La cultura Seminole è poco nota ed è stata trascurata anche dalla filatelia. Gli unici due francobolli che ricordano questa tribù indiana sono statunitensi. Il primo, emesso nel 1948, commemora il centenario del trasferimento di cinque popoli pellerossa (Cherokee, Chicksaw, Choctaw, Moscogee e, per l'appunto, Seminole) in Oklahoma. L'esemplare marrone da 3 centesimi raffigura i cinque sigilli delle tribù indiane e al centro la cartina dell'Oklahoma.
La seconda emissione è invece del 2004 e mostra una bambola Seminole in un esemplare da 37 centesimi.
La guerra agli indiani condotta dai bianchi nel corso dell’Ottocento fu giusta. Costrinse alla pace le tribù, in perenne lotta tra loro, e portò ordine dove prima c’era il caos. E’ la tesi del giornalista americano Robert Kaplan, esposta nel libro Imperial grunts(Random House), dedicato all’imperialismo statunitense di ieri e di oggi. Una tesi controversa, che torna a far parlare, dopo anni di indifferenza, delle “indian wars”, le campagne condotte fra il 1825 e il 1890 dal governo statunitense contro i pellerossa, che portarono allo sterminio per fame e malattie di 10 milioni di nativi.
Guerra sporca. “La tesi non è nuova e si muove nel solco del neo-revisionismo dell’attuale amministrazione statunitense” commentava nel 2006 Vittorio Zucconi, corrispondente dagli Stati Uniti e autore di un libro ormai classico sulla tragedia dei Sioux (Gli spiriti non dimenticano, Mondadori). “Kaplan ripropone la visione precedente agli Anni ’60, l’epoca in cui si denunciò la “missione civilizzatrice” esponendola per quello che fu: un’azione di sterminio, compiuta anche “regalando” ai nativi coperte contaminate dal vaiolo e deportando sistematicamente le tribù”. La storia dei Navajo è esemplare. Originari dell’Arizona, furono posti dal generale James Carlton di fronte a una scelta drastica: combattere a oltranza, oppure accettare di essere spostati nelle riserve assegnate loro dal governo. L’incarico di piegarne la resistenza fu affidato a Kit Carson, personaggio leggendario dell’iconografia western ed ex amico degli indiani, che nel 1863 ubbidì travolgendo con le sue truppe raccolti, bestiame e pozzi. L’anno dopo, i primi 6 mila Navajo scortati dai soldati cominciarono la lunga marcia verso il campo di concentramento di Bosque Redondo, nel New Mexico: 563 km percorsi a piedi, in pieno inverno. Chi non ce la faceva più veniva ucciso dai soldati, oppure abbandonato a se stesso.
La riserva (come ogni riserva indiana) era troppo piccola per garantire cibo per tutti; inoltre i Navajo erano pastori, e si convertirono con difficoltà all’agricoltura. A Bosque Redondo morirono in un solo inverno 2 mila nativi, denutriti e uccisi da polmonite e morbillo. Gli indiani si combatterono soprattutto così.
Battaglie esagerate. Su questo sono tutti d’accordo: le guerre indiane non furono una guerra nel senso tradizionale del termine. In oltre cinquant’anni di conflitti per il controllo delle risorse del West (l’oro delle Black Hills, le colline sacre di Sioux e Cheyenne, ma anche i pascoli) morirono meno bianchi e pellerossa che inglesi – 20 mila – nella prima ora di battaglia sul fiume Somme, durante la Prima guerra mondiale. Nonostante ciò, libri, film western e quadri hanno fatto delle battaglie contro i “diavoli rossi” un ingrediente fondamentale dell’epopea della conquista. La scena di Custer che resiste eroicamente agli indiani di Toro Seduto a Little Big Horn è stata dipinta da oltre mille artisti, trasformandosi quasi subito da disfatta militare in leggenda eroica. A fissare sulla pelle di bisonte il massacro di Sand Creek – oltre 100 donne e bambini cheyenne trucidati dai soldati del colonnello Chivington nel 1864, nonostante le bandiere issate dagli indiani in segno di pace – ci pensarono invece solo pochi artisti indiani. Il mito del pellerossa bellicoso si diffuse con la velocità del vento.
Violenza tribale? Al centro della tesi di Kaplan c’è proprio la convinzione che gli indiani, prima della loro “civilizzazione”, vivessero in un clima di violenza e nell’anarchia: “Oltre i fiumi Mississippi e Missouri gli americani trovarono un mondo in cui la guerra interetnica, motivata dalla competizione per il territorio e per le sue risorse, era un aspetto primario della vita” sostiene il giornalista Usa. Ma era davvero così? “Gli indiani non erano certo stinchi di santo; è inutile volerli descrivere in maniera romantica o secondo il mito del «buon selvaggio»” precisa Vittorio Zucconi. “E’ verissimo che tra le grandi nazioni indiane esisteva una spinta espansionistica. Soprattutto nel caso degli abitanti delle praterie, che erano cacciatori nomadi e non erano stanziali come le popolazioni del Nord-Est. I vari gruppi avevano i loro interessi, sia sociali che individuali, e spesso ricorrevano alla violenza. Ma non si trattava mai di guerre all’europea. Erano schermaglie che si risolvevano quasi sempre in azioni simboliche, come il furto di cavalli o del copricapo di un capo o il rapimento di una donna che poi veniva sposata”.
Altro che anarchia… Molti storici fanno anche notare che le guerre tribali si scatenarono solo dopo che pionieri e allevatori bianchi occuparono il territorio a disposizione dei nativi. Inoltre, gli indiani avevano le loro forme di governo e praticavano una forma di democrazia radicale. Più che anarchici, erano “troppo egualitari”. “Quando domandarono a Toro Seduto come mai avessero perso la guerra pur essendo più numerosi dei bianchi” dice ancora Zucconi “lui rispose che era accaduto perché tutti i guerrieri erano uguali e ogni gruppo poteva mettere in discussione le decisioni prese dal consiglio di guerra. Il loro problema più grande era proprio che non avevano mai voluto darsi una gerarchia piramidale”. Esattamente il contrario del modello di società che per secoli aveva dominato la Storia dell’uomo bianco.
A scuola di impero. Le guerre indiane furono quindi un conflitto tra due culture, più che una serie di fatti bellici. Ma secondo Kaplan furono anche il primo passo del futuro “impero americano”, una specie di scuola militare per gli Usa: “La varietà dei gruppi indiani non era diversa da quella dei gruppi etnici che i soldati americani hanno poi dovuto affrontare in Africa, in Sud America o nel Medio Oriente”. E i territori indiani sarebbero stati un po’ come l’Iraq di oggi: come allora gli americani imposero ai nativi il modello anglosassone (abbandono del nomadismo, proprietà della terra, uso di armi da fuoco e alcol), così gli Usa tentano adesso di imporre agli iracheni il sistema di governo occidentale. Obiettivi legittimi, secondo Kaplan e molti altri, ma non si possono raggiungere senza garantire la sicurezza, cioè senza l’intervento armato. E, proprio per rendere più sicura la frontiera, le Giubbe blu sarebbero state costrette a imporre con le armi (convenzionali e non) l’ordine del Grande capo bianco, come gli indiani chiamavano il presidente degli Stati Uniti.
Ignoranza letale. Nel parallelo tra guerre indiane e Iraq bisogna però fare qualche distinguo: “La prima espansione americana verso il West si basava su un presupposto più onesto: la necessità di nuovi territori” dice Vittorio Zucconi. Lo spirito di sopravvivenza, all’inizio, prevaleva sulla volontà di imporre il proprio sistema. “Poi arrivarono missionari, avvocati e politici, e la conquista del West si trasformò in un diritto legale e in una causa intellettuale. Si cominciò a credere che portando all’uomo rosso la civiltà anglosassone egli non avrebbe desiderato altro che abbracciarla. Lo stesso accade oggi quando si pensa di trapiantare in Iraq la democrazia statunitense, immaginando che gli iracheni non aspettino altro. Si trascura però che se in quel Paese c’è un diverso sistema da millenni (proprio come c’era nell’America dei nativi) è perché gli “indigeni” lo hanno messo a punto in base alle loro particolari esigenze”. L’ignoranza della cultura dell’altra parte rende incomprensibile il rifiuto del proprio modello e lascia una sola opzione: la violenza della guerra.
Se volete approfondire la vera storia degli indiani d’America potete farlo sfogliando le pagine 22-26 del n. 6 di Focus Storia nella biblioteca dell’Antica Frontiera.