Pisacane era un napoletano di famiglia blasonata, figlio cadetto del Duca di San Giovanni, che lo iscrisse al collegio militare della Nunziatella per farne un ufficiale di re Ferdinando, cui era egli stesso devotissimo. Era una buona scuola, una delle migliori d’Italia, perché era all’Esercito che Ferdinando dedicava tutte le sue cure, convinto che bastasse a difendere il suo trono. E invece proprio in quel collegio si formarono gli uomini che, agli ordini di Garibaldi, dovevano dare la spallata finale al Regno delle Due Sicilie e alla sua dinastia: i due Mezzacapo, Ulloa, Cosenz.
Il ragazzo prometteva bene non solo per il suo fisico a prova di qualsiasi sforzo e fatica, ma anche per il suo talento portato soprattutto alle scienze esatte. Tanto che ottenne in premio la nomina a paggio del Re, com’era capitato anche a Cavour, e lo rimase per quattro anni. Qualche suo biografo dice che fu questa esperienza, che lo mise a contatto con tutte le miserie della Corte, a gettare in lui il seme della ribellione. Ma ne manca qualsiasi prova, e temiamo che si tratti di supposizioni a posteriori. A ventott’anni, nel ’46, egli era un brillante ufficiale del Genio impegnato nella costruzione della nuova strada del Vomero, e nemmeno l’occhiutissima polizia borbonica lo sospettava di tendenze eversive. Parlandone da morto, Dall’Ongaro lo descrive biondo, con dolcissimi occhi azzurri e “un non so che di mesto e rassegnato” errante sulla “spaziosa fronte”. Ma i pochi ritratti che di lui ci restano lo mostrano invece tracagnotto, lo sguardo accigliato, le mascelle contratte in una smorfia imperiosa: connotati che, francamente, ci sembrano più in carattere col suo carattere.
Anche noi siamo convinti che in lui covava un ribelle, e di conferme, nella sua breve vita, ne troveremo a josa. Ma a fornirgli la prima occasione di rivolta fu una circostanza che non aveva nulla d’ideologico. Una notte fu trovato sulla porta di casa, mezzo dissanguato da una gragnola di pugnalate. I medici lo dettero per spacciato, ma la sua fortissima fibra ebbe la meglio. La polizia, alla quale aveva detto di essere stato aggredito da un rapinatore, indagò a lungo o forse non indagò affatto perché già sapeva di che si trattava. Pisacane aveva un’amante, Enrichetta di Lorenzo. Si erano conosciuti ragazzi, avevano sperato di sposarsi, poi lei era invece andata in moglie a un grossolano riccone, un certo Lazzari, da cui aveva avuto tre bambini. Donna leale e di severa educazione, aveva cercato di resistere alla passione per Carlo, ma non c’era riuscita. E le pugnalate rappresentavano certamente una liquidazione di corna da parte del marito: una liquidazione che la polizia borbonica trovava legittima e quindi non perseguibile.
Carlo confessò la sua “colpa” in una lettera scritta ai familiari al momento di partire con Enrichetta, ormai costretta dal “disonore” all’espatrio. E cominciò per loro una vita randagia di miserie e di fughe, che trovavano compenso solo nell’amore. Sbarcati a Livorno, dovettero subito sloggiarne per sottrarsi alla polizia toscana messa in allarme da una lettera personale di Ferdinando, “nel suo reale animo conturbato” dall’episodio e ben deciso a farsi consegnare i peccatori per un esemplare castigo. Dopo una lunga odissea, si rifugiarono a Londra, male accolti dai fuorusciti italiani che in lui, figlio di Duca ed ex ufficiale dell’Esercito borbonico, sospettavano una spia. Uno solo gli si mostrò amico: Gabriele Rossetti, padre del poeta, e ben ammanigliato nella società inglese. Ma nemmeno lui riuscì a salvarlo dall’espulsione comminatagli dalla polizia su richiesta di quella napoletana. A Parigi li arrestarono, e l’Ambasciatore di Napoli, sollecitato a intervenire, lo fece mandando alla prigione due pie e severissime dame perché convertissero Enrichetta e la riportassero sulla retta strada.
E’ nelle lettere scritte nelle pause di queste traversie che si colgono i primi segni della rivolta di Pisacane contro la società. Rossetti gli aveva dato una lettera di presentazione per un suo illustre compaesano, il generale Pepe. Fu costui a presentare Pisacane nell’ambiente degli esuli frequentato anche da illustri personalità francesi: Lamennais, Constant, Lamartine. E fu qui che il giovane napoletano cominciò ad allargare i suoi orizzonti culturali. Ma la sua condizione di paria bandito e braccato per motivi morali e di costume, lo rendeva poco disponibile agl’ideali di Mazzini. Più che sulla liberazione dell’Italia, egli poneva l’accento sulla rigenerazione di una società mummificata nei suoi privilegi e pregiudizi di classe, cui doveva la propria persecuzione.
Può sorprendere che un uomo delle sue idee chiedesse l’arruolamento nella Legione Straniera per una guerra imperialista come la conquista dell’Algeria. A spingervelo furono certamente il bisogno e la smania d’avventura. Lasciata Enrichetta presso degli amici a Marsiglia, s’imbarcò sulla fine del ’47, ma arrivò sul posto quando ormai gli algerini si erano arresi, e alla Legione non restavano che compiti di polizia.
Più tardi si disse che il sottotenente Pisacane riuscì ugualmente a mettersi in luce con una serie di duelli e un romanzo alla Jacopo Ortis. Ma di tutto questo manca qualsiasi traccia. E’ accertato soltanto che quando, tre mesi dopo, si congedò, ricevette dal Comando attestati di simpatia e di stima.
Aveva deciso di tornare perché anche ad Algeri erano giunte le notizie della “primavera italiana” del ’48. A Marsiglia riprese Enrichetta, con lei corse a Milano tuttora ribollente di barricate e si mise in contatto con Cattaneo che, nemico delle improvvisazioni in tutto, anche nella rivoluzione, apprezzò moltissimo le sue qualità di professionista della guerra. Da lui ebbe il comando di un’orda di volontari accorsi un po’ dappertutto, anche dall’estero, e riuscì alla bell’e meglio a trasformarla in una Compagnia di “Cacciatori”, che tuttavia di selvaggina rimase a corto perché fu esiliata nella zona morta di Tremosine, lontana dai campi in cui, dopo i vittoriosi scontri di Goito e Peschiera, Carlo Alberto si faceva battere da Radetzky. Fu solo mentre gli austriaci già marciavano su Milano che Pisacane poté affrontarne un piccolo reparto, riuscì a respingerlo e rischiò di perdere un braccio spappolatogli da una pallottola. Si precipitò al Comitato di Difesa per perorare un piano audace: sgomberare le truppe dalla città e attaccare di sorpresa il nemico alle spalle fra Bergamo e Brescia. Ma a sostenerlo non c’era più Cattaneo, già ritiratosi in Ticino.
Pisacane ve lo raggiunse poco dopo con Enrichetta. E lì trovò anche Mazzini che, colpito dalla sua “visione strategica”, se lo prese come consigliere militare. I due trascorsero giorni e notti, curvi sulle carte geografiche, a redigere vasti piani di operazioni per un esercito che non c’era. Ma subito fra loro affiorarono anche i contrasti. Anteponendo qualsiasi altra istanza a quella dell’unità e indipendenza nazionale, Mazzini puntava ancora sulla riscossa del Piemonte ed era pronto a collaborare con Carlo Alberto. Pisacane, al contrario, pensava che l’iniziativa della rivincita non potesse venire che dalle tre Repubbliche di Venezia, della Toscana e di Roma, le uniche in grado di capeggiare una guerra di popolo.
Gli avvenimenti, almeno lì per lì, sembrarono dargli ragione. Sceso di nuovo in guerra, il Piemonte si faceva definitivamente battere a Novara. E Pisacane, accorso a Roma, si diede anima e corpo alla realizzazione del suo disegno: fondere in un unico esercito quelli delle tre Repubbliche, attirandovi tutte le forze rivoluzionarie italiane. Ma Venezia era completamente bloccata, la Toscana si riprese, senza opporgli resistenze, il suo Granduca, e Roma non poté contare che su Roma.
Se volete approfondire la vita di Carlo Pisacane potete farlo sfogliando il libro di Indro Montanelli L’Italia del Risorgimento prelevandolo dalla biblioteca dell’Antica Frontiera.