Cominciata nella notte fra il 30 e il 31 gennaio 1968, l'offensiva fu un grande e ben organizzato attacco a sorpresa che le forze nordvietnamite sferrarono contro tutte le principali città del Vietnam del Sud, all’epoca controllato quasi interamente dalle forze armate statunitensi, che avevano il loro quartier generale nella città di Saigon.
Il nome di questa ardua operazione militare tentata, con discreto successo, dalla NVA (North Vietnam Army), l’esercito nordvietnamita alleato dei vietcong, deriva dal particolare momento in cui fu avviata. Nella tradizione vietnamita infatti, il Têt Nguyên Dàn corrisponde al primo giorno dell’anno, che in quel calendario cade per l'appunto il 30 gennaio.
La tattica adottata dalla NVA fu quanto mai azzeccata: essendo il Têt per tradizione una festività osservata in tutto il Vietnam, il governo di Hanoi dichiarò pochi giorni prima del capodanno che avrebbe interrotto completamente le operazioni militari su tutto il territorio per sette giorni a partire dal 30 gennaio. Ovviamente si trattava di una palese trappola (architettata ingegnosamente dal leader della NVA, Vo Nguyen Giap), alla quale i comandanti americani abboccarono solamente in parte.
Convinti dell’impreparazione dell’esercito statunitense, i soldati nordvietnamiti, fiancheggiati dagli irriducibili vietcong, sferrarono così un violento attacco contro la base americana di Khe Sanh (a soli 8 km dal confine con il Laos), memori del successo conseguito a Dien Bien Phù nel 1954 contro i vecchi invasori francesi. Le prime fasi dell’offensiva furono sanguinose e caratterizzate da rapide azioni di guerriglia: gli americani riuscirono miracolosamente a salvare la loro base solamente grazie ad una serie di massicci bombardamenti sulle linee nemiche nell’ambito dell’ “Operazione Niagara” (composta da circa 30.000 sotto-operazioni militari). In tutto il Sud l’esito fu analogo: le divisioni della NVA e dei vietcong riuscirono a penetrare quasi interamente nel territorio del Vietnam del Sud, assediando letteralmente numerose città.
L’improvviso attacco dei nordvietnamiti, che in origine si aspettavano una rivolta popolare nel Vietnam del Sud a supporto della loro iniziativa militare (cosa che non avvenne), sferrò un duro colpo alla sicurezza degli americani e destò una rabbiosa reazione in patria: nei mesi successivi al gennaio del ’68 furono organizzate numerose proteste in America, principalmente studentesche, che si sarebbero poi diffuse in tutto il mondo occidentale, dando vita alla mobilitazione pacifista del biennio ‘68-’69, passata alla storia come portatrice del “vento del cambiamento”.
Da quel momento in poi l’esito finale della guerra del Vietnam sarebbe stato segnato in favore dei nordvietnamiti e le operazioni militari cessarono definitivamente nel 1975 con la presa di Saigon (il governo americano aveva già ritirato le sue truppe nella primavera del ’73 in seguito al Trattato di Parigi). Per gli americani si trattò di una sconfitta grave, dolorosa e mai dimenticata dai cittadini; era stata condotta per circa dieci anni una guerra inutile, sanguinosa, efferata e percepita come sbagliata dalla maggior parte dei partecipanti occidentali. Una guerra che lascerà per sempre una ferita profonda nell’orgoglio statunitense.
Per ricordare la grande offensiva vietnamita abbiamo raccolto le quattro emissioni ad essa dedicate, tre del Vietnam del Sud e una del Vietnam riunificato. Di ognuna di esse è possibile vedere le immagini e leggere una breve descrizione sopra.
La strategia che il comando supremo dell’Esercito nordvietnamita/vietcong (ENV /VC) aveva elaborato per la conquista del Vietnam del Sud era estremamente coerente; tuttavia gli americani non l’avevano presa nella giusta considerazione, trascurando quindi di trovare un modo per contrapporla. A livello generico, gli strateghi comunisti si erano basati sui principi maoisti della guerriglia in tempo di guerra. Ma, sempre fantasiosi, i vietnamiti avevano saputo adattare i concetti tradizionali alle circostanze specifiche. La strategia era stata delineata all’inizio degli anni Sessanta, quando l’America in Vietnam aveva solo consulenti, e venne tenacemente osservata per tutta la durata delle attività militari degli USA fino alla vittoria finale. In sostanza si rivelò una strategia vincente.
L’obiettivo fondamentale era provocare una ritirata delle forze americane dal Vietnam del Sud e avviare il processo di negoziazione con l’intento di istituire un governo comunista anche nella parte meridionale del paese. Per raggiungere tale scopo, il Fronte di liberazione nazionale si batté sia sul fronte politico, sia su quello militare e diplomatico. La battaglia politica aveva il compito di mobilitare sostenitori tra il popolo sudvietnamita, insidiando contemporaneamente il governo al potere. La componente militare doveva invece affrontare gli americani e i loro alleati direttamente sul campo per infliggere il maggior numero di perdite possibile. In battaglia non era necessario attenersi ad alcun obiettivo specifico. L’elemento diplomatico della strategia a tridente si sarebbe dovuto concentrare sulla sensibilizzazione dell’opposizione internazionale agli sforzi bellici dell’America e sulla promozione di dimostrazioni anti-interventiste all’interno degli Stati Uniti. Come spiegò un ufficiale vietcong:
«Ogni scontro militare, ogni dimostrazione, ogni richiamo alla propaganda era visto come parte di un disegno più ampio; ogni evento aveva conseguenze che andavano ben oltre le apparenze immediate. Era un disegno globale che ci permetteva di considerare ogni scontro un avvenimento psicologico.»
A metà del 1967, l’alto comando comunista decise che i tempi erano maturi per l’evento psicologico supremo: un’offensiva a sorpresa su scala nazionale in concomitanza delle festività del Tet, il capodanno lunare.
Mentre i comunisti iniziavano a pianificare l’offensiva del Tet, gli strateghi civili e militari americani si riunirono ad Honolulu. La conferenza ebbe sostanzialmente un argomento centrale: bisognava infatti trovare il metodo per impedire le continue infiltrazioni di truppe nemiche e di scorte nel Sud del paese. Inevitabilmente, questo portò a prendere in considerazione una strategia più ampia. Secondo la relazione finale della conferenza: “Non è stato possibile stabilire con esattezza e precisione la strategia statunitense in Vietnam … Una guerra di logoramento non fornisce né economia di forze né la possibilità di porre termine alle ostilità. ” In pratica la conferenza non fu in grado di delineare alcunché che potesse essere anche solo lontanamente chiamato strategia.
In termini più ampi, era dal 1966 che l’alto comando americano cercava uno schema dualistico. Il generale William C. Westmoreland descrisse questo approccio in un’intervista rilasciata mentre l’offensiva del Tet stava per esaurirsi: « … le forze sudvietnamite concertano i propri sforzi per garantire sicurezza alle zone popolate, mentre le forze statunitensi forniscono uno scudo di protezione più ampio, dietro il quale si possa svolgere la pacificazione.» Il concetto era che gli americani avrebbero agito al di fuori delle aree popolate, dove avrebbero potuto utilizzare la loro schiacciante potenza di fuoco e superiore mobilità contro l’Esercito nordvietnamita e le unità vietcong. Al termine della guerra, il generale di brigata Edwin Simmons, storico del Corpo dei Marines nonché veterano del Vietnam, commentò:
«È vero, abbiamo violato molti principi che stanno alla base di un conflitto. Non avevamo un preciso obiettivo, non avevamo un comando unito, non abbiamo mai preso l’iniziativa. La frase più comune era ‘forza di reazione’, proprio perché ci limitavamo a reagire al nemico. Le nostre risorse erano divise ed eccessivamente sparse. E, dal momento che non esisteva alcun obiettivo definito, misuravamo le nostre prestazioni con calcoli statistici.»
Sterili classificazioni del tipo «Giorni del battaglione in campo», «Villaggi controllati», o del più degno di nota «conto dei corpi», body count, sostituirono ciò che avrebbe dovuto essere una chiara direzione strategica.
Sul finire del 1967, il presidente Lyndon Johnson cercò di contrastare i dubbi sempre più numerosi dell’opinione pubblica circa il conflitto con una campagna propagandistica ben concertata. I comunisti stavano perdendo, seppur lentamente; questo era quanto bisognava sostenere. Il presidente stava cercando di guadagnare consensi a sostegno di una politica bellica limitata, ma a lungo termine. Con il senno di poi è facile sostenere che un simile atteggiamento non poteva rivelarsi né una strategia vincente né avrebbe condotto a un risultato anche solo dal punto di vista diplomatico. Il governo lanciava cosi un messaggio implicito, lasciando chiaramente intendere che non ci sarebbero state affatto sorprese sul campo di battaglia.
Nascita del piano
Nel luglio del 1967 l’alto comando comunista, tra cui i leader politici e militari provenienti sia dal Vietnam del Nord sia dal Vietnam del Sud, si riunì ad Hanoi. Dal momento che il Vietnam del Nord aveva richiamato tutti gli ambasciatori dall’estero perché partecipassero all’incontro, i servizi segreti americani vennero a conoscenza dell’avvenimento. Questo poteva essere il primo pezzo del rompicapo con cui l’intelligence avrebbe potuto prevedere l’imminente offensiva. Invece gli osservatori conclusero che la riunione aveva come scopo principale la discussione di una proposta di pace.
Riconsiderando gli avvenimenti, i leader comunisti ebbero a riconoscere che fino a quel momento la loro strategia di battaglia si era basata sostanzialmente su attacchi sporadici di precisione chirurgica contro obiettivi ben selezionati e su azioni quotidiane su scala ridotta, che avevano lo scopo di incrementare l’agitazione del nemico e minarne così la fiducia. Tuttavia, la tattica offensiva americana del 1967 non lasciava trasparire alcuna preoccupazione per il futuro. Secondo il commento di un generale vietcong:
«Nella primavera del 1967, Westmoreland diede inizio alla seconda campagna. Questa fu molto crudele. La nostra gente iniziò a essere veramente scoraggiata. Si discusse molto sull’andamento del conflitto e su come fare per il futuro: c’era chi sosteneva di andare avanti a piene forze e c’era chi avrebbe preferito attuare una strategia più locale. Ma a metà del 1967 concludemmo che l’equilibrio delle forze in campo non era ancora stato invertito e quindi si decise di portare avanti un attacco decisivo per costringere LBJ [Lyndon B. Johnson] ad arginare il conflitto.»
Questa dichiarazione è stata riportata in seguito agli avvenimenti, ed è quindi lecito dubitare che in quel momento gli strateghi possano veramente aver creduto di indurre gli americani a mitigare la natura del conflitto. Resta da notare il fatto che le tattiche americane stavano producendo risultati, e spingendo Hanoi a giocare fortemente d’azzardo.
Impaziente e preoccupato della piega che stavano prendendo gli avvenimenti, il generale Vo Nguyen Giap, Ministro della Difesa del Vietnam del Nord, propose un’offensiva su larga scala. È tuttora difficile sapere con esattezza quali fossero le aspettative dell’alto comando (ancora nel 1989 era praticamente impossibile avere accesso agli archivi del Vietnam del Nord), tuttavia Giap evidentemente pensava che una tale offensiva avrebbe potuto innescare una rivolta popolare nel Sud. Hanoi infatti denominò il piano «l’offensiva generale/la rivolta generale», a indicare la certezza che i civili sudvietnamiti avrebbero perorato la loro causa. Giap propose anche di attuare l’ offensiva durante i festeggiamenti per il capodanno lunare, vale a dire sei mesi dopo. I tempi lunghi erano imposti dalla lentezza e dalla tortuosità con cui si riusciva a spostare verso sud gli approvvigionamenti. Mentre il sacrilegio di attaccare durante il Tet poteva offendere molti vietnamiti, Giap pensava che il periodo di festa avrebbe potuto fornire la copertura ideale. In più c’era un precedente storico: nel 1789 i patrioti vietnamiti avevano attaccato le forze cinesi che occupavano Hanoi proprio durante le festività del Tet.
Per incoraggiare i combattenti del Sud, il Partito comunista si servì di una forza propagandistica straordinaria. Esemplare fu l’esortazione data dal comitato di provincia di Binh Dinh ai fidati ufficiali:
«La Grande offensiva può essere attuata solo una volta ogni 1000 anni.
Deciderà il destino del Paese.
Porrà fine alla guerra.
Rappresenta il desiderio del Partito e del popolo.
Presso le basi segrete all’interno del Vietnam del Sud e dei vicini sedicenti neutrali Laos e Cambogia procedevano gli sforzi mirati a rafforzare il morale. Il «Secondo Congresso degli eroi, dei combattenti e dei valorosi delle Forze armate di liberazione del popolo del Vietnam del Sud» si riunì per ascoltare il messaggio di Ho Chi Minh che si rivolgeva loro chiamandoli «fiori della nazione». Tra i tanti c’era un soldato con un solo braccio che aveva imparato a sparare con il gomito e che aveva ucciso due americani, uno specialista nel posare le mine che aveva al suo credito un totale non plausibile di 400 nemici ammazzati che gli era valso il titolo di «Valoroso killer degli americani». Un «eroe» di diciassette anni parlò al congresso; «se lui è capace di odiare, persino un bambino può uccidere gli americani.» Tutto ciò contribuì a infiammare gli spiriti vietcong.
L’euforia generale non era condivisa da tutti i leader comunisti. Il vice capo politico per Saigon era più in stretto contatto con la realtà del suo alto comando. Lui sapeva che le guerriglie urbane erano poche e mal organizzate. Quando espresse i suoi dubbi, i suoi superiori lo tacciarono di «eccessivo pessimismo» e gli consigliarono di lasciare la strategia a chi era migliore di lui.
In termini più generici, la conferenza di luglio ad Hanoi decretò che l’offensiva generale del Tet avrebbe dovuto portare il conflitto nei centri urbani sudvietnamiti fino a quel momento invio lati. Qui la gente avrebbe appoggiato il Fronte Nazionale di Liberazione e avrebbe rovesciato il governo di Thieu. Dal momento che nel 1968 ci sarebbero state le elezioni anche negli Stati Uniti, il successo dell’azione offensiva avrebbe convinto anche l’opinione pubblica americana che quella guerra era invincibile. Il colpo su Saigon avrebbe rappresentato un aspetto chiave dell’offensiva generale.
Esattamente come l’Esercito tedesco nella Seconda guerra mondiale, che avanzò segretamente attraverso una serie di zone appositamente allestite per cogliere di sorpresa i difensori americani sulle Ardenne, i vietcong portarono armi oltre il confine con la Cambogia attraverso i tunnel di Cu Chi e il cosiddetto Triangolo di Ferro. Gli uomini si radunavano nella rete di tunnel sotterranei, e lì ricevevano ordini dettagliati. Si mossero in modo sistematico verso la periferia di Saigon, e alla vigilia dell’attacco si riunirono in abitazioni appositamente preparate allo scopo. I loro agenti, per lo più donne e bambini, trasportavano armi oltre i punti di controllo della città mediante una varietà eccezionale di sotterfugi arrivando a nascondersi persino sotto il concime agricolo o all’interno di bare destinate ai funerali.
Mai Chi Tho, il commissario politico della regione comprendente Saigon, aveva pianificato l’attacco dalla base sotterranea nel Triangolo di Ferro con grande cura:
«Durante l’offensiva del Tet mi trovavo nel Triangolo di Ferro. Lavoravamo giorno e notte. Era un momento di attività segretissima ma frenetica. Vari nostri ufficiali erano incaricati di missioni di ricognizione, e si muovevano a Saigon con documenti falsi. La quinta colonna, i soldati e gli ufficiali che erano riusciti a infiltrarsi nelle installazioni militari avversarie, tornavano a fare rapporto in qualche modo.»
Da questi rapporti i vietcong ricevettero informazioni dettagliate sulle forze difensive che avrebbero dovuto affrontare.
L’offensiva del Tet portava il marchio inconfondibile del generale Giap. Egli aveva cercato di mettere a punto una strategia militare distribuita su tre fasi: resistenza offensiva, generale e rivolta generale. La strategia si basava sull’evoluzione dalla guerriglia tipo hit-and-run alla formazione di unità regolari mirate alla conquista di bersagli precisi, rendendo però necessaria una grande concentrazione sul campo di battaglia, e fornendo così alle forze americane facili bersagli per la loro potenza di fuoco.
Gli strateghi comunisti speravano di utilizzare le risorse catturate in svariati modi, anche i più fantasiosi. Artiglieri dell’ENV avrebbero dovuto accompagnare un attacco contro una base di artiglieria dell’Esercito sudvietnamita (ESV) nelle zone collinari del centro, dopodiché avrebbero distribuito i pezzi di artiglieria raccolti ai loro uomini. Analogamente, a Saigon, truppe corazzate dell’ENV sarebbero intervenute dopo un attacco centro di addestramento dell’ESV e al avrebbero confiscato i mezzi corazzati. Vicino a Saigon un’altra squadra di artiglieri avrebbe operato con le attrezzature catturate da un centro di addestramento di artiglieria. I dirigenti comunisti speravano di fornire così ai propri soldati le armi pesanti di cui avevano sempre lamentato la mancanza. Intanto un gruppetto di soldati trasportava di soppiatto un discorso registrato di Ho Chi Minh che aveva lo scopo di promuovere una rivolta popolare contro il governo sudvietnamita. L’idea era di trasmettere il discorso dopo che le truppe d’assalto avessero occupato la stazione radiofonica nazionale del Vietnam del Sud.
Se volete approfondire la grande offensiva scatenata dall’esercito nordvietnamita e dai vietcong la notte del capodanno vietnamita potete farlo sfogliando il volume di Eserciti e battaglie L’offensiva del Têt 1968 – Il punto di svolta della guerra del Vietnam nella biblioteca dell’Antica Frontiera.