Sembra incredibile, ma non esistono francobolli dedicati a quello che è stato uno dei padri della nostra letteratura contemporanea.
In aperta polemica con le poste italiane, che celebrano gli spaghetti all'amatriciana e la Nutella dimenticando colpevolmente l'autore di Marcovaldo e de Le cosmicomiche, Filateliaestoria ha creato un francobollo per ricordare Italo Calvino. Il nostro obiettivo è farlo diventare un'emissione ufficiale nel 2015, in occasione del 30° anniversario della sua scomparsa, e di dare il massimo risalto a questa iniziativa. Se anche voi pensate che questo sia un progetto meritevole vi invitiamo a condividere il più possibile il post e a mettere un "mi piace" sulla nostra pagina. Grazie.
Il 10 giugno del 1940 era una giornata nuvolosa. Erano tempi che non avevamo voglia di niente. Andammo alla spiaggia lo stesso, al mattino, io e un mio amico che si chiamava Jerry Ostero. Si sapeva che al pomeriggio avrebbe parlato Mussolini, ma non era chiaro se si sarebbe entrati in guerra o no. Ai bagni quasi tutti gli ombrelloni erano chiusi; passeggiammo sulla riva scambiandoci supposizioni e opinioni, con frasi lasciate a mezzo, e lunghe pause di silenzio.
Venne un po’ di sole e andammo in moscone, noi due con una ragazza biondastra, dal lungo collo, che avrebbe dovuto flirtare con Ostero, ma che di fatto non flirtava. La ragazza era di sentimenti fascisti, e talvolta opponeva ai nostri discorsi un sussiego pigro, appena scandalizzato, come a opinioni che neanche valesse la pena confutare. Ma quel giorno era incerta e indifesa: era alla vigilia di partire, e le spiaceva. Il padre, uomo emotivo, voleva allontanare la famiglia dal fronte prima che la guerra divampasse, e già dal settembre aveva affittato una casa in un paesino dell’Emilia. Noi quel mattino in moscone continuammo a dire quanto sarebbe stato bello se non si entrava in guerra, in modo da restare tranquilli a fare i bagni. Anche lei, a collo inclinato, con le mani tra i ginocchi, finì per ammettere: – Eh sì… Eh sì… sarebbe bello… – e poi, per rimandare quei pensieri: – Mah, speriamo che sia anche stavolta un falso allarme…
Incontrammo una medusa che galleggiava alla superficie del mare; Ostero ci passò sopra col moscone in modo da farla comparire ai piedi della ragazza e spaventarla. La manovra non riuscì, perché la ragazza non s’accorse della medusa, e disse: – Oh, cosa? Dove? – Ostero fece vedere come maneggiava con disinvoltura le meduse; la tirò a bordo con un remo, la mise a pancia all’aria. La ragazza squittì, ma poco; Ostero ributtò la bestia in acqua.
Uscendo dallo stabilimento, Jerry mi raggiunse tutto fiero. – L’ho baciata, – mi disse. Era entrato nella cabina di lei, esigendo un bacio d’addio; lei non voleva, ma dopo una breve lotta gli era riuscito di baciarla sulla bocca. – Il più è fatto, ora, – disse Ostero. Avevano anche deciso che durante l’estate si sarebbero scritti. Io mi congratulai. Osterò, uomo di facili allegrie, mi battè delle forti, dolorose manate sulla schiena.
Quando ci ritrovammo verso le sei, eravamo entrati in guerra. Era sempre nuvolo; il mare era grigio. Verso la stazione passava una fila di soldati. Qualcuno dalla balaustra della passeggiata li applaudì. Nessuno dei soldati levò il capo.
Incontrai Jerry col fratello ufficiale che era in licenza e vestiva in borghese, elegante ed estivo. Si scherzò sulla fortuna che aveva ad andare in licenza il giorno dell’entrata in guerra. Filiberto Ostero, il fratello, era altissimo, sottile e lievemente piegato avanti, come un bambù, con un sarcastico sorriso sul volto biondo. Ci sedemmo sulla balaustra vicino alla strada ferrata e lui raccontò del modo illogico come erano costruite certe nostre fortificazioni sul confine, degli errori dei comandi nella dislocazione delle artiglierie. Veniva sera; l’esile sagoma del giovane ufficiale, ricurvo come una parentesi, con la sigaretta che gli fumava tra le dita senza che lui la portasse mai alle labbra, spiccava contro il ragnatelo dei fili ferroviari e contro il mare opaco. Ogni tanto un treno con cannoni e truppe manovrava e ripartiva verso il confine. Filiberto era incerto se rinunciare alla licenza e tornar subito al suo reparto – spinto anche dalla curiosità di verificare certe sue maligne previsioni tattiche – o andare a trovare una sua amica a Merano. Discusse col fratello di quante ore avrebbe potuto impiegare in macchina per arrivare a Merano. Aveva un po’ paura che la guerra finisse mentre lui era ancora in licenza; sarebbe stato spiritoso ma nocivo alla carriera. Si mosse per andare al casinò a giocare; secondo come gli sarebbe andata avrebbe deciso sul da farsi. Veramente lui disse: secondo quanto avrebbe vinto; difatti, era sempre molto fortunato. E s’allontanò col suo sarcastico sorriso a labbra tese, quel sorriso con cui ancor oggi ci ritorna in mente l’immagine di lui, morto in Marmarica.
L’indomani ci fu il primo allarme aereo, in mattinata. Passò un apparecchio francese e tutti lo stavano a guardare a naso all’aria. La notte, di nuovo allarme; e una bomba cadde ed esplose vicino al casinò. Ci fu del parapiglia attorno ai tavoli da gioco, donne che svenivano. Tutto era scuro perché la centrale elettrica aveva tolto la corrente all’intera città, e solo restavano accese sopra i tavoli verdi le luci dell’impianto interno, sotto i pesanti paralumi che ondeggiavano per lo spostamento d’aria.
Non ci furono vittime – si seppe l’indomani – tranne un bambino della città vecchia che nel buio s’era versato addosso una pentola d’acqua bollente ed era morto. Ma la bomba aveva d’un tratto svegliato ed eccitato la città, e, come capita, l’eccitazione si rivolse su un bersaglio fantastico: le spie. Non si sentiva raccontare che di finestre viste illuminarsi e spegnersi a intervalli regolari durante l’allarme, o addirittura di persone misteriose che accendevano fuochi in riva al mare, e perfino d’ombre umane che in aperta campagna facevano segnali agli aeroplani agitando una lampadina tascabile verso lo stellato.
Con Ostero andammo a vedere i danni della bomba: lo spigolo di un palazzo buttato giù, una bombetta, una cosa da niente. La gente era intorno e commentava: tutto era ancora nel raggio delle cose possibili e prevedibili; una casa bombardata, ma non si era ancora dentro la guerra, non si sapeva ancora cosa fosse.
Io invece non potevo togliermi di mente la morte di quel bambino bruciato nell’acqua bollente. Era stata una disgrazia, niente di più, il bambino aveva urtato nel buio quella pentola, a pochi passi da sua madre. Ma la guerra dava una direzione, un senso generale all’irrevocabilità idiota della disgrazia fortuita, solo indirettamente imputabile alla mano che aveva abbassato la leva della corrente alla centrale, al pilota che ronzava invisibile nel cielo, all’ufficiale che gli aveva segnato la rotta, a Mussolini che aveva deciso la guerra…
Questo è l’incipit del romanzo autobiografico di Italo Calvino L’entrata in guerra, pubblicato nel 1954 da Einaudi. Se volete continuare a leggere quest’opera divisa in tre racconti distinti, i cui elementi comuni sono il secondo conflitto mondiale, il protagonista e l’ambientazione ligure, potete trovarla nella biblioteca dell’Antica Frontiera.