ordine obliquo che aveva consentito la vittoria di Epaminonda a Leuttra nel IV secolo avanti Cristo. Con le sue vittorie, Federico entrava a buon diritto nel ristretto novero dei geni militari della storia.
Se volete approfondire lo scontro che è stato considerato uno dei punti di svolta della Guerra dei Sette Anni potete farlo sfogliando il 26° volume de La Storia – Le grandi battaglie: armi tattiche e strategie militari nella biblioteca dell’Antica Frontiera.