Nata a Londra nel 1797, figlia di W. Godwin e di M. Wollstonecraft, fu seconda moglie di P. B. Shelley, delle cui opere curò la prima edizione critica (post., 1847). Pubblicò i romanzi: Frankenstein, or the modern Prometheus (1818), uno dei più originali esempî di romanzo gotico; Valperga (1823), vicenda romanzesca nell'Italia del Medioevo; The last man (1826), racconto della graduale distruzione della razza umana a causa di un'epidemia alla quale sopravvive un unico superstite; Lodore (1835), di carattere autobiografico, ecc. Scrisse anche Journal of a six weeks' tour e Rambles in Germany and Italy (1840-43). Gli ultimi anni di Mary Shelley furono pesantemente segnati dalla malattia. Dal 1839 soffrì di gravi emicranie e colpi apoplettici in varie parti del corpo che le impedirono di leggere e scrivere. Il 1º febbraio 1851, a Chester Square, morì all'età di cinquantatré anni per quello che venne definito un probabile tumore al cervello.
Per ricordare la grande scrittrice inglese abbiamo scelto il francobollo da 31 pence che la Royal Mail dedicò nel 1997, proprio in occasione del bicentenario della sua nascita, alla sua più celebre creatura, il Frankenstein pubblicato nel 1818 e oggi generalmente considerato il primo vero romanzo di fantascienza.
Gli eventi su cui si basa questa storia sono stati giudicati dal dottor Darwin e da alcuni fisiologi tedeschi non impossibili a verificarsi. Spero non si deduca da ciò che io presti la benché minima fede alla veridicità di questo parto della fantasia. D’altro canto, quando ho preso questo spunto per un’opera di fantasia, non mi figuravo solo di tessere una serie di trame soprannaturali e terrificanti. La vicenda da cui dipende l’interesse della narrazione non presenta gli svantaggi che s’incontrano nei racconti di spettri o di incantesimi. Appariva, invece, suggestiva per l’originalità delle situazioni che sviluppa e, per quanto impossibile nella realtà fisica, offre comunque all’immaginazione un punto di osservazione più alto e incisivo nel lumeggiare le passioni umane, di quello normalmente offerto dai rapporti tra eventi reali.
Ho così cercato di rimanere fedele alla verità dei principi fondamentali della natura umana, anche se non mi sono fatta scrupolo di innovarne le possibili combinazioni. L’Iliade, la poesia tragica greca, Shakespeare nella Tempesta e nel Sogno di una notte di mezza estate e soprattutto Milton nel Paradiso perduto seguono la stessa regola. E il più modesto dei romanzieri che cerchi di divertirsi e di divertire con le proprie fatiche può, senza arroganza, permettersi nella prosa una libertà, o piuttosto una regola, assumendo la quale si sono già realizzate tante delicate alchimie di sentimenti umani nei più alti capolavori della poesia.
La circostanza su cui si basa la mia storia fu suggerita da una conversazione casuale. Iniziai il racconto in parte per diletto e in parte per mettere alla prova le risorse inespresse della mia mente. A questi motivi altri se ne aggiunsero via via che l’opera si evolveva. Non sono indifferente all’impressione che le tendenze morali insite nei sentimenti o nei personaggi della vicenda possono suscitare nel lettore, tuttavia la mia principale preoccupazione in tal senso è stata di evitare gli effetti snervanti dei romanzi contemporanei e di mostrare la dolcezza degli affetti familiari e il valore della virtù su un piano universale. Le opinioni che sono connaturate al carattere del protagonista o che derivano dalla sua particolare situazione non vanno assolutamente considerate come mie: né sarebbe giusto scorgere nelle pagine che seguono una posizione in contrasto con filosofie di qualsiasi genere.
Un ulteriore motivo di interesse per l’autrice è che questa storia fu concepita nelle maestose regioni dove si svolgono le vicende principali e in compagnia di persone che non si può cessare di rimpiangere. Trascorsi l’estate del 1816 nei pressi di Ginevra. La stagione era fredda e piovosa e la sera ci riunivamo intorno al caminetto acceso, a volte dilettandoci con la lettura di racconti tedeschi di fantasmi, capitatici per caso tra le mani. Questi risvegliarono in noi il desiderio di imitarli, per gioco. Io e due altri amici (un racconto uscito dalla penna di uno di loro sarebbe assai più gradito al pubblico di qualunque cosa possa mai sperare di produrre io) decidemmo di scrivere ognuno una storia imperniata su un qualche evento soprannaturale.
Ma all’improvviso il tempo ritornò sereno. I due amici mi lasciarono per compiere un’escursione sulle Alpi, e tra quei magnifici panorami montani persero ogni ricordo delle loro spettrali visioni. Il racconto che segue è l’unico che sia stato portato a termine.
M.W.S.
Marlow, settembre 1817
Quella che avete letto è la prefazione scritta dall’autrice per il suo capolavoroFrankenstein, scritto fra il 1816 e il 1817 quando aveva soltanto 19 anni, pubblicato nel 1818 e rimodificato dalla Shelley per una seconda edizione del 1831.
È questo il romanzo che genera il nome del dottor Victor Frankenstein e il personaggio dellacreatura, spesso ricordata come mostro di Frankenstein, i quali a livello popolare sono erroneamente ricordati sotto lo stesso nome.
È probabilmente grazie alla figura del mostro, espressione della paura, al tempo diffusa, per lo sviluppo tecnologico, che il romanzo è divenuto immortale. Frankenstein è uno dei miti della letteratura proprio perché affonda le sue radici nelle paure umane. La “creatura” è l’esempio del sublime, del “diverso”, che in quanto tale causa terrore.
Dalla pubblicazione del libro, il nome di Frankenstein è entrato nella cultura popolare in ambito letterario, cinematografico e televisivo. È inoltre spesso utilizzato, per estensione, come esempio negativo in quello bioetico, alludendo al fatto che il suddetto dottore compisse esperimenti illeciti o eticamente discutibili.
Se volete continuare a leggere potete trovare il libro nella biblioteca dell’Antica Frontiera.