I CLN nacquero come spontaneo movimento di libertà e furono organizzati e controllati dai partiti antifascisti. In essi confluirono persone di ogni credo politico, dai cattolici ai comunisti, dai liberali ai socialisti, dagli ufficiali dell’Esercito ai fascisti fuorusciti dalle loro organizzazioni. Inizialmente si occuparono di sostegno alla resistenza spontanea e di proselitismo, di stampa illegale e di coordinamento delle formazioni partigiane. Scopo finale sarebbe stato quello di liberare l’Italia dal nazi-fascismo e di poter porre le basi per il nuovo assetto dell’Italia post-bellica.
Nei mesi che precedettero la Liberazione e anche in quelli successivi cominciarono a circolare numerose emissioni dei vari CLN, la maggior parte di queste non ufficiali e quindi considerate dagli storici della filatelia come vere e proprie "patacche". Tra quelle ritenute più serie e documentate, di cui si conosce un effettivo utilizzo postale, vi sono senz'altro quelle della valle Bormida. Fra l'entroterra savonese e il basso Piemonte la decisione di stampare francobolli fu presa da esponenti politici e militari della Resistenza in una riunione di fine dicembre del 1944, allo scopo di commemorare i partigiani caduti.
La stampa fu attuata non solo in valle Bormida, ma anche ad Alessandria e Torino e, a causa delle condizioni di clandestinità, occorse parecchio tempo per completarla (almeno fino alla metà di aprile del 1945). La vita di questi francobolli fu complicata anche da un rastrellamento nazifascista a Cassine, il 22 aprile 1945, che causò la distruzione di buona parte del materiale già pronto.
Il 26 aprile il CLN di Castelnuovo Bormida dichiarava fuorilegge i francobolli della RSI e riconosceva validi solo i francobolli partigiani. Il 6 maggio lo stesso avvenne ad Alessandria, con l'apprezzamento del prefetto.
I francobolli recano le figure fortemente evocative di Teseo, Perseo (entrambi uccisori di mostri) e della Vittoria alata.
L'uso postale continuò fino al 20 maggio 1945.
Tra l’annuncio dell’armistizio con gli angloamericani, l’8 settembre 1943, e l’inizio della vera e propria guerriglia partigiana trascorsero alcuni giorni in cui si tentò, per iniziativa sia degli antifascisti sia di alcuni appartenenti alle forze armate, di evitare il disfacimento completo dell’esercito convincendo i comandanti dei singoli reparti a far fronte alle aggressioni della Wehrmacht (Forze Armate Tedesche). Già dalle settimane successive alla caduta di Mussolini, i partiti antifascisti, di fronte al crescente afflusso di truppe naziste dal Brennero e all’eventualità di una imminente occupazione tedesca, avevano operato in questa direzione, cercando di combinare tra loro l’appoggio alle forze armate regolari e la mobilitazione di base, quest’ultima da organizzarsi in schieramenti di civili predisposti e diretti dai comandanti militari. La crisi dell’apparato statuale e lo sfascio dell’esercito, dall’indomani dell’armistizio, impedirono tuttavia la realizzazione di questa strategia e l’iniziativa della lotta armata contro i tedeschi passò interamente nelle mani delle formazioni partigiane.
Le prime formazioni armate si costituirono nelle zone montagnose e collinari dell’Italia centro-settentrionale fin dalle prime settimane di settembre; erano formate per lo più da nuclei di antifascisti già attivi nel paese e da gruppi di militari che avevano rifiutato di arrendersi ai tedeschi. Dopo una prima fase di aggregazione spontanea e spesso casuale, le bande partigiane assunsero un’organizzazione più stabile e strutturata sulla base dell’orientamento politico prevalente fra i loro membri. Le bande, infatti, sorgevano molto spesso per iniziativa di civili “politicizzati” che, essendo portatori di una identità politica e ideologica definita, finirono per trasmetterla ai rispettivi nuclei operativi. Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre si costituirono pertanto le prime formazioni partigiane (nelle valli di Cuneo e di altre provincie piemontesi, in Friuli-Venezia Giulia, in Romagna e in alcune città del Centro-Nord come Genova, Milano, Torino e Firenze) legate al Partito d’Azione (denominate Giustizia e Libertà) e a quello Comunista; queste ultime, le Brigate d’assalto Garibaldi, furono le più numerose e le meglio strutturate sia nell’organizzazione interna sia nelle azioni di guerriglia. Accanto alle GL e alle Garibaldi sorsero le Brigate Matteotti, che facevano riferimento al Partito Socialista, le Fiamme Verdi e le Osovane, legate al mondo cattolico e alla Democrazia Cristiana e altre formazioni genericamente denominate Autonome. Quasi tutte si conformarono al modello delle Brigate Garibaldi, con la presenza di un comandante militare e di un commissario politico.
Fin dall’inizio dunque, le vicende della guerra di liberazione nazionale si intrecciarono strettamente con quelle dei partiti antifascisti, ritornati alla luce durante i cosiddetti “quarantacinque giorni” del governo Badoglio che separarono la caduta di Mussolini dall’annuncio dell’armistizio. I partiti antifascisti, già il 9 settembre 1943, avevano dato vita al primo Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), composto da Giorgio Amendola e Mauro Scoccimarro per il Partito Comunista, Pietro Nenni e Giuseppe Romita per il Partito Socialista di Unità Proletaria, Sergio Fenoaltea e Ugo La Malfa per il Partito d’Azione, Alcide De Gasperi per la Democrazia Cristiana, Alessandro Casati per il Partito Liberale e Meuccio Ruini per la Democrazia del Lavoro. Nelle settimane successive sorsero vari CLN regionali e il 16 ottobre il Comitato Centrale di Liberazione Nazionale, riunitosi a Roma, stilò un documento in cui si affermava la necessità della guerra di liberazione, la cui conduzione, tuttavia, non poteva essere affidata alla monarchia sabauda o al governo Badoglio. Il documento, nel quale si chiedeva la formazione di un “governo straordinario” che fosse emanazione diretta dei partiti antifascisti, giunse a novembre a Brindisi, dove Badoglio ed i comandi alleati assunsero un atteggiamento di ferma opposizione nei confronti delle istanze di autonomia e autodeterminazione dei CLN. Ciò che preoccupava il governo regio e gli Alleati era soprattutto la pretesa dei CLN di porsi come guida e rappresentanza dell’Italia democratica e come punto di riferimento di un complessivo processo di rinnovamento delle istituzioni e della società italiana da attuarsi una volta terminata la guerra contro la Germania.
Una delle caratteristiche della Resistenza partigiana in Italia fu, infatti, quella di coniugare gli obiettivi militari della guerra di liberazione dall’occupante tedesco a finalità più propriamente politico-ideologiche che riguardavano il futuro assetto del paese. Se da un lato la volontà dei CLN di trasformarsi in organismi dirigenti nel processo di ricostruzione e rifondazione della democrazia in Italia si scontrava con gli interessi del governo regio e degli Alleati (i quali avrebbero voluto un movimento che li appoggiasse militarmente ma senza contrastare i loro piani politici e strategici), dall’altro erano presenti all’interno dei CLN opzioni politiche e orientamenti molto diversi che non di rado crearono tensioni e scontri violenti. Costrette pertanto a rinunciare ad una parte della propria identità in nome della lotta comune contro tedeschi e fascisti, le varie componenti dei CLN compresero che sarebbe stato possibile conservare l’unità della Resistenza ed ottenere il riconoscimento degli Alleati e del governo italiano solo attestandosi su un livello accettabile di compromesso. Fu così che nel corso del 1944, anno di assestamento e di crescita della Resistenza in Italia, vennero prese le decisioni fondamentali che preludevano alla conclusione vittoriosa della guerra. Al I Congresso dei CLN, svoltosi a Bari il 28 e 29 gennaio ’44, venne infatti stabilito di chiedere l’abdicazione di Vittorio Emanuele III ma, nell’impossibilità di trovare una soluzione concorde alla questione istituzionale, la scelta tra monarchia e repubblica fu rinviata ad un referendum da tenersi alla fine della guerra. Due giorni dopo il CLN di Milano, su delega del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale, che aveva sede a Roma, e dei CLN regionali venne trasformato in Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) il quale, sotto la presidenza di Ferruccio Parri e Luigi Longo, assunse la direzione politica e militare della Resistenza nelle regioni settentrionali. Al suo interno, il 19 giugno, si costituì il Corpo volontari della libertà (CVL) con lo scopo di coordinare le azioni militari delle diverse formazioni partigiane; il comando del CVL fu assunto dal generale Raffaele Cadorna.
A risolvere i contrasti tra le forze antifasciste in merito al futuro assetto istituzionale dell’Italia contribuì poi la proposta di Palmiro Togliatti, rientrato in patria il 27 marzo ’44 dopo diciotto anni d’esilio, di rimandare la questione istituzionale alla decisione di un’Assemblea Costituente da eleggersi, dopo la fine della guerra, a suffragio universale, diretto e segreto. Togliatti – parlando al Consiglio Nazionale del PCI delle regioni liberate tenutosi a Napoli il 31 marzo – invitò tutti i partiti antifascisti a sospendere le polemiche contro la Corona e ad aderire temporaneamente ad un nuovo governo di unità nazionale. Le sue tesi, ricordate in seguito come “la svolta di Salerno”, furono approvate dal partito e vennero rese note dallo stesso Togliatti, il 2 aprile, in un’intervista sull'”Unità”. Il 22 aprile si costituì quindi il primo governo di unità nazionale che, sempre sotto la presidenza di Pietro Badoglio, vide la partecipazione dei rappresentanti di tutti i partiti antifascisti; da parte sua la monarchia accettò il compromesso e Vittorio Emanuele III comunicò in un radiomessaggio la sua intenzione di lasciare i pieni poteri al figlio Umberto in qualità di luogotenente generale del Regno non appena fosse stata liberata Roma. E infatti, subito dopo l’ingresso degli alleati nella capitale, il 18 giugno 1944 si insediò il primo Governo espressione del CLN, guidato dal socialista riformista Ivanoe Bonomi, nel quale furono rappresentati tutti i partiti antifascisti. Nel corso del dicembre 1944 si giunse infine ad un accordo formale tra il CLNAI da una parte e il governo regio ed il comando alleato dall’altra; gli Alleati offrirono alle forze della Resistenza un cospicuo sostegno militare e finanziario in cambio dell’assicurazione del totale smantellamento delle formazioni partigiane a guerra finita e del pieno riconoscimento dell’autorità degli Alleati e del governo da essi riconosciuto. Il 26 dicembre, lo stesso governo italiano riconosceva il CLNAI come “organo dei partiti antifascisti nel territorio occupato dal nemico”.
Dal punto di vista militare la Resistenza italiana assunse caratteristiche peculiari che, schematicamente, si possono definire come la compenetrazione di due “modelli” di lotta; da una parte il modello francese della guerra per bande, alla “macchia”, fatta di azioni rapide, imboscate e sabotaggi, e dall’altra il modello jugoslavo che, grazie alla conformazione del territorio e al supporto dell’esercito sovietico, riuscì a strutturare un vero e proprio esercito capace di affrontare le truppe tedesche in campo aperto. Infatti, accanto alle modalità tipiche della guerriglia partigiana – rapidità di attacchi e ritirate, azioni individuali e fulminee, tecniche di dispersione di fronte alle reazioni nemiche – il movimento di Resistenza in Italia conobbe anche articolazioni più complesse (reparti superiori, Brigate, Divisioni), pur non arrivando mai, salvo in rari casi, a forme di guerra manovrata. In ogni caso, se si esclude l’esercito partigiano sovietico che ebbe dimensioni cospicue ma era diretto dallo Stato Maggiore dell’Armata Rossa, il movimento partigiano italiano fu, per dispiegamento di forze e capacità operativa, secondo solo a quello jugoslavo.
Soprattutto nella sua fase iniziale, la Resistenza si concentrò laddove la morfologia del territorio favoriva l’azione per bande: le valli alpine e appenniniche e le zone collinari lontane dalle principali vie di comunicazione, secondo un percorso che, grosso modo, andava dalla periferia verso il centro e dalla campagna verso la città. Fin dall’inverno del ’43, comunque, si costituirono i Gruppi d’Azione Patriottica (GAP), nuclei ristretti di militanti iscritti al PCI che operavano in città a supporto dell’attività partigiana, impiegati in azioni di sabotaggio, nella eliminazione fisica di simboli ed esponenti del fascismo repubblicano o dell’occupante tedesco. Furono proprio i GAP (che celebrarono in Giovanni Pesce la figura più rappresentativa del militante gappista coraggioso ed intrepido) a scrivere alcune delle pagine più significative e spettacolari della guerra partigiana: dai numerosi assalti alle carceri per liberare detenuti politici (Torino, Verona, Bologna, Genova, Udine, ecc.), alla battaglia di Porta Lame a Bologna, alla partecipazione alla liberazione di Ravenna. Ma anche a compiere azioni controverse come l’uccisione del filosofo Giovanni Gentile a Firenze (15 aprile 1944) e l’attentato ad una colonna tedesca in via Rasella, a Roma, che fu all’origine della rappresaglia contro 335 civili alle Fosse Ardeatine.
Tra giugno e novembre del 1944, alle azioni isolate di guerriglia si accompagnarono vere e proprie operazioni militari concordate tra le varie Divisioni partigiane, che si conclusero con l’occupazione di ampie zone di territorio e di centri urbani (Alba), sottraendoli, anche se per un breve periodo, al controllo tedesco e fascista. Lungo l’arco alpino, dalle vallate cuneesi a quelle friulane (Langhe, Val d’Ossola, Carnia), dall’Oltrepo pavese all’Appennino emiliano (Bobbio, Montefiorino), la Resistenza riuscì a creare delle zone libere e delle “repubbliche partigiane”, amministrate secondo modelli di autogoverno popolare. Firenze, inoltre, fu la prima grande città liberata da una insurrezione armata generale guidata dagli organismi unitari della resistenza: all’arrivo degli alleati, nell’agosto del 1944, il CLN toscano aveva già assunto il comando della città e nominato sindaco il socialista Gaetano Pieraccini.
Nell’autunno-inverno ’44 il movimento resistenziale ebbe una battuta d’arresto. L’offensiva alleata sul fronte italiano, alla fine d’ottobre, si bloccò sugli ultimi contrafforti appenninici della Linea Gotica quando era ormai alle porte di Bologna. Il 13 novembre 1944, il generale Alexander annunciava alla radio la sospensione delle operazioni alleate in Italia e invitava le bande partigiane a cessare qualsiasi attività su vasta scala. Il proclama suscitò polemiche e furenti reazioni all’interno delle formazioni partigiane che dovettero subire azioni sistematiche di rastrellamento messe in atto dalle truppe tedesche e dalle formazioni armate della Repubblica Sociale Italiana. Il movimento partigiano, nonostante pesanti perdite, riuscì a salvaguardare la propria capacità operativa, e, nella primavera del 1945, poté dispiegare le proprie forze e riprendere l’offensiva.
Il 25 aprile 1945, oltre 200.000 combattenti, inquadrati nelle Brigate partigiane, parteciparono nel nord d’Italia all’insurrezione generale proclamata dal CLNAI: in tutti i centri urbani e nelle più importanti città del nord Italia, messe in fuga o disgregate le truppe tedesche e i loro alleati fascisti, gli organi unitari della Resistenza assunsero tutti i poteri civili e militari, insediando gli organi per l’amministrazione civile e istituendo tribunali di guerra per l’amministrazione della giustizia. Due giorni dopo, nei pressi di Dongo sul lago di Como, la 52a Brigata Garibaldi bloccava l’autocolonna tedesca diretta alla frontiera svizzera su cui viaggiavano Mussolini, Claretta Petacci, gerarchi e ministri della RSI. Il tragico epilogo cui andarono incontro il capo del fascismo italiano e i suoi compagni di fuga, fu emblematico di quanto avveniva un po’ ovunque nel paese: si è calcolato che oltre 15.000 esponenti del fascismo, sottoposti a processi sommari, siano stati eliminati coi metodi più sbrigativi nel giro di pochi giorni.
Se volete approfondire la nascita del CLN e del movimento partigiano potete farlo sfogliando le pagine del libro Percorsi della Memoria 1940-1945 la storia, i luoghi nella biblioteca dell’Antica Frontiera.