Il 3 ottobre 1935 l’Italia fascista attaccò l’Etiopia con le truppe guidate dal generale de Bono (sostituito l’11 novembre da Pietro Badoglio). Dopo sette mesi di strenua resistenza, e nonostante le sanzioni economiche imposte all'Italia da 51 dei 54 Stati che componevano la Società delle Nazioni, l'antico regno del Negus fu abbattuto con la violenza più feroce e l'impiego di armi chimiche, in particolare gas asfissianti.
Il 9 maggio 1936, mentre Benito Mussolini annunciava la rinascita dell'Impero sui colli fatali di Roma, Vittorio Emanuele III assumeva il titolo di Imperatore.
Da un punto di vista postale l'Etiopia italiana fu protagonista di un'unica serie di 7 valori celebrativa del nuovo capo di Stato. In territorio etiope continuarono infatti ad essere usate le carte valori dell'Eritrea e della Somalia, anche quando, nel 1938, l'Etiopia confluì nell'Africa Orientale Italiana.
Il 2 ottobre il popolo italiano fu convocato nelle piazze ad ascoltare, attraverso gli altoparlanti collegati alla radio, il discorso che Mussolini tenne dal balcone di Palazzo Venezia, in cui annunciò la guerra. Il 3 ottobre De Bono ricevette l’ordine di attaccare e il 6 ottobre fu conquistata Adua.
Se in un primo momento molte voci in Italia si erano alzate per protestare e criticare (dopo il delitto Matteotti questo fu forse il punto più basso della popolarità del fascismo), la velocità delle prime vittorie, enfatizzate al massimo dalla propaganda, galvanizzarono gli animi. Quando poi gli Stati aderenti alla Società delle Nazioni dichiararono di mettere in pratica le minacce e di ricorrere alle sanzioni economiche verso l’Italia per l’aggressione all’Etiopia, l’ufficio stampa del fascismo trovò terreno fertile per seminare rancore e risentimento: non era mai successo prima (e di “aggressioni” ce n’erano state a iosa) e perché incominciare proprio dall’Italia? Era una palese interferenza nelle scelte di espansione di una nazione sovrana, così si disse. E Mussolini toccò nei suoi discorsi le corde dell’orgoglio ferito, dell’indignazione. Il popolo italiano, povero, schiacciato dai Paesi ricchi, si raccolse attorno al Duce. La campagna per l’autarchia, già in vigore da anni, ripartì alla grande, spinta con impegno e abnegazione dall’Associazione delle vedove e delle madri di guerra. Malgrado la politica delle sanzioni fosse piena di buchi e facesse acqua da tutte le parti (molte nazioni aggiravano l’ostacolo vendendo prodotti alla Germania, che non faceva parte della Società delle Nazioni, la quale a sua volta li rivendeva all’Italia), il governo non perdeva occasione per parlare male dei “nemici”. Bisognava boicottare tutti i prodotti stranieri e utilizzare quelli alternativi fabbricati in Italia: il lanital, ricavato dalla caseina del latte, e la cisalfa, derivata dalla cellulosa, al posto della lana; il cafioc e tutte le altre fibre contrabbandate come “cotone nazionale” (che costava il triplo del cotone importato); il tessuto calabrese di ginestra e naturalmente l’orbace, ricavato dalle lane delle pecore sarde; il raion, in sostituzione della seta, che viene definito “il più moderno dei tessuti italiani e il più italiano dei tessuti moderni”, pubblicizzato con un convoglio di vetture provviste di vetrine (chiamato “autotreno del raion”) che, partito da Torino, attraverserà l’Italia settentrionale e quella centrale percorrendo 9000 chilometri; il caffè fatto con la radice di cicoria tostata; una specie di cuoio ottenuto con il cartone pressato (ne sapranno qualcosa i nostri soldati durante la campagna di Russia) e la gomma sintetica (che costava quattro volte il caucciù naturale). Essendo bloccate anche le esportazioni, il vino in esubero fu trasformato in alcol e utilizzato come combustibile per il motore di alcuni mezzi di trasporto (veniva a costare quasi sei volte più della benzina). E sempre l’alcol fu estratto anche dal riso e dalla barbabietola, quest’ultima coltivata anche per ricavare zucchero. Il costo più alto di questi prodotti ricadeva tutto sulle spalle degli acquirenti, mentre le industrie italiane, protette dalla concorrenza estera, si ritrovarono pubblicità gratis da parte del governo. Senza contare esenzioni varie e commesse di guerra. L’autarchia toccò anche il campo culturale: furono vietate le traduzioni di libri stranieri e l’importazione di giornali, riviste (anche scientifiche), dischi e film stranieri. Anche le parole straniere, entrate ormai nel linguaggio quotidiano, dovettero cambiare (via bar, autobus, tailleur, pullover…), sostituite dalla traduzione letterale (quando ciò non era possibile si rispolveravano anche termini dialettali).
Nel frattempo le sedi del Fascio si trasformarono in depositi di rottami: la mancanza di metalli fece partire una grande campagna di raccolta e molti cancelli e recinzioni finirono così la loro carriera.
Poi fu la volta dell’oro. La fede nuziale, l’unico gioiello che la gran parte degli italiani possedeva, venne data “spontaneamente” in dono alla Patria nel corso di cerimonie fra il civile e il religioso: in presenza di alte personalità politiche (spesso di Mussolini in persona) ed esponenti del clero (spesso vescovi), che si affrettavano a benedirli, gli anelli venivano gettati in bracieri ardenti, profumati d’incenso, per essere fusi. I personaggi più importanti si impegnarono per dare il buon esempio: la regina Elena fu una delle prime, ma anche senatori e arcivescovi si spogliarono di medaglie e croci.
Malgrado ciò il costo della guerra fu salato e la chiusura delle frontiere italiane, sia per le importazioni sia per le esportazioni, gettò l’economia in una fase di ristagno, aggravato dalle casse vuote (anzi piene di debiti).
Però la guerra fu breve. Sostituito il troppo esitante De Bono (di lui il Duce dirà: “E’ un vecchio cretino. Non a causa degli anni, che possono rispettare l’ingegno se c’è stato, ma perché è sempre stato cretino ed ora è anche invecchiato”) con l’ambizioso Badoglio e inviato anche Rodolfo Graziani, Mussolini iniziò a tempestare i suoi generali di telegrammi in cui li spronava a fare in fretta (autorizzandoli a usare i lanciafiamme e qualunque gas). In aperta violazione della Convenzione di Ginevra del 1925, dagli aerei italiani piovvero sulle popolazioni etiopi gas asfissianti (compresa l’iprite, usata per la prima volta durante la Prima guerra mondiale, che provoca ustioni cutanee dolorosissime che causano la morte per cancrena). Gli Etiopi si rivolsero alla Società delle Nazioni protestando per l’uso dei gas e per altre violazioni delle leggi di guerra (fra l’altro il bombardamento di reparti della Croce Rossa). Mussolini rispose che dietro gli emblemi della Croce Rossa il nemico nascondeva truppe e armi. Sostenne che gli Etiopi si comportavano da incivili commettendo ogni sorta di atrocità sui prigionieri e, inoltre, usavano delle pallottole esplosive (dette dum-dum) vietate espressamente dalla Società delle Nazioni. Chiamata in causa, quest’ultima iniziò una serie di accertamenti che però non portarono a nulla, anche perché gli Etiopi, forti solo della loro conoscenza del territorio, stavano ormai soccombendo: dopo poco più di sette mesi dall’inizio delle ostilità Pietro Badoglio, attorniato da un nugolo di giornalisti, faceva il suo ingresso trionfale in Addis Abeba. Era il 5 maggio 1936 e quattro giorni dopo il Duce proclamava ufficialmente dal balcone di Palazzo Venezia che l’Italia era un impero.
Vittorio Emanuele, neoimperatore, ringraziò e gli fece dono delle insegne di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Militare di Savoia, mentre il Gran Consiglio del Fascismo lo nominò “Fondatore dell’Impero”. Il Consiglio dei ministri nominò Badoglio viceré d’Etiopia, carica che questi, un mese dopo, cedette a Graziani ottenendo in cambio il titolo di duca di Addis Abeba, un congruo appannaggio e una villa enorme a Roma. E fece bene perché, come ha scritto Giorgio Rochat (“Le guerre coloniali dell’Italia fascista” in Le guerre coloniali del fascismo): “La proclamazione dell’impero italiano d’Etiopia il 9 maggio 1936 segnò la fine della guerra soltanto per l’opinione pubblica ed i governi d’Europa. In realtà le operazioni continuarono senza soste fino al tramonto del dominio italiano, con un minor spiegamento di forze, ma un ulteriore imbarbarimento della guerra”. Il fatto emerge anche dai resoconti raccontati da Ciano nel suo Diario quando, nel 1939, la carica di viceré d’Etiopia era passata al principe Amedeo di Savoia, duca d’Aosta: “Il Duce [...] è molto scontento della situazione nell’A.O. e pronunzia un giudizio severo sull’opera del Duca d’Aosta. In realtà l’Amara è ancora in piena rivoluzione e i 65 battaglioni che colà risiedono sono costretti a vivere nei fortini”.
Se volete approfondire le fasi della brutale conquista dell’Etiopia potete farlo sfogliando le pagine dell’atlante Nascita, affermazione, crollo del fascismo nella biblioteca dell’Antica Frontiera.