Monsieur e Madame Bernheim de Villers (0,85 €) e Gabrielle con la rosa (1,35 €). Dipinti di Renoir.
Il grande pittore francese morì a Cagnes-sur-Mer il 3 dicembre 1919. Fra i massimi esponenti dell'impressionismo. Renoir amava dipingere la vita quotidiana, gli stabilimenti balneari parigini, i balli, gli incontri al caffè, la gente comune che il suo straordinario talento ha reso immortale. La sua arte gli era talmente necessaria che quando in tarda età un’artrite deformante gli impedì l’uso delle mani si legò al polso il suo pennello pur di non rinunciare a dipingere.
Per rendere omaggio al pittore limosino abbiamo raccolto tutti i francobolli che la Francia ha dedicato a lui e alle sue opere nel corso degli anni. Di ogni emissione abbiamo pubblicato sopra la relativa immagine corredata di didascalia.
Jean Renoir
Renoir, mio padre
Nel mio giardino in California, accanto alla porta della cucina, c’è un arancio. Lo guardo e ne aspiro l’aroma. E tutto fiorito. Non posso vedere un arancio in fiore senza pensare a Cagnes; e il pensiero di Cagnes evoca immediatamente in me l’immagine di mio padre. È là ch’egli trascorse la parte migliore dei suoi ultimi anni; è là che morì. Nella sua casa, ai Collettes, il profumo degli aranci è sempre lo stesso, e i vecchi ulivi non si sono mossi. Ci ravvicina a lui soprattutto l’erba. È un’erba povera ma alta e fitta, grigia salvo in pieno inverno, composta dalle specie più varie e frammista ai più bei fiori selvatici che si possano immaginare. È qualcosa di secco e di rigoglioso, di grigio e di colorato insieme come lo sono spesso le cose nel Mezzogiorno della Francia. Il suo profumo non vi sale con violenza alle narici come l’erba nei dintorni di Aix-en-Provence, è di una qualità più fine ma indimenticabile. Se mi portassero ai Col lettes con gli occhi bendati, mi basterebbe sentire quel profumo per riconoscere il luogo.
L’ombra degli ulivi spesso è color malva; è sempre mobile, luminosa, piena di gaiezza e di vita. Se ci si lascia andare, si ha l’impressione che Re noir sia ancora lì e che a un tratto lo si possa udir canticchiare mentre strizza l’occhio alla tela. Egli fa parte del paesaggio. Non ci vuole molta fantasia per vederlo, il cappello di tela bianca curiosamente posato sul cranio altissimo. Il suo volto emaciato ha un’espressione di canzonatura affettuosa. Salvo durante le settimane che ne precedettero la morte, il suo corpo così magro e tutto paralizzato non faceva per nulla impressione, né a Gabrielle né a me, o ai miei fratelli e a tutti coloro che gli vivevano intorno. Vi eravamo abituati, così come Renoir stesso. Ora, a distanza di tempo, lo vedo ancor meglio. Mi vengono alla mente facili paragoni: ad Algeri, gli europei chiamano i vecchi arabi “tronchi di fico”; in Francia, gli scrittori che ostentano atteggiamenti falsamente contadineschi usano spesso l’espressione “ceppo di vite” per definire un uomo di campagna magro e storto. Tali immagini si fondano su analogie puramente fisiche. Per quel che riguarda Renoir, si può spingere oltre il paragone ed evocare i generosi, magnifici frutti che il fico e la vite traggono da una terra sassosa.
Mio padre aveva qualcosa di un vecchio arabo e molto di un contadino francese, con la differenza che la sua pelle, sempre protetta dal sole per la necessità di tenere la tela fuori dai riflessi ingannatori, era rimasta chiara come quella di un adolescente.
Quel che colpiva gli estranei che s’incontravano con lui per la prima volta erano gli occhi e le mani. Gli occhi erano di un marrone chiaro, tendente al giallo; aveva una vista acutissima. Spesso ci indicava all’orizzonte un rapace che sorvolava la valle della Cagnes, o una coccinella che si arrampicava lungo un filo d’erba nascosto fra gli altri fili d’erba. Nonostante i nostri occhi di ventenni, eravamo costretti a cercare, a concentrarci, a interrogarlo, mentre lui scovava di colpo tutto ciò che lo interessava, fosse vicino o lontano. Questo per quanto riguarda le caratteristiche fisiche dei suoi occhi. Quanto all’espressione del suo sguardo, immaginatevi un misto di ironia e di tenerezza, di canzonatura e di voluttà. Sembrava che i suoi occhi ridessero sempre, che scorgessero anzitutto il lato divertente delle cose; ma era un sorriso affettuoso, buono. O forse si trattava di una maschera; era infatti estremamente pudico e non voleva che il prossimo si accorgesse dell’emozione, pari a quella che altri uomini provano nel toccare o nell’ accarezzare, che lo assaliva al solo guardare i fiori, le donne o le nuvole in cielo.
Aveva le mani deformate in maniera spaventosa; i reumatismi avevano fatto cedere le articolazioni ripiegando il pollice verso il palmo e le altre dita verso il polso. I visitatori non abituati a quella mutilazione non riuscivano a staccarne gli occhi; la reazione ed il pensiero che non osavano formulare era questo: “Non è possibile. Con delle mani simili non può dipingere questi quadri; c’è sotto un mistero!”. Il mistero era Renoir stesso, un mistero appassionante che in questa mia opera tento non di spiegare, ma solo di commentare. Potrei scrivere dieci, cento libri sul mistero Renoir e non riuscirei a esaurire l’argomento.
Dal momento che sto parlando del fisico di Renoir, permettetemi di completarlo rapidamente. Prima che restasse paralizzato era alto circa un metro e sessantasei. Alla fine, ammettendo che lo si fosse potuto raddrizzare per misurarlo, doveva essere senz’altro un po’ più basso, dato che la colonna vertebrale gli si era lievemente accorciata. I capelli, un tempo di un castano chiaro, erano bianchi, piuttosto abbondanti sulla nuca, mentre la sommità del cranio era ormai del tutto calva; ma non lo si vedeva perché aveva preso l’abitudine di tener sempre il cappello in testa, anche in casa. Aveva un naso aquilino ed energico. La sua barba bianca era bellissima e accuratamente tagliata a punta da uno di noi; una strana piega dovuta al fatto che gli piaceva dormire con le coperte tirate molto in su sotto il mento, la inclinava verso sinistra.
Il suo abbigliamento si componeva abitualmente di una giacca dal collo chiuso e di pantaloni lunghi che gli ballavano intorno alle gambe: i due capi erano di stoffa grigia a righe. La cravatta lavallière, azzurra a pois bianchi, era annodata con cura intorno al collo della camicia di flanella. Mia madre comprava le cravatte in un negozio inglese, perché i francesi hanno lasciato che a poco a poco l’azzurro si tramutasse in ardesia, “un colore triste, e il bello è che nessuno se ne accorge perché la gente non ha occhi. Il negoziante dice: ‘ È azzurro ’, e loro ci credono”. La sera, salvo in piena estate, gli si aggiungeva sulle spalle una piccola mantella. Calzava pantofole di feltro larghe e alte, grigie a quadri oppure color marrone, con chiusura metallica. Quando era fuori, si riparava dal sole con un leggero cappello di tela bianca; in casa portava di preferenza un berretto di tela con i lati ripiegabili, di quel tipo antiquato che i cataloghi dei negozi di novità presentavano agli inizi del secolo col nome di “berretto da automobilista”. Non aveva certo l’aspetto di un uomo del nostro tempo; faceva pensare a un monaco del Rinascimento italiano.
Un giorno Cézanne si lamentava con mio padre della boria di un ricco borghese di Aix-en-Provence: non solo quell’individuo aveva ornato il salotto con una tela di Besnard, “quel pompiere che va a fuoco”, ma si permetteva di cantare durante i vespri accanto a Cézanne e di stonare. Renoir, divertito, ricordò all’amico che tutti i cristiani sono fratelli. “Vostro fratello ha diritto di amare Besnard, e anche di stonare ai vespri. Non lo ritroverete forse in cielo?”. “No”, rispose Cézanne. E tra il serio e il faceto aggiunse: “In cielo, sanno benissimo che io sono Cézanne!”. Non si riteneva superiore al borghese di Aix, ma sapeva di esser diverso “come la lepre è diversa dal coniglio! … “. E aggiungeva: “Non sono neppure capace di esprimere i volumi come si deve … Non sono nulla! … “. Quel miscuglio di orgoglio grandioso e di umiltà non meno grandiosa poteva spiegarsi in Cézanne. A sessant’anni, non aveva mai conosciuto un grosso successo di vendite; non era mai stato ricevuto nel salotto di “Monsieur Bouguereau”. Renoir, al termine della sua esistenza, per quanto criticato, vilipeso, spesso insultato, aveva finito con l’imporsi. I mercanti d’arte si disputavano le sue opere; i grandi musei del mondo gli avevano aperto le porte; giovani di tutti i paesi, di tutte le razze, si recavano a Cagnes con la speranza di avvicinare il maestro per pochi secondi. Egli accettava questi omaggi senza montarsi la testa. Quando la conversazione diventava un elogio alla sua persona Renoir rimetteva subito le cose a posto: ” .. .Io, un genio? Che sciocchezza! Non prendo stupefacenti, non ho mai avuto la sifilide e non sono pederasta! E dunque? … “.
[ … ] Renoir riconosceva la necessità insita nel mondo moderno di ripartire il lavoro fra specialisti, ma non l’accettava per sé. Si ha male ai piedi: si chiama un pedicure; male ai denti? Si va dal dentista. Si è presi da malinconia? Ci si confessa a uno psicanalista. Nelle fabbriche un operaio fissa le viti, un altro regola i carburatori; un contadino coltiva mele, soltanto mele, mentre un altro semina grano. Il rendimento è ottimo. Milioni di carburatori, quintali di grano. Le mele sono grosse come poponi. Si supplisce alle qualità nutritive, scomparse col gigantismo, per mezzo di vitamine appropriate. E tutto funziona benissimo. Gli uomini mangiano di più, vanno di più al cinema, si ubriacano più spesso. La durata della vita umana aumenta e le donne partoriscono senza dolore. Tutta l’opera di Renoir, carica di vitamine naturali, è un grido di protesta contro questo sistema; anche la sua vita lo era.
Il mondo di Renoir è costituito da un tutto. Il rosso dei papaveri determina l’atteggiamento della giovane donna con l’ombrellino. L’azzurro del cielo si appoggia fraternamente sulla pelle di montone che copre il pastorello. I suoi quadri sono dimostrazioni di eguaglianza. Gli sfondi hanno la stessa importanza dei primi piani. Non sono fiori, volti, montagne, posti gli uni accanto agli altri, ma un insieme di elementi che si fondono, amalgamati da un amore più forte delle loro diversità. Quando si pensa a Renoir, si torna sempre a questo. Nel suo mondo lo spirito si libera dalla materia, non ignorandola ma penetrandola. Il fiore di tiglio e l’ape che se ne inebria seguono la stessa corrente percorsa dal sangue che circola sotto la pelle della fanciulla seduta sull’ erba. È la medesima corrente seguita anche dal famoso “turacciolo” a noi ben noto. Il mondo è uno. Quel tiglio, quelle api, quella fanciulla, quella luce e Renoir ne fanno parte allo stesso modo. E con essi gli oceani, le città, l’aquila sulla montagna, un minatore nel la miniera, Aline Charigot che allatta il piccolo Pierre. Ogni nostro gesto, ogni nostro pensiero trova la sua ripercussione in questo insieme compatto. L’incendio della foresta provocherà l’inondazione. L’albero trasformato in carta e poi in parole, porterà gli uomini verso una guerra, o verso la conoscenza di ciò che è bello e grande. Renoir credeva al fatto del mandarino cinese che, pur trovandosi a migliaia di chilometri di distanza, viene ucciso dal gesto inconsciamente omicida compiuto a Parigi. Poco prima del la guerra del 1914, in un caffè di Montparnasse, due emigrati russi si scambiano le loro idee; nel 1960 tutto il sistema sociale, che pure sembrava solido, è scosso dai risultati delle conversazioni di quei due uomini. Sotto i Cesari, molto lontano da Roma, un agitatore galileo è condannato alla crocifissione. E ciò significa la caduta dell’Impero romano, la rivoluzione universale, il canto gregoriano e la cattedrale di Chartres. Come credere che Renoir abbia potuto rifiutarsi di essere testimone, meglio, di partecipare ad un mondo in cui v’è più unità che non all’interno di un uovo? Che abbia potuto pensare di chiudere le imposte, di piantarsi dinanzi a una parete nuda e produrre tutto solo dei quadri in cui ogni tocco di colore è precisamente un’ affermazione di tale dipendenza? La verità è che il suo stomaco era come quello di uno struzzo. Digeriva tutto, il soggetto, la temperatura, la pressione atmosferica, il raffreddore, il crampo a una gamba, i muscoli, le viscere e le ossa, la fame e, più tardi, i dolori. Tutto, in lui e al di fuori di lui, ivi compreso l’insegnamento degli antichi maestri, contribuiva a da re una forma al suo segreto e a condividerlo con coloro che son disposti a guardare la sua pittura. Anche la sua intelligenza era partecipe di tutto ciò, per quanto egli ne diffidasse e la ponesse al disotto dei sensi. Quanto alla memoria, la considerava addirittura come una facoltà deleteria.
Se ammettiamo che esista un assoluto che raccoglie in sé tutto ciò che esiste, dobbiamo ben credere che il requisito fondamentale di questa entità sia l’equilibrio. Vi è equilibrio tra la rotazione di un satellite intorno a un pianeta sconosciuto e il sospiro di amorosa soddisfazione di una fanciulla, fra l’olocausto dei macelli e alcune note di Mozart, fra la migrazione delle cicogne e un’operazione di matematica pura, fra la fissione dell’a tomo e l’estasi di san Francesco d’Assisi. Alcuni grandi uomini hanno sfiorato lo stato di equilibrio fra la materia e lo spirito e si sono accostati al punto in cui l’approfondita conoscenza della materia consente di sfuggire alla materia stessa, anche se non del tutto, altrimenti usciremmo dall’umano. Ripeteremmo l’avventura di Lucifero. È ciò che hanno tentato di fare non pochi intellettuali che si sono rotta la testa per aver dimenticato che siamo fatti di un po’ di fango. Renoir diceva che vi sono persone che preferiscono la masturbazione all’accoppiamento. Tutti i pretesti esteriori si combinavano in lui per mettere in moto il meccanismo della creazione; tra quei pretesti bisogna ammettere anche le preoccupazioni di carattere tecnico. Ritorno al problema delle sue teorie dal quale mi sono allontanato per digressioni di cui non mi dolgo; queste teorie, al pari dei suoi continui tentativi tecnici, gli servivano anche da trampolino. Stava cercando di ottenere per mezzo di contrasti una certa tonalità di rosso? Oppure, avendo momentaneamente dichiarato guerra al nero avorio, indicava le ombre con il cobalto? Quell’ ombra azzurra determinava la composizione del suo quadro, magari il soggetto. Egli sceglieva un determinato angolo di campagna perché là l’ombra era azzurra e il messaggio che alla fine quel quadro ci indirizza non è stato il movente iniziale dell’opera; il movente fu proprio quell’ azzurro cobalto.
Per migliorare la nostra comprensione del procedimento creativo quale si svolgeva in Renoir, cito una delle sue frasi: “Non sono mica il Padreterno. È stato lui a creare questo mondo che io mi limito a copiare”. E per meglio precisare che non si trattava in realtà di copia nel senso stretto della parola, ci raccontava l’aneddoto di Apelle: in un concorso sul l’Acropoli, un artista rivale del maestro ateniese aveva presentato un quadro che sembrava dovesse superare tutte le altre opere esposte. Il quadro rappresentava alcuni grappoli d’uva così bene imitati che gli uccelli, prendendoli per veri, li andavano a beccare. Apelle, con un’occhiata che significava: “Adesso vedrete!” presentò il suo capolavoro. “È nascosto dietro quel drappeggio.” I giudici fecero per sollevare il drappeggio, ma inutilmente; era quello il soggetto del quadro.
Mi dispiace che non abbiate potuto sentire la risata con la quale concludeva questo aneddoto. Quello del calzolaio lo divertiva meno. Anche qui l’eroe è Apelle. Durante le mostre il maestro si nascondeva dietro il suo quadro per udire le critiche. Avendo un calzolaio notato che il sandalo di una delle figure rappresentate non era preciso, Apelle si mostrò, ringraziò il calzolaio e corresse l’errore. L’indomani, lo stesso calzolaio giudicò che la gamba della stessa figura era troppo magra. “Calzolaio,” gli disse Apelle, “limitati alla tua calzatura!” Renoir aggiungeva che i greci probabilmente conoscevano solo la pittura murale e quella delle statue e che il divertente di quelle storie è ch’erano pure invenzioni di “letterati”. Diceva inoltre che il giorno in cui i pittori fossero riusciti a dare l’illusione di un sottobosco, ivi compreso l’odore di muschio e il mormorio del ruscello, non vi sarebbe stata più pittura: invece di comprare il quadro, l’amatore sarebbe andato a passeggiare in un vero sottobosco.
Poco sopra ho accennato a due rifugiati politici russi che avrebbero fatto parlare di sé. Si tratta di Lenin e di Trotsky. Mio padre non li conobbe. Me ne parlò spesso Gabrielle. All’inizio del 1914, essa aveva sposato Conrad Slade. Andavano entrambi a mangiare da Rosalia a Montparnasse, un locale frequentato da Apollinaire, Modigliani, Picasso, Braque, Jean Marchand, Léger e molti altri. Gli Slade sedevano spesso alla stessa tavola con i due russi. “Non parlavano molto, avevano i vestiti logori, mangiavano poco e non bevevano. Ma si vedeva ch’erano persone chic, soprattutto il biondo.” Il biondo era Lenin.
La mia affermazione a proposito dell’importanza dei fatti esterni nella pittura di Renoir si estende a tutti i grandi artisti, ivi compresi Picasso, Braque o Klee. Ciò sembra in apparente contraddizione con la vicenda di Toulouse-Lautrec; io non lo credo e sostengo che il suo incidente giovanile ha avuto una parte secondaria, se non addirittura inesistente nel modo di esprimersi di questo pittore. Il suo trampolino di lancio fu innanzi tutto la straordinaria personalità dei suoi modelli; a quella personalità egli aggiungeva naturalmente la propria, in grado altissimo, poi riprendeva le sue osservazioni chiudendo il ciclo e affermando in maniera indiretta che questo mondo non è un caseggiato borghese dove gli inquilini dei diversi appartamenti fingono di ignorarsi. Anche senza la disgrazia accadutagli, avrebbe trovato ugualmente i modelli necessari alla sua ispirazione. Li avrebbe trovati nei caffè di Tolosa o proprio in quel Moulin Rouge dove sembrava dovesse condurlo il suo destino, “la grazia”, più che non la sua deformità. Voglio dire che, senza quei volti patetici, egli avrebbe stentato di più a trovare se stesso.
Secondo me, il passaggio dal celibato allo stato di uomo sposato fu, per Renoir, più importante delle teorie. Quell’uomo sempre in agitazione, incapace di star fermo, che balzava su un treno con la vaga speranza di godere della luce smorzata di Guernsey o di perdersi nei riflessi rosei di Blida, aveva dimenticato, da quando aveva abbandonato rue des Gravilliers, il significato della parola “focolare”. Ed ecco che si trovava di colpo in un appartamento insieme a una donna; pasti ad ore stabilite, un letto rifatto con cura e i calzini rammendati. E a tutti questi vantaggi stava per aggiungere presto quello di un figlio. L’arrivo di mio fratello Pierre avrebbe rappresentato una grande rivoluzione nell’ esistenza di Renoir. Le teorie della Nouvelle Athènes venivano superate da una fossetta formata da una piega nella gambina del neonato. Nel disegnare furiosamente suo figlio e, per restare fedele a se stesso, nel partire dalla preoccupazione esteriore di tradurre in pittura il vellutato di quella pelle appena formata, Renoir ricostruiva il suo mondo interiore.
Se volete approfondire vita e opere di Pierre Auguste Renoir potete continuare a leggere il volume a lui dedicato de I classici dell’arte nella biblioteca dell’Antica Frontiera.