Il bombardamento del 29 gennaio 1944 fu uno dei più pesanti della guerra e quello che produsse i maggiori danni ai monumenti della città di Bologna. In tre successive ondate, tra le 11,30 e le 12,50, la città venne colpita da 80 fortezze volanti americane. Quasi tutte le bombe caddero nel centro storico. Vennero distrutti l'antico Teatro Anatomico in legno e la Cappella dei Bulgari all'Archiginnasio, il teatro del Corso e la chiesa di San Giovanni in Monte, l'oratorio di San Filippo Neri e la casa natale di Guglielmo Marconi, diversi palazzi lungo via Indipendenza. Venne inoltre gravemente danneggiata la sede del quotidiano cattolico "L'Avvenire d'Italia" in via Mentana. Fortunatamente resistettero i rifugi antiaerei cittadini e, nonostante la violenza dell'attacco, si contarono "solo" 31 morti. Nei giorni seguenti il bombardamento, il personale dell'Archiginnasio si impegnò a recuperare migliaia di manoscritti e libri spesso smembrati e lacerati. Il 4 febbraio la parte più pregevole del patrimonio della biblioteca sarebbe stata ricoverata a Casaglia con i cataloghi e gli inventari e i servizi di lettura e prestito sarebbero stati garantiti in via provvisoria presso le scuole Bombicci in Saragozza.
Non sono mai stati emessi francobolli riguardanti la distruzione del Teatro Anatomico dell'Archiginnasio. Per ricordare le tragiche ferite inferte a Bologna e ai suoi monumenti abbiamo quindi scelto i tre valori riguardanti il Palazzo della Mercanzia (detto anche Loggia dei Mercanti), sede prima della Corporazione e poi della Camera di Commercio. Anch'esso fu danneggiato da una bomba d'aereo ma, contrariamente a quanto la scritta latina usata dalla propaganda fascista farebbe supporre - hostium rabies diruit (la furia del nemico distrusse) - questa era caduta nei pressi del portico del Palazzo ed era rimasta inesplosa. Fu invece un sottufficiale tedesco a farla brillare il 27 settembre 1943, distruggendo quasi completamente il lato orientale del Palazzo. I lavori di ripristino dello storico edificio vennero avviati dal soprintendente Barbacci soltanto nel maggio 1944 e adeguatamente celebrati il mese successivo dal regime repubblichino con i due francobolli color rosa/rosso da 20 centesimi delle serie dedicate ai monumenti distrutti. Il primo dei due venne poi riemesso, a guerra finita, con la soprastampa delle Poste Italiane e il nuovo valore da 1,20 lire.
Per esempio: una giovane signora da condurre a spasso, a scoprire le segrete bellezze di questa città. Una cosa, insomma, che può capitare, di tanto in tanto (sempre più di rado, ahimè).
E come fare se, per esempio, la signora arriva qui da una città ove i capolavori te li trovi davanti al naso ad ogni svoltar di calle? mentre a Bologna tutto quanto pare comporsi in una media dignità, senza strepiti, senza sorprese?
Le statue di Nicolò nella chiesa della Vita, certo; ma poi, e senza allontanarsi dalla piazza, perché magari la signora vuole anche far la spesa? Ma una sorpresa, a Bologna, la si trova sempre. Lì dentro, fra le pareti odorose di legno dell’aula anatomica della vecchia università, all’Archiginnasio, si è quasi sempre soli; o in buona compagnia: non più d’un paio di tedeschi, o d’inglesi, attempati e curiosi, con la loro guida in mano, a bisbigliare.
Se non ci fosse qualche vecchia fotografia all’ingresso, nessuno potrebbe immaginare lo scempio di quel luogo dopo il bombardamento del gennaio 1944. E quel che oggi si vede è un muto, ed è un eloquentissimo esempio di quanto siano vane le teorie sul restauro.
E di quanto la pratica del restauro debba alla sensibilità manuale degli artigiani, e alla volontà amorosa di non far morire la storia, combattendo anche contro di essa (visto che anche le bombe fanno parte della storia).
Quasi tutto quel che si vede dell’architettura dell’aula è stato pazientemente ricostruito a guerra finita, senza mutare né uno spigolo né un ricciolo della compassata architettura seicentesca di Antonio Levanti, che lì lavorò per una decina d’anni, fra il 1638 e il 1649.
Perché appunto d’una architettura si tratta, e non d’un arredamento. D’una architettura, se volete, teatrale: come spesso sono le architetture bolognesi. L’ingresso, ecco, è spostato in un angolo, ed entrando si coglie l’ambiente tutto di sguincio, e pare perfino più vasto e quasi maestoso. E c’è chi recita: i maestri antichi della medicina, che gestiscono in lente movenze dalle nicchie tutt’intorno. E c’è anche un elegante podio, per chi dirigeva tutta la coreografia. Le statue che vedete sono d’un secolo più tarde dell’architettura.
Le scolpì uno scultore lucchese, Silvestro Giannotti, verso il 1734. E il nostro Ercole Lelli si offrì d’intagliare a sue spese (ma lasciandovi, almeno, il proprio nome sui piedistalli: come potete vedere) i due «scorticati» che fiancheggiano la cattedra del docente.
Sono statue davvero sorprendenti: vi si mescola senza dissidio la chiarezza didattica dell’età dei lumi, ed un’eleganza, come dire? quasi incorporea, che sa di coreografia e di corpo di ballo. Non per nulla quell’aula universitaria veniva chiamata, da tutti, col nome di teatro: perché vi convivevano una verità perfino sadica, e quella suadente finzione che è spesso la lezione accademica.
Questo post, tratto dal piacevolissimo libro di Eugenio Riccòmini Aprilocchio – le cinquanta cose più belle di Bologna e disponibile nella biblioteca dell’Antica Frontiera, è dedicato a tutti quelli che amano scoprire i tanti tesori nascosti del capoluogo emiliano.