L’8 settembre 1943, con il Proclama Badoglio che fece seguito a quello del generale Dwight D. Eisenhower lanciato da Radio Algeri un’ora prima, venne reso pubblico l’armistizio di Cassibile firmato per l’Italia il 3 settembre dal generale Giuseppe Castellano a nome del Presidente del Consiglio maresciallo d’Italia Pietro Badoglio fedele al re Vittorio Emanuele III. Brindisi divenne sede del governo e quindi capitale del Regno d’Italia.
L'Italia si ritrovò spaccata in due non solo politicamente e militarmente, ma anche da un punto di vista postale.
Le forze armate tedesche, approfittando dello sbandamento dell'esercito italiano lasciato senza istruzioni con la fuga del re a Roma, iniziarono da subito l'occupazione dell'intero territorio della penisola. La Sicilia, dove gli Alleati erano sbarcati il 9 luglio, fu la prima regione ad essere liberata e anche la prima cui venne destinata un'emissione postale diversa da quelle precedenti del Regno. Si tratta della serie di 9 valori su cui compare la dicitura Allied Military Postage e ITALY. Stampata a Washington ed emessa ufficialmente il 24 agosto 1943, in realtà soltanto il valore da 15 centesimi fu utilizzato nel periodo dell'occupazione per l'affrancatura delle cartoline destinate alle città, mentre gli altri 8 valori comparvero solo dopo l'armistizio. Le poste italiane mantennero in corso la serie finché fu possibile reintrodurre i francobolli dell'amministrazione centrale il 1° settembre 1944 e un mese dopo fu posta fuori corso come ogni altra serie del Regno.
Il 10 dicembre 1944 fece la sua comparsa una seconda emissione, originariamente destinata alla sola città di Napoli in occasione del ripristino del servizio postale e poi distribuita anche in altre province, soprattutto in Puglia. Si tratta dei tre valori da 20 c., 35 c. e 50 c. della cosiddetta serie Imperiale soprastampati con la scritta azzurra o rossa GOVERNO MILITARE ALLEATO.
Se al sud le varie regioni, una volta liberate, finivano per qualche tempo sotto l'AMG (il Governo Militare Alleato) per poi essere restituite alla sovranità italiana, ben diversa era la situazione al centro e soprattutto al nord, dove Mussolini, liberato da Campo Imperatore da un commando tedesco, aveva formato un governo repubblicano con sede nella zona del lago di Garda, fra Salò e Verona. La prima emissione della Repubblica Sociale Italiana, come venne ufficialmente battezzata il 25 novembre 1943, vide la luce il 20 dicembre di quell'anno. Si tratta della serie di 20 valori della cosiddetta serie Imperiale soprastampati con la sigla G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana). La serie ebbe validità fino al 15 agosto 1944, anche se i valori recanti l'effigie del "re traditore" (come veniva definito Vittorio Emanuele II) furono sostituiti appena possibile e infine posti fuori corso dal 15 marzo 1944.
I tentativi italiani d’ottenere che l’annuncio dell’armistizio fosse rinviato vennero respinti con durezza dagli Alleati. A Badoglio non restò che fare la sua parte. Era stato ordinato a Carboni di predisporre un microfono collegato con l’Eiar, ma Carboni s’era dimenticato, o aveva omesso, di eseguire. Il maresciallo si avviò pertanto in automobile verso la sede della Radio. Era in abito grigio, con cappello floscio. Verso le 19,30 entrò nell’auditorio O, dove era stato convocato lo speaker Giovan Battista Arista. Furono messe in onda marce militari e canzonette mentre avveniva la registrazione. Con voce neutra Arista presentò il maresciallo, la cui voce abbastanza ferma lesse finalmente il testo concordato: “Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la schiacciante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower… La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Erano le 19,45. L’Italia s’illuse che la guerra fosse finita.
Il Re, il Governo, i supremi comandanti militari erano chiamati a risolvere, annunciato l’armistizio, tre problemi: la tutela, per quanto possibile, delle forze militari italiane disseminate tra vari scacchieri e il più delle volte inchiodate al luogo in cui si trovavano dalla mancanza cronica di mezzi di trasporto; la difesa di Roma; la salvaguardia della incolumità personale della famiglia reale e delle maggiori personalità. Nella gerarchia delle preoccupazioni la terza diventò, fin dal primo momento, preponderante. In Provenza e Corsica erano dislocati 230 mila uomini, in Jugoslavia 300 mila, altri 300 mila in Albania e Grecia, 53 mila nelle isole dell’Egeo. In tutto 900 mila uomini, moltissime baionette, ma una forza infinitamente inferiore al numero. Dei due milioni di soldati che erano minacciati dai tedeschi, ma che a loro volta li potevano minacciare, nessuno parve ricordarsi, a Roma, nelle ore che seguirono. L’appuntamento per tutti i pezzi grossi era stato fissato, in caso di emergenza, al Ministero della Guerra (Palazzo Baracchini) in via XX Settembre, predisposto a difesa con postazioni di armi automatiche. Lì si trasferirono immediatamente il Re, la Regina, il Principe Umberto, gli aiutanti di campo, un cameriere e una cameriera. Vennero sistemati nell’appartamento del ministro, con due corazzieri di sentinella alla porta. Di ritorno dall’Eiar, Badoglio consumò nello stesso edificio una cena frugale e poi se ne andò a letto, mentre il ministro della Stampa e Propaganda disponeva che i quotidiani dell’indomani pubblicassero il testo dell’armistizio listato a lutto, con frasi di omaggio ai Sovrani, e senza accenni polemici verso i tedeschi. L’ultimo ordine di Ambrosio prescrisse: “Ad atti di forza reagire con la forza”.
Nella notte del 9 settembre Roatta decise di svegliare tutti e di predisporre la fuga. Si fece sapere al Re che si doveva partire. Non ci volle molto per convincerlo anche se avanzò una blanda obbiezione “Sono vecchio, cosa volete che mi facciano?”. Ambrosio si offerse di rimanere, ma poi imitò gli altri. Chiese tuttavia un po’ di tempo per dare qualche disposizione, e a Badoglio suggerì: “Forse anche tu, maresciallo, devi dare qualche disposizione”. Badoglio rifletté un momento, poi sentenziò: “Nulla. Io parto”. Alle 5,10, quando si annunciavano appena all’orizzonte i primi chiarori dell’alba, il Re salì, insieme alla Regina, a Puntoni e al tenente colonnello De Buzzacarini, sulla sua Fiat 2800 grigioverde. Badoglio seguì insieme al duca Acquarone e al fido Valenzano, in una terza vettura era il Principe di Piemonte. Dopo di loro, a intervalli abbastanza regolari “come per un rallyautomobilistico” ha osservato qualcuno, si mossero gli altri generali. Due autoblindo facevano da scorta. Cammin facendo, essendoglisi guastata l’auto, Badoglio passò in quella di Umberto di Savoia che, vedendolo infreddolito, gli prestò il suo cappotto militare. Con gesto furtivo Badoglio rimboccò le maniche, perché non fossero visibili i gradi. L’appuntamento era, per gli eletti che si era deciso di ammettere nella grande fuga, all’aeroporto di Pescara. Il convoglio di testa proseguì regolarmente traversando l’Appennino abruzzese – a Campo Imperatore, non molto lontano, era prigioniero Mussolini, della cui sorte nessuno parve interessarsi – e giunse ad un bivio, a una quindicina di chilometri da Pescara, nelle cui vicinanze era il castello di Crecchio, appartenente ai duchi di Bovino, ben conosciuti dalla famiglia reale. Su suggerimento di Umberto, il Re e la Regina decisero di sostarvi, in attesa di avere più precise informazioni.
A quel punto Umberto di Savoia fu preso da scrupoli: “Credo sia meglio che io ritorni indietro” disse a Badoglio che, ritrovata l’energia, lo redarguì: “Lei porta le stellette. E’ un soldato e deve obbedienza a me”. Nel pomeriggio le auto del Re e del seguito raggiunsero l’aeroporto di Pescara. Da Zara era stata chiamata a Pescara la corvetta Baionetta, da Taranto l’incrociatore Scipione l’Africano e la corvetta Scimitarra. Ma la popolazione della città stava dimostrando, a quanto venne riferito, insofferenza verso la comitiva che scappava, e fu preferito il molo di Ortona a Mare. Là si sarebbero tutti ritrovati, venne deliberato, a mezzanotte.
I fuggiaschi si divisero in tre gruppi. Badoglio e De Courten nell’aeroporto di Pescara, Ambrosio e Roatta a Chieti, i reali ancora nel castello di Crecchio. Badoglio preferì, non si sa mai, imbarcarsi a Pescara, dove la Baionetta aveva sostato. L’imbarco di Ortona a Mare doveva essere un segreto riservato a pochi. Ma radio-generale aveva funzionato, e il Re, che credeva di andarsene quasi in solitudine, e in un certo ordine, arrivò su una banchina gremita di individui agitati, parte in borghese, parte in divisa. “Cosa succede?” domandò seccato.
Puntoni si informò e apprese che una larga rappresentanza dello Stato Maggiore, 250 alti ufficiali con attendenti, familiari, carabattole, si erano precipitati all’appuntamento per seguire il governo, e arraffare altri onori, altre promozioni, altri nastrini, altre prebende, a ricompensa della sconfitta e della defezione. Roatta, in borghese con un fucile mitragliatore in spalla, pontificava, e Vittorio Emanuele III lo guardò scuotendo la testa. Assente fu invece in un primo momento la popolazione perché era stato dato, allo scopo di tenerla rintanata, l’allarme aereo, ma poi i curiosi cominciarono ad accorrere. Il Re era in ansia perché non vedeva Badoglio, e apparve molto stupito quando, rotti gli indugi e preso posto sulla bettolina dalla quale passò alla corvetta Baionetta – Umberto aveva dovuto gridare, per aprirsi un varco nella calca: “Siamo della famiglia reale” – scorse il maresciallo già a bordo. “Non più di trenta persone” urlava, e procedette personalmente alla selezione degli aspiranti alla partenza, sostituito poco dopo, in quell’incarico di portineria, da De Courten. Roatta riuscì a far ammettere il suo fido Zanussi, e Ambrosio il suo fido Marchesi, tra battibecchi umilianti.
Gli eletti furono in tutto 57, agli altri che rimasero a terra imprecando e mostrando i pugni – alcuni nella foga di squagliarsela erano saliti su una draga priva di equipaggio, che ovviamente non si mosse – fu promesso che sarebbe arrivata una seconda unità, a raccoglierli. La promessa, stranamente, fu mantenuta alle sette del mattino, allorché un’altra nave da guerra entrò nel porto. Ma i respinti si erano dispersi, e a testimonianza dell’unica vera battaglia che lo Stato Maggiore italiano abbia ingaggiato dopo l’8 settembre restavano solo fagotti e cartocci.
Se volete approfondire il giorno dell’Armistizio e la vergognosa condotta di Re, Governo e Stato Maggiore italiano dopo l’8 settembre 1943 potete farlo sfogliando le pagine del libro di Indro Montanelli Storia d’Italia – L’Italia del Novecento nella biblioteca dell’Antica Frontiera.