Il 5 settembre 1877 il nativo americano della tribù degli Oglala Lakota (Sioux) Tashunka Witko, meglio noto col nome inglese di Crazy Horse (Cavallo Pazzo), venne ucciso a Fort Robinson con due colpi di baionetta alla schiena da un soldato semplice statunitense.
Nel 1982 gli USA hanno ricordato il più leggendario dei capi nativi americani con un francobollo da 13 centesimi di dollaro facente parte della serie iniziata due anni prima e dedicata ai personaggi illustri protagonisti della loro Storia.
5 Settembre 1877 : l’Assassinio di Cavallo Pazzo
Il 5 Settembre di 135 anni fa, a Fort Robinson nel Nebraska (USA), veniva ucciso con due colpi di baionetta alla schiena il più leggendario tra i capi dei Nativi Americani, il capo guerriero dei Sioux Oglala Tashunka Witko, tradotto in modo non corretto dai bianchi come Crazy Horse, in italiano Cavallo Pazzo. La traduzione corretta del suo nome dalla lingua Lakota (il nome con cui i Sioux denominavano se stessi) sarebbe piuttosto “il suo cavallo scalcia“, dato che in Lakota la parola “shunka“ significa cavallo, e qui è preceduta dal pronome possessivo “ta“, il suo. Quindi al limite “il suo cavallo è pazzo“. Ma i bianchi tradussero sbrigativamente Cavallo Pazzo, e questo è il nome con cui Tashunka Witko è entrato nella storia e nella leggenda.
Ma chi era veramente Cavallo Pazzo? Di certo si sa che, insieme a Tatanka Yotanka(Toro Seduto), fu il maggiore artefice della più grande vittoria indiana sull’Esercito degli Stati Uniti, e cioè la famosa Battaglia di Little Big Horn, che il 25 Giugno 1876 vide la completa distruzione ad opera delle tribù Sioux, Cheyenne ed Arapaho del 7° Cavalleria comandato dal colonnello (non generale) George Armstrong Custer. Ma mentre Toro Seduto nella sua qualità di grande sciamano era rimasto al campo con le donne e i bambini per propiziare con cerimonie religiose la benevolenza di Wakan Tanka (il Grande Spirito, o ancora una volta in modo più corretto dal punta di vista linguistico, il Grande Mistero), Cavallo Pazzo era stato colui che materialmente aveva guidato i guerrieri sul campo di battaglia, e che li aveva condotti all’annientamento delle odiate Giacche Blu.
Ma a parte ciò, come spesso avviene quando un personaggio storico trasfigura nel mito, la sua figura rimane largamente avvolta nel mistero, e proprio per questo risulta particolarmente affascinante. Incerti sono il luogo e la data della sua Nascita, per quanto riguarda il primo dato si ritiene un qualche luogo sulle Colline Nere, il territorio sacro dei Sioux, che fu la causa della guerra in cui Custer trovò la sua fine, e per quanto attiene al secondo la maggior parte delle fonti indica come data più probabile il 1844. Se teniamo per buono questo dato, al momento della sua morte Cavallo Pazzo avrebbe dunque avuto l’ età di 33 anni. Del pari ignoto è il luogo ove riposano le sue spoglie; Alce Nero, uno sciamano Sioux autore di un libro famoso, che era stato con lui al Little Big Horn, ebbe a dire: “Non so dove sia sepolto Cavallo Pazzo e non mi interessa saperlo. Il suo corpo è diventato erba della prateria, e solo il suo spirito vive. Io voglio essere con il suo spirito, non con le sue ossa“. Infine, Cavallo Pazzo è l’unico dei grandi Capi Pellerossa, o per lo meno di quelli della seconda metà del XIX Sec., di cui non possediamo una immagine fotografica che lo identifichi con certezza. Esistono varie immagini di guerrieri indiani in cui qualcuno ha voluto identificarlo, ma sempre senza essere in grado di portare una testimonianza risolutiva. E quindi anche il suo volto, come in buona parte la sua nascita, la sua vita e la sua morte, rimane celato da un alone di indeterminatezza che alimenta il mistero, e quindi la leggenda.
Premesso quindi che in casi come questo è difficile separare in modo preciso la storia dalla leggenda, cerchiamo di ricostruire per quanto possibile la figura di questo eroe Indiano, così come risulta dalla concordanza spesso approssimativa delle fonti. Sembra lecito affermare che la sua breve esistenza fu vissuta costantemente sotto il segno della “diversità “. All’interno della confederazione di sette tribù che componevano la nazione dei Teton Sioux (Sioux Occidentali – Hunkpapa, Minneconjou, Brulé, Sans Arc, Blackfoot, Two Kettle e Oglala, la tribù cui apparteneva il nostro), Cavallo Pazzo era comunemente conosciuto come “lo strano uomo degli Oglala“. Pare quindi accertato che il suo stesso popolo lo percepisse come “strano“, e quindi diverso. Per altro, presso la cultura Sioux, la condizione di diverso non implicava assolutamente quell’ aspetto di disprezzo ed esclusione sociale che nella nostra “superiore“ cultura occidentale finisce anche troppo spesso per sfociare nel razzismo, anzi al contrario, persone come i pazzi o gli omosessuali (ebbene sì, per quanto pochi, ce n’era qualcuno anche là) erano addirittura considerate sacre, perché in virtù della loro diversità erano considerate in grado di comunicare più facilmente, in qualche modo misterioso, con il mondo degli spiriti. La “diversità“ di Cavallo Pazzo sembra evidenziarsi fin dalla sua Giovinezza prima di tutto in relazione all’ aspetto fisico : su questo punto le diverse fonti sono concordi nel descriverlo con lunghi capelli arricciati di colore castano chiaro, cosa assolutamente rarissima tra i nativi americani, che come è noto hanno pressoché nella totalità capelli lisci e nerissimi. Tanto è vero che il suo nome da bambino e da ragazzo era “Riccetto“.
“Riccetto“ assunse il nome adulto di Tashunka Witko verso i sedici anni, come era prassi presso i Sioux, al termine di un lungo percorso di preparazione e purificazione spirituale che culminava nella terribile prova di iniziazione della Danza del Sole (ben riprodotta nel famoso film “ Un Uomo chiamato Cavallo “), che attraverso l’estasi allucinatoria del dolore metteva il soggetto in comunicazione diretta con il Grande Mistero, gli procurava una “visione“ che per resto della sua vita avrebbe rappresentato il suo principale punto di riferimento spirituale, e lo trasformava da ragazzo in uomo marcato dalle cicatrici del guerriero, adulto a tutti gli effetti. Ma la diversità di Cavallo Pazzo non era solamente fisica, era anche e soprattutto morale e spirituale. Ed essa ancora una volta si originava dalla visione che era riuscito ad avere dal Grande Mistero quando era ancora un ragazzino, molto più presto di quanto accadeva mediamente ai suoi coetanei, quando dopo essere fortunosamente sopravvissuto al massacro da parte dei soldati della tribù di cui era momentaneamente ospite, ancora sconvolto dal trauma aveva cercato nella mortificazione del corpo e nella purificazione spirituale un sollievo alla angoscia della sua anima. Aveva passato tre giorni e tre notti sdraiato su un letto di ciottoli aguzzi, come un fachiro dell’India, senza mangiare e senza bere nulla. Alla fine la visione era giunta. Aveva visto un cavaliere senza ornamenti e senza pitture di guerra cavalcare nel cielo, con una unica penna di falco rosso intrecciata ai capelli, in mezzo ad una grandine di frecce e di pallottole che non riuscivano a scalfirlo ; e il cavaliere gli aveva parlato, e gli aveva detto che sarebbe stato il più grande di tutti i guerrieri, a patto che rifiutasse ogni ostentazione di gloria ed ogni tornaconto personale in termini di bottino.
Non avrebbe mai dovuto prendere qualcosa per sé dopo una battaglia, né un cavallo, né un’arma, né uno scalpo, nulla, e similmente avrebbe dovuto rifiutare ogni orpello ed ornamento che testimoniasse visibilmente il suo valore. Per intendere in modo corretto questo punto fondamentale, é necessario tenere presente che per il guerriero indiano la guerra aveva un significato culturale distante anni luce da quello che assume per noi occidentali. Se per noi bianchi la guerra è una faccenda causata da fattori nella maggior parte dei casi economici ed in altri ideologici, ambedue queste motivazioni per le culture native americane risultano sconosciute. La sola idea che un uomo potesse recintare un pezzo di terra e proclamare: “ questa terra è mia “, era un’ idea assurda ed inconcepibile, perché la terra, come l’ acqua, l’ aria, i boschi, gli animali erano di tutti, erano i doni che il Grande Mistero aveva concesso a tutti gli uomini. Nella religiosità panteistica indiana, tutto ciò che esiste è pervaso dallo Spirito, e la Natura è quindi sacra. Di conseguenza il “selvaggio“ vive in piena armonia con la natura, perché la rispetta come sacra, mentre l’uomo “ civilizzato “ la natura la violenta perché se ne considera signore e padrone. Dal punto di vista indiano, il Grande Mistero era stato generoso con i suoi figli, aveva dato loro il Bisonte ed il Cavallo, che costituivano la base di tutta la loro economia, e nelle grandi praterie ne pascolavano mandrie sterminate. Prima che arrivassero i bianchi, ce n’ era più che in abbondanza per tutti. Ma rubare i cavalli della tribù vicina era considerato più divertente perché ovviamente più pericoloso, e quindi un mezzo per l’ individuo per dimostrare la propria audacia, astuzia, destrezza e coraggio, tutti valori che all’ interno delle tribù erano estremamente apprezzati, e che conferivano al soggetto il massimo del prestigio e della considerazione sociale.
Ecco, per gli Indiani delle Praterie la guerra era essenzialmente una specie di sport decisamente violento e pericoloso, nel quale l’ aspetto individuale finiva inevitabilmente per prevalere sull’ aspetto di squadra, e che veniva condotto con rigoroso fair play e senso dell’onore ( ad esempio, l’ arco e le frecce erano considerati arma ottima per la caccia, ma poco onorevole per il combattimento, perché consente di uccidere a distanza senza correre rischi; viceversa era un guerriero valoroso colui che affrontava il nemico corpo a corpo, correndo il rischio di rimanere ferito o ucciso. Da questo punto di vista l’ etica guerriera dei nativi americani è sostanzialmente identica a quella dei nostri cavalieri medioevali o dei samurai giapponesi ). Ad ogni modo, per ogni ragazzo indiano la via del guerriero rappresentava la via principale per acquisire prestigio sociale. I diademi di piume d’ aquila, le collane di denti d’ orso o di lupo e tutta la chincagliera di cui i guerrieri pellerossa amavano adornarsi non erano altro che gli “ status symbols “ del loro valore personale, e quindi del loro status sociale. Il bottino in termini di beni materiali non era in alcun modo la motivazione principale delle incessanti guerriglie intertribali, che ancora una volta rispondevano all’ idea dell’ orgoglio identitario, trasferito dal piano individuale a quello collettivo, sulla base dell’ idea che il prestigio di una tribù si misura in base al valore dei nemici che ha sconfitto. Idea che possiamo definire senz’ altro primitiva, ma che tuttavia possiamo ritrovare ancora largamente applicata anche nella nostra civiltà contemporanea, soprattutto da parte di certe subculture minoritarie come le tifoserie di calcio. Per concludere questa parte del discorso, è infine opportuno ricordare che le popolazioni di cui parliamo conducevano una vita nomade, vivevano in tende di pelli di bisonte montate su tralicci di pali, e quindi le loro masserizie e suppellettili erano ridotte veramente al minimo, per limitare l’ ingombro e il peso durante i frequenti spostamenti. Il bottino personale che un guerriero poteva eventualmente accaparrarsi dopo una razzia finiva per essere poca cosa : una concubina, un paio di cavalli, qualche pelliccia. Quando comparvero le prime carovane di bianchi, le cose cambiarono, perché inevitabilmente i manufatti di una tecnologia superiore, a partire dalle armi, divennero ovviamente una preda molto ambita. Ma permase in vigore la regola sociale che voleva che il guerriero che tornava vittorioso da una spedizione distribuisse la maggior parte del bottino a parenti ed amici, ed infine ai più poveri del villaggio, tenendo per sé solamente il minimo; e questo comportamento liberale accresceva ulteriormente il suo prestigio e la sua considerazione sociale.
Come abbiamo precedentemente accennato, il 3 Settembre 1855 Riccetto era per caso sopravvissuto al proditorio massacro del villaggio Brulè di suo zio Piccolo Tuono, accampato sul fiume Acqua Azzurra, ad opera della cavalleria del colonnello Harney. Come abbiamo visto, quella esperienza sconvolgente lo aveva spinto a cercare anzitempo la sua visione, da solo, senza il supporto di guide esperte. E la visione era venuta. Riccetto decise di consacrare la propria vita alla lotta per la libertà del suo popolo. Durante la sua Maturità Cavallo Pazzo si attenne scrupolosamente per tutta la vita ai precetti della sua visione, adottando uno stile di vita rigorosamente ascetico; tutte le testimonianze sono concordi nell’ affermare che egli scese ogni volta in battaglia praticamente nudo, vestito del solo perizoma di pelle di daino, e con un’ unica penna di falco rosso intrecciata nei capelli; quantunque ne avesse diritto più di ogni altro, non indossò mai il classico diadema di penne d’ aquila che presso gli Indiani delle Praterie era il segno visibile del loro valore; ed allo stesso modo le fonti concordano nel dire che mai, dopo una battaglia vittoriosa, quando anche ci sarebbe stata abbondanza di bottino, mai prese per sé neanche uno spillo. Potremmo definirlo un guerriero mistico. Era il guerriero più valoroso e più nobile, ed era nello stesso tempo il più povero. La sua assoluta dedizione alla causa del suo popolo, la sua inflessibile fermezza, il suo incredibile coraggio unito alla apparente invulnerabilità che sembrava avvolgerlo lo facevano oggetto di un rispetto che sfiorava il timore reverenziale. Gli altri guerrieri ne riconoscevano ed ammiravano la superiorità morale, e lo avrebbero seguito anche all’ inferno. Naturalmente, poiché ogni medaglia ha sempre il suo rovescio, occorre anche dire che come spesso avviene ciò che è oggetto di ammirazione per alcuni è oggetto di fastidio per altri. L’ intransigenza e la purezza di Cavallo Pazzo gli procurarono anche non poche invidie, gelosie ed ostilità, soprattutto da parte di quei capi più anziani, come Nuvola Rossa o Coda Chiazzata, che dopo un passato da guerrieri erano ora più inclini a cercare compromessi con l’ uomo bianco, in cambio di concreti interessi personali. La coerenza morale di Cavallo Pazzo fu comunque ricompensata così come la visione aveva predetto, dato che le cronache ci dicono che durante 22 maggiori battaglie, prima contro le tribù tradizionalmente nemiche dei Crow e degli Shoshones e poi contro le Giacche Blu, non solo non fu mai sconfitto, ma mai neanche ferito, nonostante si trovasse invariabilmente nel più fitto della mischia.
La più grande vittoria di Cavallo Pazzo e del Popolo Rosso, la già citata Battaglia di Little Big Horn, segnò anche l’ inizio della fine. Mentre Toro Seduto con i suoi Hunkpapa trovava momentaneamente rifugio dalla vendetta USA riparando in Canada, Cavallo Pazzo rifiutò di seguire l’ amico, dicendo che doveva seguire il suo destino, che sentiva già segnato. Per tutto l’ inverno del 1876 / 1877 lui ed i suoi Oglala riuscirono ancora a resistere alla caccia spietata che l’ Esercito Americano dava loro, ma a primavera la situazione era ormai disperata : non c’ erano più munizioni né viveri, le donne ed i bambini morivano di fame, i pochi guerrieri rimasti erano esausti ed ormai demotivati. Con la morte nel cuore, Cavallo Pazzo decise infine di arrendersi, per salvare i superstiti. Il 6 Maggio 1877 si consegnò agli americani nella Riserva di Nuvola Rossa, insieme a quel che restava della sua gente. Cavallo Pazzo si avviava verso la Morte.
Durante l’ estate la moglie di Cavallo Pazzo, Scialle Nero, che da tempo era malata di tubercolosi, aveva visto aggravarsi le proprie condizioni; e così Cavallo Pazzo si era allontanato senza permesso dalla riserva, per accompagnarla dai genitori a curarsi. I Bianchi non aspettavano che questo pretesto per sbarazzarsi definitivamente di lui, considerando ancora pericoloso un uomo dotato del suo carisma, potenzialmente in grado, ove lo avesse voluto, di scatenare una nuova rivolta indiana. E va purtroppo anche detto che questi timori americani furono alimentati dai capi anziani ormai “ pacificati “, Nuvola Rossa e Coda Macchiata, che erano gelosi della fama e del prestigio del giovane guerriero, e che temevano che l’ ascendente di cui godeva nel popolo avrebbe potuto creare dei problemi al loro ormai consolidato sistema di potere “ collaborazionista “. Emissari lo convinsero con false promesse a ritornare a Fort Robinson, ma a giudicare da quello che raccontarono poi i suoi amici, sembra che non avesse molte illusioni sulla sua sorte, dato che diede disposizioni su come doveva essere trattato il suo corpo e su chi avrebbe dovuto prendersi cura dei suoi cari nel caso gli fosse successo qualcosa. Il giorno dopo, 5 Settembre 1877, si presentò al forte, come sempre praticamente nudo, vestito del solo perizoma di pelle di daino, senza alcun ornamento, i capelli sciolti senza neanche la abituale penna di falco rosso. Inizialmente sembrava rassegnato e sereno, ma quando vide che volevano farlo entrare in una stanza con sbarre alle finestre e catene infisse nei muri si irrigidì. Disse, senza gridare : “ No. La gabbia dell’ uomo bianco no. “, e si ribellò. Un altro Sioux, Piccolo Grande Uomo, che da giovane era stato il suo migliore amico e fedele compagno in battaglia, e che ora era passato al servizio dei bianchi nei ranghi della Polizia Indiana, lo afferrò per le braccia tenendolo fermo, nel mentre il soldato semplice William Gentiles gli affondava per due volte nella schiena la baionetta inastata sul fucile. Steso per terra ferito a morte, Cavallo Pazzo rese lo spirito al Grande Mistero poco prima della mezzanotte.
I suoi genitori e la moglie ne raccolsero il corpo, lo portarono via e, come prescriveva il rituale Sioux, dopo averlo avvolto in coperte lo lasciarono per quattro giorni e quattro notti esposto al sole, al vento e alla luna, sollevato verso il cielo tra i rami di un albero secco. La leggenda vuole che ogni notte un’ aquila venisse a posarsi sul feretro, trattenendosi per un certo tempo prima di volare via. Infine calarono il corpo, e lo seppellirono in un luogo a tutt’ oggi ignoto, ma certamente in qualche punto sulle Colline Nere, il luogo dove era nato, il luogo più di ogni altro sacro. Ancora la leggenda dice che sette tra i più saggi sciamani Sioux conoscano il luogo della sepoltura, e che il segreto da custodirsi gelosamente, pena la morte, venga tramandato ad un nuovo adepto quando uno tra i sette savi sente avvicinarsi la fine; vero o no che questo sia, riteniamo che sia senz’ altro un bene che il luogo dove riposa Cavallo Pazzo rimanga avvolto nel mistero, così come tanti altri aspetti della sua breve e straordinaria vita. Il suo nome è già stato abbastanza insultato, sfruttato in modo commerciale, abbinato per citare solo i casi più famosi ad un locale parigino di spogliarelli e ad una birra particolarmente alcoolica. Se il luogo della sua sepoltura venisse identificato, si può star certi che il luogo diverrebbe in brevissimo tempo il centro di un volgare turismo di massa, con annesso centro commerciale, casa da gioco e bordello. E’ bene quindi che questo luogo rimanga incognito, in modo che, come disse Alce Nero, il suo spirito invitto possa aleggiare su tutta la prateria. E forse, come Re Artù nella leggenda bretone, un giorno il suo spirito tornerà, per guidare di nuovo il suo popolo verso la libertà. O perlomeno, questo è quello che ci piace sognare.
UN DISCORSO DI CAVALLO PAZZO
“La terra fu creata con l’ aiuto del sole e tale dovrebbe restare … La terra fu fatta senza linee di demarcazione, e non spetta all’uomo dividerla … Vedo che i bianchi in tutto il paese accumulano ricchezze, e vedo il loro desiderio di darci terre senza valore … La terra ed io siamo dello stesso parere. Le dimensioni della terra e le dimensioni dei nostri corpi sono le stesse. Diteci, se potete dirlo, che siete mandati da una Potenza Creatrice a parlare con noi. Forse voi pensate che il Creatore vi ha mandati qui a disporre di noi come meglio vi pare. Se io pensassi che voi siete inviati dal Creatore, potrei essere indotto a pensare che avete il diritto di disporre di me. Non fraintendetemi, ma capitemi pienamente tenendo conto del mio amore per la terra. Io non ho mai detto che la terra è mia per farne ciò che mi pare. L’ unico che ha diritto di disporne è chi l’ ha creata. Io chiedo il diritto di vivere sulla mia terra e di accordarvi il privilegio di vivere sulla vostra.”
Il GRIDO DI GUERRA DI CAVALLO PAZZO
“ Hoka Hey ( Avanti Uomini ) ! Oggi è un buon giorno per morire ! “
LA FILOSOFIA DI CAVALLO PAZZO
“ Un uomo può combattere contro qualunque cosa, tranne il suo destino “
IL MEMORIAL DI CAVALLO PAZZO
A Cavallo Pazzo è dedicato il Crazy Horse Memorial, in costruzione in South Dakota.
Nel 1948, il capo Sioux Orso in Piedi concordò con un allora oscuro scultore polacco, Korczak Ziolkowsky, il progetto che avrebbe portato alla realizzazione di un “ memorial ” in onore di Cavallo Pazzo, uomo sacro per tutti i Sioux. I lavori per il memorial – una statua di dimensioni gigantesche – presero l’avvio di lì a poco con poche risorse e molto coraggio. Per i pellerossa erano anni davvero bui in cui, oltre ai pregiudizi del popolo americano, si aggiungevano le valanghe di luoghi comuni propinate da una cinematografia per nulla desiderosa di stabilire alcunché di veritiero.
Orso in Piedi disse che con la statua equestre intitolata al loro avo più famoso e illustre i bianchi si sarebbero dovuti ricordare che anche i popoli rossi hanno avuto i loro eroi. Eppure l’ opera procede. Tra mille lentezze e mancanza cronica di risorse economiche ma procede. La gigantesca statua equestre che ritrae Cavallo Pazzo sta sorgendo esattamente di fronte al famosissimo Monte Rushmore, nelle Colline Nere ( le terre sacre dei Sioux ), di fronte, dunque, ai testoni di quattro importanti presidenti degli Stati Uniti.
La scultura, quando sarà completa, misurerà ben 169 metri di altezza e 192 di lunghezza, misure da record assoluto. Oggi è stata realizzata la testa di Cavallo Pazzo che da sola è alta oltre 26 metri, praticamente quanto un palazzo di quasi 9 piani. Per vederla completa ( la testa ! ) si sono avvicendate ben tre generazioni di scultori della famiglia Ziolkowsky e oggi i fortunati che hanno potuto vederla dal vivo dicono che è di una bellezza da lasciare senza fiato. La cronica carenza di fondi e di sostegni ” importanti ” ha imposto ai Sioux e ai Ziolkowsky di percorrere strade alternative quali quella dell’ apertura permanente di ” campi scuola ” in cui studenti e volontari appassionati di tutto il mondo si alternano nelle varie fasi del lavoro di scavo e rifinitura ottenendo in cambio ” solamente ” vitto e alloggio e la possibilità di vivere un’ esperienza assolutamente fuori dal comune. Gli operai si concentreranno d’ ora in avanti sulla testa del cavallo e sul braccio sinistro di Cavallo Pazzo. Il braccio è teso in direzione delle terre delle Colline Nere che tante guerre e patimenti sono costate alla sua gente, che per loro ha combattuto con vigore per difenderle dagli invasori e per difendere il proprio antico stile di vita. Una volta che la statua sarà completata ( ammesso che si riesca a completarla ) sarà la statua equestre più grande del mondo. Forse non ci si riuscirà mai, ma in fondo non ha importanza …
Per chi volesse approfondire l’ argomento, si consigliano i sgg. Testi :
Mari Sandoz Cavallo Pazzo, lo strano Uomo degli Oglala Rusconi Editore – Milano 1978
Vittorio Zucconi Gli Spiriti non dimenticano Mondadori Editore – Milano 1996
Dee Brown Seppellite il mio Cuore a Wounded Knee Mondadori Editore – Milano 1972
John G Neihardt Alce Nero parla Adelphi Editore – Milano 1968
Questo articolo è stato scritto dall’amico prof. Pier Luigi Menegatti, al quale va naturalmente la nostra gratitudine. Chi volesse approfondire la vita di Cavallo Pazzo può trovare un’ampia gamma di libri dedicati al grande capo Sioux nella biblioteca dell’Antica Frontiera